Un’ecologia della moda
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Un’ecologia della moda

Cosa significa sostenibilità e come si applica ai tessuti? Un viaggio tra tendenze e design

Caterina Crepax | Neri Oxman | Elena Naumann | Kate Fletcher

Un’ecologia della moda
Scritto da Redazione The Plan -

L’idea è che i consumatori abbiano via via sempre più desiderio di contribuire, attraverso le scelte quotidiane, a una riduzione del proprio impatto sull’ambiente, sulla natura; sempre più desiderio di un’umanità sostenibile. Questa tendenza, stando ai report degli ultimi tre anni di McKinsey & Company, va a riflettersi anche sulle linee d’azione e di maggior tendenza della filiera della moda e del fashion che, già prima della pandemia, ha visto tra i suoi dieci principali temi d’azione la rivoluzione dei materiali, la cultura dell’inclusività e misure improntate sulla sostenibilità. Sono questi, infatti, gli ambiti di maggior attrazione individuati da The State of Fashion 2020, scritto in collaborazione con The Business of Fashion, i quali sono stati in parte ripresi nell’ultimo rapporto pubblicato:

«A livello globale, l’industria della moda è responsabile di circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno […] – si può leggere in The State of Fashion 2022 –. Allo stesso tempo, la produzione di tessuti necessita di un consumo di una vasta quantità d’acqua e di materie prime».

Solo nell’Unione europea, secondo i dati raccolti da McKinsey, il settore tessile e della moda è il quarto maggior consumatore, appunto, di acqua e di materie prime, dietro soltanto a quelli alimentare, abitativo o delle costruzioni e dei trasporti. Per questo è sempre più necessario e imminente l’avvio di un percorso di transizione verso un’economia circolare capace di ridurre gli scarti di produzione, la carbon footprint e il consumo di materie prime.

Ciò a cui bisognerebbe guardare in modo prioritario e privilegiato, proprio come sottolineato dal report 2022, è il cosiddetto closed-loop recycling, ovvero un modello di economia circolare che viene a instaurarsi nel momento in cui uno scarto di prodotto tessile (sia di post-produzione, sia di post-consumo) viene riciclato in nuovi tessuti, rimanendo dunque in costante circolarità nello stesso settore produttivo. Un modello che si contrappone all’open-loop recycling, quello che porta a un riciclo in un prodotto di una diversa filiera.

Quello di cui ci sarebbe bisogno in questo momento, pertanto, come emerso da tali documenti ma anche dai dibattiti scaturiti in occasione del conclusivo graduation show della Design Academy Eindhoven, è un’accelerazione di queste dinamiche: alcuni spunti d’azione, però, potrebbero essere tratti proprio da alcuni lavori presentati dagli studenti e dalle studentesse dell’accademia olandese, i quali hanno il merito di sollecitare anche una riflessione sulle modalità alternative al cosiddetto “fast fashion”. Quale il costo ambientale e sociale di abiti, per così dire, usa e getta, da indossare una manciata di volte per poi essere gettati?

 

Come è intervenuta la Commissione europea

La gentilezza della carta. La sostenibilità è bellezza, Caterina Crepax ©Guido Calamosca, courtesy of Bonaveri

Un impulso in più per continuare su queste traiettorie, come detto, potrebbe arrivare dalle nuove generazioni di designer, ma anche dalla Commissione europea che, per contrastare un abuso del termine «sostenibile», a fine marzo ha presentato un ampio pacchetto di proposte sul Green Deal europeo, volto a rendere i prodotti effettivamente sostenibili la norma.

Tra queste, che in linea generale puntano ad avere beni fisici rispettosi dell’ambiente, circolari ed efficienti sotto il profilo energetico lungo l’intero ciclo di vita, vi è anche una specifica strategia per rendere «i prodotti tessili più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili – si può leggere in una nota –, una strategia tesa ad affrontare la moda veloce, i rifiuti tessili e la distruzione dei tessili invenduti e a garantire che la loro produzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori. […] Le misure specifiche comprenderanno requisiti di progettazione ecocompatibile dei tessili, informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e un regime di responsabilità estesa del produttore dell’Ue». Per affrontare la questione della moda rapida, la strategia invita inoltre le imprese «a ridurre il numero di collezioni per anno, ad assumersi le proprie responsabilità e ad agire per ridurre al minimo l’impronta ambientale e di carbonio; ed esorta gli Stati membri ad adottare misure fiscali favorevoli per il settore del riutilizzo e della riparazione».

