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Il Valore dell’eredità storica

Iñaki Ábalos

Il Valore dell’eredità storica
Scritto da Inaki Abalos -

Plácido González: Per molto tempo il patrimonio culturale è stato vissuto come un vincolo forte, un implicito messaggio di resistenza al cambiamento. Oggi invece si denota l’intenzione di invertire la rotta considerando il patrimonio un elemento di creatività da integrare nell’odierna prassi architettonica. Qual è dunque oggi, a suo avviso, il maggiore potenziale dell’eredità del passato in termini di produzione architettonica? Iñaki Ábalos: Prima di rispondere, vorrei argomentare sullo stato dell’arte dell’attuale produzione architettonica comparandola a due tipi di raffigurazione pittorica: la natura morta e l’autoritratto. Se nell’ultimo decennio è cambiato qualcosa nel mondo accademico e nella progettazione, il fatto è legato al modo in cui ci siamo spostati dalla dimensione di “autoritratto” alla dimensione di “natura morta”. In tempi recenti, i media hanno considerato l’architettura e il suo panorama di archistar soprattutto come produzione di qualcosa che ha a che fare con l’eccentrico, il bizzarro, con forme in grado di stupire chiunque. L’unico modo per avere un’opera architettonica pubblicata sulla copertina di una rivista era eccedere in bizzarria creando qualcosa di strutturalmente impossibile ma che potesse catturare subito l’interesse delle persone, in particolare di chi non era del settore. Questa tendenza ha plasmato una generazione di architetti che si ripetevano nel gesto, riprendendo gli stessi stilemi indipendentemente dal luogo, dal programma, dal contesto, dalla scala, dalla cultura ecc. Questa era la dimensione che ho definito “autoritratto”. La dimensione “natura morta” invece sottolinea l’analogia tra il mondo della pittura e quello dell’architettura: oggi, i progettisti stanno cercando di assemblare tutto, confrontandosi con discipline un tempo mantenute separate dal taylorismo moderno - paesaggio, architettura, urbanistica e progettazione urbana e altre tematiche connesse. Applichiamo il concetto alla vita reale: un tempo gli studenti delle varie facoltà vivevano assieme senza mai collegare tra di esse le varie discipline e senza riuscire a cogliere la possibilità di una loro interazione. Per questa ragione, secondo me, è sempre più importante lavorare con la materia organica e quella inorganica, creare un rapporto tra il disegno del paesaggio e la scala del design architettonico cercando di ottimizzare i risultati in termini di qualità di spazio pubblico e spazio privato. Un’altra questione chiave è l’aiuto che le nuove tecnologie possono darci per comprendere le relazioni tra modi diversi, apparentemente contrastanti, di affrontare la città e il territorio. Non mi riferisco necessariamente al parametricismo, pur essendo consapevole che sia il primo esempio che viene in mente quando si parla di nuove tecnologie in architettura. La termodinamica, difatti, più dell’approccio parametrico, offre una maggiore ricchezza di opportunità stimolanti in quanto crea interazione, che è il concetto nodale del mio discorso: esso riguarda il dinamismo, come una cosa possa spostarsi da un punto a un altro passando attraverso differenti stadi. È un elemento chiave per capire dove siamo: oggi ci focalizziamo molto più sulle interazioni e molto meno sulla dimensione “autoritratto”, e sul trasferimento di questo concetto nella prassi architettonica e accademica. È necessario poi parlare della riscoperta di metodologie quasi dimenticate; tra queste è di fondamentale importanza l’analisi documentaristica. La ricerca è un tema estremamente interessante per noi ed è diventata sempre più importante nell’odierno scenario di produzione artistica. In campo letterario, il romanzo Limonov di Emmanuel Carrère ne è un ottimo esempio; se si pensa al cinema, cito i film di Wim Wenders o il documentario Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog sulla Grotta Chauvet. In ambito sociologico, le