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L’architettura è un farmaco

Come il progetto di uno spazio può farci vivere meglio e senza controindicazioni nell’ultimo numero

L’architettura è un farmaco
Scritto da Redazione The Plan -

Vi siete appena recati dal medico per una cura molto promettente. Cercate la farmacia più vicina e ordinate quanto prescritto sulla ricetta. Volete iniziare subito la terapia. Nemmeno guidate fino a casa, aprite la scatola del farmaco e scorrete con gli occhi tutto il bugiardino: gli effetti collaterali li saltate, tanto sono “comuni” a quelli di tanti altri farmaci che assumete; e poi, perché proprio a voi dovrebbe capitare qualcosa?

Questo il punto. Nelle ultime settimane siamo stati in molti a sottoporci al vaccino da Covid-19, senza sapere (al momento) se questa sia la vera soluzione alla pandemia né quali saranno le conseguenze del miracolato siero che ci siamo iniettati. Qualcuno di voi ha forse ricevuto il bugiardino del vaccino? Lo avreste letto? Probabilmente no. O magari avendolo tra le mani ne avremmo forse sbirciato gli effetti collaterali, senza soffermarcisi più di tanto, così come reagiamo di fronte alle controindicazioni di altri farmaci. Perché? Perché di mezzo ci sono fiducia e speranza: la speranza che gli effetti delle azioni di oggi saranno benefiche per il futuro.

L’architettura è un farmaco proprio per questo motivo. È in grado di bypassare il tempo e far sì che la visione di un progettista di oggi sia garanzia della qualità della vita di una persona domani. L’azione di un progetto può avere effetto subito, ma molto più spesso la sua efficacia la si vede nel lungo periodo. Occuparsi di architettura e urbanistica oggi significa avere speranza e sapere che progettare spazi sani può realmente curare le persone. Salute pubblica e ambiente sono strettamente interconnessi.

Questa crisi, come altre in passato, ci ha offerto l’enorme opportunità di rivedere le nostre città con uno sguardo critico. Lo sappiamo da sempre, la storia dell’architettura ci insegna che per il nostro benessere fisico, mentale e sociale, il modo in cui progettiamo gli edifici che abitiamo è di vitale importanza. Che siano privati o pubblici, urbani o rurali, gli ambienti costruiti dovrebbero assistere alla salute di tutti i loro utenti.


L’ambiente fisico e sociale in cui viviamo ha un enorme impatto sulla nostra salute, a partire dai cambiamenti d’umore e dal tempo che trascorriamo nella natura, fino al modo in cui il nostro cibo viene prodotto e confezionato a come ci muoviamo all’interno di uffici, scuole e altri luoghi. Per questo motivo il progetto non dovrebbe essere limitato a un’agenda di emergenza come reazione temporanea a una crisi sanitaria pubblica e globale, perché le nostre città ci insegnano che alcuni effetti si verificano in un istante, altri si accumulano gradualmente, proprio come alcune medicine funzionano immediatamente mentre altre richiedono una terapia a lungo termine.

Quindi sì, l’architettura è un farmaco, e può davvero farci vivere in armonia. Ne è convinto Maurizio Sabini, direttore della rivista The Plan Journal, che ha costruito uno degli ultimi numeri sul tema dell’ “urbanistica sana.” Stanco di vedere come importanti e fondamentali ricerche provenienti dal mondo accademico non riescono a connettersi e dialogare col mondo reale, ha impostato un interessante metodo di disseminazione di studi e critiche innovative che ha come obiettivo quello di diffondere e promuovere ricerche multidisciplinari. Con questo approccio, il progettista-scienziato da una parte e la prospettiva di chi semplicemente vive il mondo com’è, può dare spazio a una creatività condivisa che potrà cambiare i nostri spazi trasformandoli in ambienti ricchi di benessere e armonia.

Riportiamo dal numero della rivista dedicata all’Health Urbanism le idee e visioni che ci hanno più colpito, da quelle dell’ambientalista-epidemiologo Richard Neutra che s’interroga (con tanto di numeri e prove sperimentali) sul perché la vista del verde da una stanza d’ospedale accelera il recupero post-operatorio, al provocatorio quanto visionario disegno delle Arche ecologiche per la sopravvivenza di Alberto Francini e Fabrizio Mangiaveti, lasciando a voi il piacere di sfogliare per intero gli articoli contenuti nel Journal.