 

Left to us di Elena Naumann

Tessuti per kimono

Tra le studentesse laureate nel 2021 all’accademia di design di Eindhoven vi è Elena Naumann che, con il suo progetto Left to us nominato per il Renè Smeets Award, ha indagato proprio il potenziale dei tessuti di scarto. Ciò che è emerso dal suo lavoro è la “diagnosi” di un mondo con la malsana abitudine di sprecare grandi quantità di tessuto ma, senza accettare di rimanere a guardare, la sua iniziativa ha portato un “elegante rimedio”: la sua proposta è infatti quella di combinare diversi tipi di materiali a seconda dei rispettivi pesi, prendendo come modello di riferimento un kimono. Una scelta, quest’ultima, che deriva dalle linee dritte e dal taglio ampio che lo rendono flessibile e adattabile a diverse esigenze stilistiche, come possono essere quelle legate a una giacca o a un abito. Il suo motto, dunque, è quello di lasciarsi coinvolgere da un’indagine nel mondo del business degli avanzi tessili.

 

Neri Oxman e la Material ecology

Bachi da seta

Il design, la forma e la composizione materiale dell’architettura come della moda possono funzionare in armonia con gli ecosistemi che abitano? L’intero lavoro pionieristico di Neri Oxman va nella direzione di trovare risposte a questi interrogativi, tanto da aver ideato il concetto di Material ecology, «una filosofia di design, un’area di ricerca e un approccio scientifico che esplora, informa ed esprime le interrelazioni tra il costruito, il coltivato e l’aumentato». Muovendosi all’intersezione tra la tecnologia e la biologia, infatti, l’architetto e designer Oxman, che dirige un team al Mit di Boston, vuole cercare un nuovo modo di progettare e costruire il modo di vivere nel mondo, passando dal consumare la natura all’aumentarla. Ecco che i suoi progetti, architettonici quanto artistici e di design, vantano proprietà fisiche in grado di adattarsi all’ambiente, senza deterioralo: dalla rigidità all’elasticità, dal colore alla trasparenza.

Le tecnologie sviluppate e utilizzate permettono di progettare e di produrre con un approccio radicalmente innovativo: quasi ogni biomassa viene trasformata in biomateriali utilizzabili per una varietà di scopi, compresa la realizzazione di indumenti da indossare. Il mais, per fare un esempio, può essere trasformato in plastica.

Con la collezione Wanderers è riuscita a creare abiti stampati in 3D, indossabili e, allo stesso tempo, capaci di generare una data quantità di biomassa: alcuni convertono luce in energia, altri illuminano con la propria fluorescenza il buio. In altre parole, ogni abito trasforma elementi in atmosfera in altri di sostegno alla vita. Tessuti dunque costituiti da materia vivente, ingegnerizzata, con funzionalità del tutto nuove rispetto agli standard consueti: gli abiti del futuro non saranno più di fibre? Non saranno più inanimati?

Tra le sue installazioni più iconiche, inoltre, il Silk Pavilion, una cupola vivente creata con centinaia di bachi.

 

>>> Scopri Reform chair, una seduta dalle forme scultoree, realizzata in materiale riciclabile con una stampante 3D.

 

La gentilezza della carta. La sostenibilità è bellezza di Caterina Crepax

La gentilezza della carta. La sostenibilità è bellezza, Caterina Crepax ©Guido Calamosca, courtesy of Bonaveri

La possibilità di far coesistere e dialogare in modo efficace la moda e la sostenibilità è stata posta al centro della mostra di abiti di carta firmati da Caterina Crepax: La gentilezza della carta. La sostenibilità è bellezza il suo titolo, un’esposizione di 18 abiti tenutasi da dicembre 2021 ad aprile 2022 a Bologna, negli spazi della Fondazione Fashion Research Italy.