opere teoriche del sociologo Bruno Latour sono decisive per capire e contestualizzare il concetto di documentazione. Parlando di architettura, possiamo considerare come una delle figure più importanti della moderna architettura Cedric Price oppure colui che ritengo per molti aspetti suo erede, ovvero Rem Koolhaas. Entrambi sono esempi perfetti di quanto la documentazione sia oggi essenziale nei nuovi approcci progettuali. La successiva domanda è su cosa documentarsi. Nella nostra tradizione, la ricerca si concentra soprattutto su due temi principali, il contesto e il metodo. L’analisi del contesto veniva svolta in maniera alquanto rudimentale e semplicistica, forse anche formale o addirittura suggestiva, come faceva Álvaro Siza seduto a un caffè in una piazza europea, concentrato a viaggiare con la mente e una matita in mano: tutti conoscono e amano quei suoi schizzi. Andando oltre questa immagine, credo che il concetto di cultura materiale sia diventato assolutamente rilevante per chiunque voglia documentare qualsiasi evento che si proietti nel tempo. È un concetto di derivazione archeologica; si fonda sulle tecniche che consentono di ricostruire la vita quotidiana di una civiltà di migliaia di anni fa utilizzando pochi e semplici elementi chiave: un oggetto in ceramica, un osso, alcune pietre nelle fondamenta di un edificio. Noi non possiamo raggiungere una precisione così elevata ma l’idea di leggere il contesto e i luoghi su cui interveniamo attraverso lo studio della cultura materiale comporta una differenza sostanziale nel modo di interpretare e valutare tradizione e modernità. Alla luce di quanto detto, l’idea ricorrente, e che in passato era molto frequente, di un architetto che compra a caso alcune cartoline di un contesto sconosciuto e usa alcuni pattern ornamentali locali di appena tre centimetri per poi dilatarli, facendoli diventare la pianta di un grattacielo alto 200 metri, questa pratica diventa immediatamente ridicola e alquanto offensiva nei confronti della popolazione del luogo. La cultura materiale, al contrario, si concentra su oggetti concreti, è puro materialismo; il che significa, a livello concettuale e ontologico, credere che la materia e i nostri comportamenti siano strettamente correlati. Gli oggetti sono a portata di mano: il tavolo su cui poggiamo gli occhiali e l’orologio che indossiamo, il foglio su cui scriviamo; in un modo o nell’altro, limitano il nostro pensiero o ciò su cui possiamo riflettere. Questo è, in sintesi, il materialismo. In questo panorama, in cui ci si interroga su che cosa significhino cultura materiale e documentarismo, troviamo di nuovo la questione del contributo della termodinamica al programma: per molti anni abbiamo pensato che l’analisi e la sintesi fossero due mondi distanti, impossibili da connettere se non in forma poetica. Ricordo che Aldo Rossi e Giorgio Grassi consideravano tutto ciò da una prospettiva strutturalista, con estrema serietà ma senza l’idea di creare questo tipo di relazione fra i due momenti. La termodinamica può rappresentare oggi la chiave di volta, nel modo per esempio in cui pensiamo alla fase di sostituzione dei materiali che, in determinate condizioni, dissipano enormi quantità di energia e al contempo si cristallizzano interagendo con il contesto in un modo molto diverso. Vorrei aggiungere questo elemento alla nostra discussione: la cultura materiale di un luogo è un sistema in ebollizione che comprende clima, cultura, economia, ecologia e la loro evoluzione nel tempo; e questo fino a quando non si consolidano creando un nuovo stato in cui tutte queste informazioni sono incorporate. L’eredità è dunque un tema importante nel panorama dell’architettura contemporanea; che sia intellettuale, fisica, storica, tipologica, materiale o tutti i tipi assieme, non esiste progetto che non debba tenerne conto. Si pensi, di nuovo, ai dipinti di natura morta: contengono una tale quantità e varietà di oggetti raffigurati che è impossibile sfuggire a tutte quelle informazioni. Non