>> Sfoglia qui il numero di The Plan Journal sull’Health Urbanism (in inglese)
 

Ippocrate vale per i medici, ma anche per gli architetti

Quando un medico si iscrive all’albo deve pronunciare il giuramento di Ippocrate, un testo scritto dall’omonimo maestro greco che definiva i requisiti necessari per entrare nella sua scuola e praticare l’arte medica. Il giuramento, rimodulato oggi nella forma ma intatto nei suoi principi fondatori, si apre così:

Consapevole dell'importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro […]
* di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona cui con costante impegno scientifico, culturale e sociale ispirerò ogni mio atto professionale;
* di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute […].

Ne riportiamo solo un estratto ma queste parole, così attuali e importanti, andrebbero spesso rilette e non solo ai medici. Senza doverci per forza abbassare di livello, potremmo dire che la stessa responsabilità vale per un designer, così come per un qualunque progettista. Specie perché è proprio la scienza a dirci quanto gli ambienti, interni ed esterni, siano potenti nel plasmare le nostre vite: spazi sani e ben progettati innescano azioni diverse e intercettano bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Gli spazi innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da disegni astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi li vive. Questo è il concetto chiave che sta emergendo e che recenti scoperte dimostrano: l’ambiente urbano ben progettato attiva le stesse vie biochimiche di farmaci come morfina e aspirina.

© Julius Shulman. 

 

Come ripartire dalla salute pubblica attraverso il design 

Il dr. Raymond Richard Neutra, ambientalista-epidemiologo, nel suo contributo di apertura al numero di The Plan Journal dedicato all’Health Urbanism, ha portato in luce l’ampia e dibattuta questione del legame tra salute pubblica e design. Questione che il padre, Richard Neutra, aveva già ampiamente studiato. Il Neutra Institute for Survival Through Design sta per ripubblicare il libro di mio padre, Survival Through Design. […] Tra la fine degli anni trenta e la data di pubblicazione nel 1953, egli si svegliava alle quattro del mattino e cominciava a scrivere le sue ricerche. Questa era anche l’ora del giorno in cui disegnava. Richard Neutra è stato un pioniere per l’approccio progettuale dell’architettura moderna, orientandolo alla salute e al benessere. Aveva individuato già molti anni fa l’importanza di costruire ambienti in grado di accogliere le esigenze del singolo: Lo spazio deve essere al servizio dell’individualità biologica nonostante la standardizzazione.

Molti di noi vivono in ambienti urbani standardizzati. Questi devono essere progettati per accogliere il nostro profondo biologico, la nostra individualità, proprio come devono essere le medicine e le dosi mediche: diverse da persona a persona.

Corona Avenue School a Los Angeles, California (1935). La natura come ambiente ideale per l’apprendimento. © Julius Shulman. 

Neutra s’interrogava anche sugli effetti del piacere: proprio come è possibile studiare in psichiatria che tipo di interventi compassionevoli sono efficaci, è possibile ricercare cosa funziona nel produrre benessere e piacere nell’ambiente costruito. È pazzesco che da una ricerca sperimentale, questi effetti che sembrerebbero “soggettivi” risultano in realtà avere conseguenze fisiologiche oggettive!

Perché una finestra sul verde fa guarire prima 

È la cosa più banale del mondo: una finestra che si affaccia sulla natura. Eppure Richard Neutra ha studiato a fondo perché una vista sul verde da una stanza d’ospedale accelera il recupero post-operatorio di qualunque paziente e di qualunque patologia. Avere a disposizione solo prove statistiche che una tale visione incrementa effettivamente il recupero post-operatorio non sarebbe sufficiente. Come ambientale epidemiologo, ho dovuto generare quest’ultimo tipo di prove. […]

>> Continua a leggere sugli esperimenti di Richard Neutra, nel ricordo del figlio Raymond, sul TPJ (in inglese)

Istock/CHANG JUNG YU

 

Arche ecologiche per la sopravvivenza: verso il Paradiso Perduto 

Questa visione progettuale di Alberto Francini e Fabrizio Mangiaveti è di certo più fantasiosa e poetica rispetto alla precedente, tutta basata sul legame tra neuroscienze e architettura. Anche lo scopo è diverso.

