Si parla molto in Italia di Milano: Milano città stato, come se si fosse staccata dal resto del Paese mettendo a punto uno stile proprio fatto di modernità assertiva, di ritmo cadenzato ed efficiente, il tutto confezionato e propalato in una sequenza di eventi che si rincorrono spesso incuranti delle loro stesse ragioni d’essere. Innegabilmente Milano propone oggi un suo stile. Esso si esprime con un senso della forma misurato ma non castigato, concentrato sulla ricerca di quella giusta misura che è l’ennesima manifestazione di una cultura borghese un po’ dicotomica, che con un andamento a pendolo va dalla soddisfazione di sé all’inquietudine di essere à la page, di essere parte avanzata dell’Europa moderna. Se c’è un nemico dello stile Milano è il kitsch, il cattivo gusto inteso come esagerazione ostentata e chiassosa, come non ottemperanza dell’equilibrio tra forma e contenuto, ed al kitsch la città risponde esaltando la sua compostezza, ma quando si accorge che la compostezza diventa cliché allora è furba e riabilita, sempre in parte e con ponderazione, il kitsch lasciandolo sfogare nel design e specialmente nella moda.
Appare allora il funzionamento dello stile Milano: si pianta ben conficcato a terra il chiodo della sobrietà e ad esso si lega l’elastico della espressività che viene tirato fino a quando lo stesso si tende troppo e riporta all’originale buon gusto, all’aura mediocritas del sogno di Ernesto Nathan Rogers nel secondo dopoguerra di una modernità stabilizzata e come tale affidabile. Tutto ciò non è un fenomeno degli ultimi anni, ma è di lunga data. Pensiamo alla prosa di Allessandro Manzoni, a quel suo muoversi a svolgimento continuo, equipotenziale nelle sue parti, precisa ma mai pedante; una prosa in parte anonima, che...
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