importa se si interviene su una preesistenza o se si edifica in un’area vuota, gli elementi cardine della cultura materiale sono già tutti presenti. Questo è il punto. Questo è ciò che mi fa capire come l’eredità non possa più essere marginale nella prassi progettuale, ma altresì sempre più nevralgica per comprendere i legami con storia e cultura materiale e in che misura la nostra attività stia costruendo la cultura materiale del nostro tempo. P.G.: Un punto molto interessante da lei toccato sono i riferimenti. Quali sono i riferimenti, in particolare quelli di derivazione modernista, che compongono il quadro concettuale dei suoi progetti? Inoltre, nella dicotomia tradizione-modernità, il capitolo forse più interessante di questa relazione è come la modernità sia diventata essa stessa tradizione. Nelle sue opere e conferenze tratta di una possibile prosecuzione del progetto moderno, andando oltre la parentesi postmoderna intesa come periodo negativo nella storia dell’architettura, inefficiente e insostenibile a livello ambientale. In che senso considera la sua produzione in continuità con i valori e le fondamenta del progetto moderno? I.Á.: Il modernismo è una componente assolutamente rilevante della nostra tradizione poiché intrinseca del sistema di pensiero e del contesto in cui siamo cresciuti. Questo è chiaro. Da una parte, sono d’accordo sul fatto che in molti casi la modernità abbia avuto un impatto negativo sulla società e sull’ambiente: molti sono stati i fallimenti nell’approccio utopico dei primi modernisti, oggi sotto gli occhi tutti. Dall’altra, non possiamo scordare come la modernità sia l’unica tradizione con cui approcciare le nuove scale, i nuovi programmi, le nuove tempistiche di costruzione e i nuovi impatti infrastrutturali dell’architettura e dell’urbanistica sul territorio. Forse gli Inca o i Romani potrebbero fungere da riferimento poetico per le sfide che oggi ci aspettano; tuttavia, alla base di tutto, la formazione garantita dalla modernità è l’unica via realmente operativa a nostra disposizione. In questo senso, il concetto di tradizione non può essere giudicato né in maniera totalmente positiva né negativa: chiunque scelga uno schieramento piuttosto che un altro sottolinea la più totale insensibilità verso il senso comune e il concetto di realtà. Questo è certo. Con la nostra impostazione ho sempre esemplificato il ricorso alla cultura materiale attraverso lo studio diretto di due spazi rappresentativi del vivere: la casa o il palazzo, messi a confronto in due momenti di picco, rappresentativi del loro sviluppo in termini di modernità. Dal punto di vista accademico e attingendo all’esperienza personale come docente in vari istituti, queste informazioni risultano estremamente importanti in quanto rappresentative dell’evoluzione della cultura materiale e delle sue tracce: di come per esempio i processi della termodinamica legati al clima siano stati risolti nelle varie fasi dell’evoluzione. Da un attento studio di queste due tipologie abitative - casa e palazzo - possiamo ricavare idee molto semplici ma universalmente utili, in quanto conseguenza di una lunga serie di tentativi ed errori che hanno fornito le risposte e i modelli organizzativi più efficienti avendo a disposizione le risorse materiali più basiche, quasi in assenza di mezzi economici. Una conclusione importante che possiamo trarre da questo discorso vale anche per le correlazioni tra modernità e tradizione; noi, infatti, abbiamo perso ogni consapevolezza di queste connessioni: possiamo soltanto fare ricorso alla loro sperimentazione prendendo atto dell’intelligenza delle soluzioni adottate e ammettendo l’impossibilità di una loro applicazione nel quadro attuale. Impariamo dall’esperienza senza, tuttavia, poterne fare un utilizzo pratico; il che può essere interpretato in maniera sia ottimista sia pessimista. Io propendo per la prima opzione e credo sia un’opportunità straordinaria per innovare le idee del fare architettura studiando il passato ma integrandovi al