Abiti in carta, vere e proprie opere d’arte plasmate dalla manualità, vogliono essere un omaggio alla bellezza. Bellezza anche della sostenibilità. La mostra mette in scena la visione dell’artista e il suo immaginario onirico, in un susseguirsi di pattern e colori: un’esaltazione dello stile italiano e un’esplorazione di temi importanti e attuali come la sostenibilità e lo spreco. Al centro, un materiale circolare, capace di trasformarsi sempre, come la carta appunto. Si tratta di una materia leggera che dà forma ai sogni, alla natura, al mondo orientale, alla mitologia classica, prodotta con il 100% di fibre riciclate dalla storica cartiera Cordenons. Anche i manichini da esposizione hanno seguito la medesima filosofia: gli abiti sono infatti esposti sui manichini Schläppi 2200 di Bonaveri, realizzati con un materiale generato da fonti rinnovabili. L’azienda ha presentato nel 2016 il suo primo manichino biodegradabile: le figure sono infatti prodotte in un materiale plastico naturale e biodegradabile, chiamato BPlast, fatto per il 72% di derivati della canna da zucchero e utilizzano BPaint, una vernice a sua volta a base vegetale. Una produzione, quella dei manichini sostenibili, che consente di ridurre le emissioni di CO2 rispetto alle plastiche di origine petrolchimica comunemente impiegate.

 

Kate Fletcher e la logica del mondo

La gentilezza della carta. La sostenibilità è bellezza, Caterina Crepax ©Guido Calamosca, courtesy of Bonaveri

«La più grande opportunità per il settore della moda è quella di riconoscere come in nessun modo il futuro possa essere allineato a una logica di sola crescita economica. È necessario riconoscere invece come ci si trovi in un mondo finito e quanto si abbia a che fare con le limitate risorse del pianeta. Sono richieste nuove idee sul significato del “fashion che verrà”». Sono parole, queste, che Kate Fletcher ha rilasciato a The Guardian nell’ambito di un’intervista multipla con altri sei «visionari» per il futuro del mondo. Dal suo punto di vista, però, non è solo una questione di materiali, i quali da soli non potranno risolvere tutti i problemi del comparto, quanto un tema culturale:

«Sembra più probabile andare incontro a una riduzione di scala radicale – ha aggiunto Fletcher –, a un’industria della moda assai più localizzata. Ma proprio per questo molto più plurale e diversificata, attingendo così a tutte le tradizioni indigene».

Kate Fletcher è una pioniera della sostenibilità nella moda, nonché designer, attivista, scrittrice e professoressa alla University of the Arts London e alla Royal Danish Academy di Copenaghen. Insieme a Mathilda Tham ha scritto Earth Logic. Fashion action research, un libro che racchiude lo stesso pionieristico concetto da lei teorizzato di “earth logic”, «un invito visionario e radicale ai ricercatori della moda, ai professionisti, ai dirigenti d’azienda e ai responsabili delle decisioni a riconoscere l’impossibilità di coniugare la sostenibilità con la logica della crescita economica. Sostenibilità significa invece imparare a “stare con i problemi”, a immaginare la moda connessa con la natura, le persone e un futuro sano a lungo termine».

Nel 2018 ha anche scritto un libro, tradotto in italiano, dal titolo Moda, design e sostenibilità:

«Il paesaggio della moda è attualmente dominato dalle idee e dal linguaggio associati alla velocità – è un suo estratto –. Da dieci anni a questa parte i concetti di “fast fashion” e “slow fashion” sono utilizzati all’interno di neologismi tesi a connotare una vasta gamma di pratiche che sono di volta in volta più o meno a vasta scala, dominate dalla logistica, improntate alla crescita economica, etiche o ecologiche secondo modalità notevolmente influenzate dal settore del cibo. E infatti, proprio come il fast food, la “fast fashion” è prodotta in serie e standardizzata».

Da qui, dunque, un richiamo alla natura che, oltre a essere vitale per lei stessa, lo dovrebbe essere per tutti:

«La relazione con la natura per me è sia una necessità personale che qualcosa che riterrei vitale per tutti noi – si può leggere ancora –. L'alfabetizzazione ecologica che ho acquisito mi ha permesso di creare una bellissima amicizia con il mondo naturale. Stare nella natura non mi ha mai fatto sentire peggio. Per come la vedo io, il potere della natura deriva dalla nostra comprensione del suo valore, che è maggiore della sua utilità per noi. L’alfabetizzazione che questo ci dà – la conoscenza che offre ai designer – si colloca nel profondo e ha il potenziale di definire tutte le nostre idee e azioni in un modo straordinariamente potente». 

 

 

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