Dado Ferri, storia di un writer bolognese
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Dado Ferri, storia di un writer bolognese

I primi graffiti a 12 anni, ora sta lavorando alla nuova sede della Bonfiglioli di Bologna con un murale di 36 metri

Dado Ferri, storia di un writer bolognese
Scritto da Redazione The Plan -

Non ama le categorizzazioni e le correnti, eppure la sua cifra stilistica e la sua filosofia sono ben chiare; è uno dei più importanti e preminenti writer a livello internazionale, assorbe in modo positivo le sollecitazioni e le tendenze nord-americane, ma non si piega a semplici emulazioni. Lo stile di Alessandro Ferri, in arte Dado, è intrinsecamente e profondamente italiano, portatore di un dibattito in potenza con quello dell’arte contemporanea e sviluppato a partire dall’esigenza di «scomparire». Potrebbe sembrare paradossale per uno street artist e writer che si inserisce in un panorama tendenzialmente caratterizzato dal desiderio di lasciare una traccia ben visibile al di fuori dei luoghi più prettamente deputati all’arte (come mostre e gallerie) e tuttavia è quel tassello che va a definirne la potenza e l’unicità. Nato e cresciuto a Bologna dove ancora oggi lavora a partire dal suo laboratorio cittadino, negli anni ha viaggiato per il mondo per tracciare la propria personalità e la propria statura artistica, che oggi si riconoscono per i sofisticati giochi di colori e di ombre che rendono l’immagine quasi tridimensionale, per la capacità di entrare in sintonia con il contesto architettonico e urbanistico circostante e per le collaborazioni con importanti realtà istituzionali (non solo cittadine). Tuttavia le sue opere non sono solo graffiti o murales, ma un ruolo significativo è rivestito anche dalle sculture e dalle installazioni che hanno fatto e stanno facendo tappa in prestigiose gallerie.

Alessandro Ferri, come è nata la passione che l’ha portato fino a qui e, tra le altre cose, che ha fatto sì che un critico d’arte come Renato Barilli l’abbia definito uno dei maggiori protagonisti italiani di un fenomeno di grande attualità, la street art, che a sua volta è parente stretta dei Graffitisti newyorkesi, capeggiati da Keith Haring e Jean-Michel Basquiat?
«Tutto è partito a 12 anni con qualche graffito sui muri, esattamente come è capitato a tanti adolescenti degli anni Ottanta. Non una volontà politica, nulla più che la tendenza a seguire una certa stereotipia giovanile unita a una mentalità piuttosto progressista. La mia formazione è poi proseguita in modo classico, al liceo e all’Accademia di Belle Arti, così da dare voce anche a quella passione innata per la scultura. Alle sue forme, assai legate alla cultura italiana del Novecento, ho poi unito i caratteri della pittura, fino a realizzare, a partire da un graffito, un basso-alto rilievo. Questo, esposto al PAC-Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, ha significato anche spostare il linguaggio della strada e dei graffiti veri e propri verso uno assai più concettuale e razionale estrapolato dal mondo dell’arte. L’idea di base, del resto, è stata quella di considerare più interessante un bassorilievo, tono su tono, con le forme di un graffito: per questo ho in quel caso utilizzato il lumen, ovvero un tipo di vernice che, una volta di fronte alla parete, fa sì che lo spettatore lasci la sua ombra. Dunque una tecnologia che permette di “sporcare” l’opera con la propria presenza: è un ribaltamento della filosofia stessa dei graffiti. È l’uomo che sporca il graffito, non più il graffito che sporca la città. Questo è solo un esempio di ciò che per me vuol dire scomparire: con la mia arte ricerco gli ossimori. È questa la mia cifra stilistica, che talvolta ha significato anche usare l’illegalità per introdurmi nel sistema».

METAMORFOSI, Bonfiglioli, Calderara di Reno, Bologna Courtesy of Alessandro Ferri

Questo è stato l’origine di tutto, dunque. Facendo un salto temporale fino ai giorni nostri invece, adesso a cosa sta lavorando in particolare?
«Il più importante e significativo di questi tempi è sicuramente il lavoro all’interno della nuova sede della Bonfiglioli di Bologna dove, in particolare nell’atrio, ho firmato un 36 metri per raccontare una metamorfosi. Ho immaginato il rientro al lavoro dopo il weekend e l’ho tradotto in un’immagine che parte da una combinazione di forme caotica e fluida fino ad arrivare a un ordine preciso, il tutto giocando con elementi isometrici e colori legati all’attività dell’azienda. Passando accanto all’opera è facile percepire tale cambiamento, che corrisponde anche a una diversa prospettiva umana».

Le sue opere sono talvolta molto diverse le une dalle altre. Vi è però una forma che sente più propria?
«I nastri, distorti e soggetti a torsioni, sono sicuramenti gli elementi nei quali mi riconosco maggiormente, tuttavia il mio approccio è sempre quello di comprendere il contesto nel quale mi trovo. Questo metodo risponde poi al mio essere di natura camaleontica, il che mi ha portato a volte a ragionare e a lavorare con angoli, griglie, misure precise, nonché con colori adatti all’architettura circostante».

Ancora oggi comunque porta avanti anche la passione per la scultura attraverso opere e installazioni?
«Assolutamente sì. È appena rientrata una scultura, Letter A, che ha almeno una decina d’anni e che è stata a lungo in mostra a Miami. È in carta resinata, stuccata con rete: un materiale fatto da me, più unico che raro, al massimo usato da qualche altro artista giapponese. In realtà l’opera è un prototipo, perché secondo me le prototipie sono spesso più belle dell’opera finita. Questa è una delle più richieste, nonché una delle mie preferite».

DADO FLOW, Museo Zauli Faenza, 2020 Courtesy of Alessandro Ferri

>>> Scopri anche la casa a Cortina firmata da Angelo Micheli che custodisce alcune opere di Alessandro Ferri.

 

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Credits

All images courtesy of Alessandro Ferri

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