contempo mezzi, tecnologie e potenzialità odierne per dare origine a nuove risposte. La scala delle vecchie case tradizionali di Siviglia, per esempio, non può essere adottata in città a elevata densità urbana, come in Cina o nella stessa Spagna odierna. Questa inconciliabilità dovuta alla velocità di produzione in un contesto globale non cancella tuttavia il valore di tali soluzioni. Siamo ugualmente consapevoli di come oggi sia insensato introdurre prismi modernisti in vetro nel sud della Spagna; d’altro canto, però, non possiamo negarne la bellezza e che siano stati concepiti per esplorare nuove possibili relazioni tra spazi interni e paesaggio. Li possiamo ammirare, studiare e comprendere… ma la domanda che si pone è il come utilizzarli. Qual è oggi la base del costruire, una casa o un palazzo? A mio avviso, questi sono gli interrogativi più critici della relazione tra cultura materiale e queste due tipologie tradizionali. Per me, esse sono equivalenti e al contempo antitetiche, si contrastano ma l’opposizione può essere costruttiva, senza che ciò alteri la loro specificità. Esistono, ferme nelle loro caratteristiche; sta a noi riformulare ogni cosa. P.G.: L’idea di perdita di consapevolezza si fa più incisiva nel momento in cui si fa architettura in contesti come la Cina? Quali sono gli strumenti con cui si lavora e in che senso l’approccio differisce a seconda del contesto? I.Á.: Penso sempre alla Cina quando si parla di scala e velocità. Non so l’esatta proporzione di metri quadri in costruzione in Cina e nel resto del mondo, ma la ritengo vicina al 50%. Questo dato sollecita noi professionisti a confrontarci con questa cultura, anche per via della sua rilevanza storica: c’è stato un momento in cui l’Europa era protagonista, successivamente l’America, poi l’Oriente e in particolare la Cina. Ne consegue logicamente che la migliore architettura sia stata prodotta prima nel Vecchio Continente, poi negli Stati Uniti e in America Latina, e oggi in Cina. è di grandissimo interesse lavorare in condizioni così diverse rispetto a ciò che i modernisti trovarono quando elaborarono le loro teorie. La Cina è un luogo ideale dove osservare, sperimentare e mettere alla prova l’applicabilità di queste idee circa la cultura materiale e le relative metodologie e se potranno rivelarsi interessanti. La termodinamica potrà aiutarci a sviluppare un nuovo modo di di fare architettura e a formulare una nuova disciplina in termini generali? La termodinamica potrà in definitiva contribuire a raggiungere la finalità ultima e naturale dell’architettura, ovvero essere a servizio delle persone per migliorarne le condizioni di vita? È dunque evidente che per noi architetti è una grande opportunità comprendere, contribuire e collaborare a questo nuovo mega progetto per una nuova Cina che rappresenta, oggi, il contesto più interessante in cui lavorare. Per rispondere alla domanda che mi è stata posta, non credo che il nostro comportamento differisca dal passato. È vero, le dimensioni sono diverse, ma la metodologia a cui ho fatto riferimento prima deriva in parte dal mondo accademico, in parte dal nostro interesse intellettuale verso vari aspetti della realtà e in parte ancora dalla nostra personale esperienza professionale in Spagna, America Latina e Cina. In proporzioni diverse, questi contesti hanno contribuito a dare precisione e chiarezza a queste idee che tre anni fa erano ancora in fase di sviluppo. Forse allora non avevamo la possibilità di elaborare intellettualmente una metodologia più sistematica. Credo sia un aspetto rilevante ma non contraddittorio né totalmente sorprendente, che risulta dall’ovvio riconoscimento di come stiano evolvendo, per dimensione, sia i programmi sia la velocità di produzione. P.G.: Ciò si collega all’estraniazione dal passato di cui ha parlato David Lowenthal quando affermava che il passato è un paese straniero, anche se riguarda la propria città o la propria famiglia. La interpreto come sintomo di cambiamento dall’approccio universalista del