Questa è la storia alla base del progetto di Arche per la sopravvivenza, che per ovvi motivi prende spunto dalla Genesi e dall’arcinota arca di Noè:

L’umanità è in cima a un tragico spartiacque che divide un’era di disponibilità di risorse da un’epoca in cui la materia degradata sarà non solo il limite della nostra crescita, ma attuerà la fine del pianeta inteso come comunità dei vivi. Il nostro spazio vitale, frutto da sempre dell’atto ancestrale di insediarsi e trasformare il territorio, dovrà adattarsi a un’azione antropica sostenibile. Il dispositivo umano, la creazione umana, richiede una discontinuità che, passando attraverso la consapevolezza del disastro, determina un salto di significato, in cui il logos (la narrazione) riacquista il significato arcaico di raccogliere, abbracciare […].

L’Arca come nuova alleanza tra l'ambiente naturale e gli esseri umani. Fotomontaggi e diagrammi di © Alberto Francini e Fabrizio Mangiaveti.

Da subito si coglie l’obiettivo progettuale, che non è soltanto un obiettivo materico: cambiare completamente l’attuale narrativa mondiale e avviarne una nuova, pienamente compatibile con la tutela del pianeta e di tutti i suoi abitanti. Gli autori sono infatti partiti dal significato di “dispositivo” e dal suo ruolo in questa nuova narrazione: una nuova Arca salvifica, una macchina vivente ecologica in grado di ristabilire l’equilibrio tra le forme di antropizzazione e il pianeta. Le nuove Arche andrebbero a sostituire gli attuali dispositivi cristallizzati (inclusi i nostri edifici e le nostre città), incapaci di rispondere efficacemente al cambiamento in corso, al fine di preservare i sistemi umani, attaccati da nuove malattie sociali, ecologiche e sanitarie.

In questa visione, all’interno delle Arche, gli esseri umani riacquisterebbero il “paradiso perduto” attraverso cambiamenti come l’implementazione di aree verdi e biodiversità, meno densità abitativa, mobilità ecologica, fornitura e tecnologie energetiche e produzione agricola sostenibile. L’esito del progetto suggerisce la nascita di una Neoland, un sistema mondiale nato dall’incontro tra un incidente naturale e una nuova genesi antropica, molto più etica ed ecologica.

>> Scopri Neoland e leggi l’articolo su The Plan Journal (in inglese)

Michelangelo, Cappella Sistina. © https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:The_Deluge_after_ restoration.jpg. 

Conclusioni al momento non ce ne sono, ma le prospettive e le visioni sono così tante che l’invito è quello di sfogliare l’intero numero di TPJ dedicato all’”urbanistica sana.” Oltre ai contributi sopra riportati seguono articoli e saggi su strategie urbanistiche mirate al benessere psico-fisico (Aki Ishida), discussioni più globali con reportage da New York a Lagos (Emily Moss et al.), idee sul ruolo critico degli spazi aperti per le nostre città future (Ulysses Vance), oltre al potere dell’urbanistica tattica su piccola scala all’interno del complesso sistema di infrastrutture di tre città del mondo come Barcellona, Pechino e Milano (Luca M. F. Fabris et al.).

 

Perché sostenere e leggere TPJ

The Plan Journal intende diffondere e promuovere ricerche, studi e critiche innovative, stimolanti e pertinenti in architettura e urbanistica. L’idea di lanciare il TPJ è nata dalla consapevolezza che il mondo accademico sta conducendo troppo spesso ricerca svincolata dalle sfide e dai problemi affrontati nelle professioni e che in pratica la ricerca può essere resa possibile, con piattaforme limitate per la diffusione, solo in un piccolo numero di casi di organizzazioni professionali. Lo scopo ultimo del TPJ è quindi quello di arricchire il dialogo tra ricerca e campi professionali, al fine di incoraggiare sia nuove conoscenze applicabili che modalità di pratica guidate intellettualmente.

Come funziona e perché vale 

I potenziali contributori sono incoraggiati a presentare proposte o manoscritti completi al caporedattore. A seguito di un feedback positivo da parte dell’Editor In Chief, le proposte possono poi essere sviluppate in manoscritti completi e sottoposte a revisione, tramite il portale dedicato sul sito web di TPJ.

I manoscritti, preliminarmente approvati dopo uno screening iniziale, saranno inoltrati a persone adeguatamente qualificate per eventuali commenti. Il TPJ si impegna a seguire un rigoroso processo di revisione tra pari in doppio cieco, da parte di almeno due revisori. Tuttavia, occasionalmente, l’Editor In Chief può invitare studiosi rinomati, critici o professionisti (oltre a membri del Comitato Scientifico) a contribuire alla rivista senza passare attraverso il processo di revisione paritaria a causa della reputazione dell’autore.

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