modernismo all’attuale sensibilità verso il luogo, inteso come elemento onnipresente. Mi viene in mente questo quando penso per esempio al suo recente intervento di riqualificazione di un palazzo storico del 1920 a Wuhan e alle soluzioni da lei adottate per reinterpretare l’architettura storica senza cadere in forme nostalgiche. È una questione importante, in Cina e nel resto del mondo, per il ruolo che l’eredità del passato ha nel costruire il senso di identità collettiva e dare vita a visioni idealizzate che, una volta definite, non dovranno più essere messe in discussione. Tutto ciò può essere messo a confronto con gli attuali dibattiti in Europa sull’idea di “frugalità”, da lei esposta anni fa nel suo scritto Bartleby, the architect e nel motto «preferirei non farlo» inteso come parte di un atteggiamento creativo. Vorrei sapere se una simile idea sia ancora valida come riferimento, quando ci si confronta con progetti in Cina che hanno a che fare con l’eredità. I.Á.: Come sa, anni prima di recarmi a Wuhan avevamo avuto l’opportunità di ristrutturare un edificio industriale per la Fondazione Tàpies a Barcellona, a una scala simile e in una situazione pressoché identica. Era infatti il primo edificio industriale costruito nel quartiere dell’Eixample progettato da Cerdá nella seconda metà del XIX secolo per ampliare i confini urbani di Barcellona con l’idea di accostare industrie non inquinanti, come le stamperie, a blocchi residenziali. Entrambi i progetti ci rivelano aspetti molto interessanti. Il primo: ho imparato in questi anni, dopo avere via via sempre più affrontato riqualificazioni architettoniche e urbane, a mettere in discussione l’idea di non toccare e intervenire sul patrimonio, un’ipotesi che, invece, quando ero un giovane studente, ritenevo la più razionale nel confronto con il passato. Parlo delle soluzioni e tecniche per rendere invisibile il nostro intervento e congelare l’edificio nel tempo, una caratteristica della scuola italiana di quei giorni; era agire come esecutori che rinnegano ogni forma di creatività. Credo fosse l’idea più sbagliata e la più banale in termini di costruzione culturale. Preferisco quegli storici del XIX secolo che ricreavano mettendo il loro estro e il loro magnifico eclettismo a servizio dell’ambiente costruito, come si può osservare in molte città europee. Premesso ciò, intervenire su un edificio storico assume un valore diverso a seconda del contesto in cui si opera. Questo è il caso della Cina; è infatti essenziale comprendere che qualunque cosa si farà rappresenterà un attimo nella continuità della storia della cultura e dell’architettura locale, così come nella relazione tra architettura tempo ed entropia; rivelerà dunque come, in un dato istante, abbiamo agito secondo ciò che ritenevamo più giusto, ponderando elementi sia politici sia socio-culturali del passato e proiettandoli nel futuro. La Fondazione Tàpies di Barcellona, per esempio, era già stata oggetto di un sostanziale intervento postmodernista, a firma di un valido architetto. Ricordo sempre quando la visitai da studente; a quel tempo la ritenevo un’operazione interessante e degna di nota. A distanza di 25 anni, quando vi ritornai per lavorare io stesso sulla Fondazione, non riuscii a capacitarmi di come quell’architetto fosse riuscito a trovare la giusta soluzione per quel dato momento storico; al tempo stesso, era per me evidente come quell’intervento, seppur svolto con raziocinio, non fosse più ammissibile tre decenni dopo. Era infatti un’enorme finzione, esattamente l’opposto di ciò che l’edificio doveva esprimere. Tàpies voleva ricreare quelle esperienze e quell’idea del luogo ristabilendo l’atmosfera originaria delle stamperie. Ciò che, in sostanza, dovevamo fare era ripulire l’edificio da tutto ciò che era in disuso, ridonando carattere a quella meravigliosa struttura che, banalmente, era un loft americano trasportato a Barcellona. Abbiamo quindi fatto riemergere gli elementi in ghisa, riaperto i lucernari che erano stati chiusi per permettere alla luce naturale di illuminare gli interni, recuperato il pavimento originario in legno massiccio e cambiato ovunque i colori. Con queste misure, l’atmosfera si è radicalmente trasformata. Ed è stato meraviglioso, poiché lo stesso Tàpies ha avuto la possibilità di vedere i risultati prima della sua scomparsa; il giorno dell’inaugurazione ci disse: «Vi sono così grato, ho aspettato 25 anni per vedere l’edificio prorpio come è oggi». Il miglior complimento ricevuto, ad oggi, da un cliente. A Wuhan, invece, dovevamo confrontarci con una libreria e una casa editrice religiosa, situata nell’ex concessione britannica. Dopo anni era quasi distrutta: ogni stanza era stata suddivisa e occupata da più famiglie; sembra incredibile se si confronta quello che vedemmo allora con l’aspetto odierno. Inizialmente era stato impossibile sapere il nome dell’architetto ma poi, grazie alle autorità locali, siamo riusciti ad identificare un progettista dell’epoca che in città aveva adottato un repertorio simile e a cui sarebbe potuto essere attribuito l’edificio. Basandoci su questa ipotesi abbiamo iniziato a stabilire analogie e così via. Dovevamo documentare ciò che avevamo per prendere decisioni sfruttando quelle supposizioni che ci sembravano le più sensate, pur non essendo chiare al 100%. In tutta onestà, all’inizio, considerando l’entità dei danni e il progetto di trasformare il complesso in galleria d’arte con libreria, pensavamo di incontrare meno vincoli rispetto a Barcellona e di poter progettare un ambiente interno più aperto applicando un approccio modernista allo spazio. La posizione del cliente era tuttavia radicale: voleva ricreare, nel senso letterale del termine, una storia oramai invisibile nella realtà fisica dell’edificio. Ha condotto studi incredibili, per esempio, sugli spazi interni: il 99% del complesso era danneggiato, ma è riuscito a recuperare l’infisso di una porta probabilmente originaria poiché ben decorata, così come un frammento di ringhiera. Abbiamo ricreato così l’intero ambiente partendo da questi elementi. Il nostro obiettivo era inoltre ricostruire i muri portanti, una sfida difficile per via dei requisiti di accessibilità come ascensori, scale antincendio ecc. Nonostante questo complesso intreccio di fattori, è stato svolto un grande lavoro di riqualificazione; per comprenderne la difficoltà, basti considerare il duplice approccio: da un lato ricreare quelle similarità utili per ritornare alle origini; dall’altro ricavarne una libreria che potesse accogliere anche pubblicazioni d’eccezione, non solo libri religiosi ma anche straordinari libri d’arte. Sono contento del risultato raggiunto poiché a servizio della comunità e, dopo anni di smantellamento del patrimonio in Cina, credo che questa tematica debba essere analizzata con estrema attenzione. Al di là dell’aggiunta di alcuni elementi decorativi che non trovano il mio consenso e che comunque sono stati ridotti al minimo, è stato un lavoro estremamente delicato per sviluppare una soluzione idonea, da un lato attraverso una ricerca sistematica il cui obiettivo era recuperare l’immagine originaria dell’edificio, dall’altro tenendo in considerazione il ruolo che quell’architettura assumeva per la comunità. In un certo senso, questi due aspetti del progetto sottolineano quali siano ad oggi le potenzialità che entrano in gioco nella progettazione di una città. Bisogna comprenderne valore e significato ed elaborarli da una prospettiva non solo strutturale, ma anche e soprattutto culturale. Se si vuole dare il proprio contributo, bisogna comprendere ciò che è interessante per l’architettura, capire come insistere per ottenerlo e come renderlo realizzabile. Confrontando questi due interventi, ritengo che, seppur così diversi, stiano svolgendo un servizio similare per la società. Versione rielaborata di un’intervista del professor Plácido González, Caporedattore di Built Heritage, pubblicata sul sito del journal ad agosto 2018

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