L’università della progettazione | The Plan
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L’università della progettazione

Emilio Ambasz

L’università della progettazione
Scritto da Emilio Ambasz -

Articolo tratto dal libro The Universitas Project: Solutions for a Post Technological Society, che raccoglie gli atti dell’omonima conferenza tenuta presso il MoMA di New York nel 1972 1. Dopo il Rinascimento la visione medievale di un ordine divino delle cose venne messa sempre più in discussione, fino a lasciare posto a una concezione del mondo governato dalle leggi della natura. Oggi il concetto di un ordine naturale è stato a sua volta soppiantato dalla consapevolezza di vivere in un ambiente artificiale, prodotto dall’uomo. È questo ambiente modificato dall’uomo che, sempre più, fornisce la cornice al pensiero e all’immaginario dell’uomo contemporaneo. La concezione adottata dalla nuova cultura emergente, però, non è messa alla prova. L’uomo continua ad agire in larga misura come se potesse affidarsi a una forza esterna in grado di dare ordine alle cose in sua vece. Il concetto del “lieto fine” dell’ambiente costruito dall’uomo - in cui la tecnologia risolve tutti i problemi che fa sorgere - si basa sulla convinzione che l’intero processo tecnologico sia orchestrato da una legge di natura, che le cose alla fine si sistemeranno da sé. Non ci sono tuttavia elementi funzionali o storici a sostegno di questa tesi: le strutture, le funzioni e i processi dell’ambiente antropizzato sono compresi al meglio se visti come un insieme di elementi interattivi di sistemi adattivi complessi, e non come dinamiche all’interno di sistemi fisici1. Non c’è, dunque, ragione per aspettarsi che le azioni prive di finalità della tecnologia possano alla fine adattarsi a un modello d’ordine. Se gli elementi di fattibilità tecnologica rimarranno il parametro cardine accettato, a discapito dei valori dell’esistenza umana, il futuro non potrà essere che la prosecuzione del presente. Chi ha una visione antitetica rispetto al “lieto fine”, pur condividendo l’ipotesi di base secondo cui i processi tecnologici sfuggono al nostro controllo, sono i pessimisti, che deplorano l’attuale corso degli eventi ma sono scettici sulla possibilità di interventi positivi e ci avvertono che corriamo il rischio di irrobustire “l’anima nera” dell’ambiente costruito dall’uomo se ricorriamo inevitabilmente alla tecnologia per controllarla. Entrambi i punti di vista si applicano all’atteggiamento tecnologico derivato dal modo di porsi della scienza di fronte alla natura, rifiutando di credere in un ordine che non sia inerente alle cose stesse bensì imposto dall’uomo al proprio ambiente2. I pessimisti vedono il futuro come prosecuzione del presente e le alternative possibili allo scenario attuale come futili speculazioni. Nel loro rifiuto verso strategie proattive non ammettono, infatti, lo sviluppo di modalità di pensiero più indicate di quelle attuali a mettere ordine e dare significato al contesto costruito dall’uomo e, dunque, a consentirgli di progettare il proprio futuro. 2. L’elaborazione di un modo di pensare idoneo all’architettura di un ambiente costruito dall’uomo necessita una presa di distanza non solo da vecchi schemi mentali ma anche - quantomeno in una certa dimensione - da un modo di vedere la realtà, che domina la nostra cultura: la concezione scientifica del mondo. La scienza si occupa di ciò che è dato, e il suo obiettivo è rivelare l’ordine già insito nel mondo. Secondo Thomas H. Huxley, l’ideale per gli scienziati è «essere infinitamente umili dinnanzi ai fatti e abbandonare in toto preconcetti e preferenze soggettive». L’obiettivo del progettare, invece, è creare un ordine nel mondo, senza indietreggiare dinanzi ai fatti, anzi, cercando di cambiarne il corso inseguendo un’idea di come dovrebbero essere. Le scienze naturali sono, fondamentalmente, deterministiche, le scienze moderne non meno della meccanica newtoniana. Diversamente, nel progettare non si deve assumere che lo stato delle cose determini pienamente come le cose potrebbero essere. Il determinismo della scienza naturale, non concedendo all’uomo la capacità di alterare, attraverso le proprie scelte di azioni, il corso delle cose, esclude un interesse per l’etica. Il progettare, che è basato precisamente sul possesso da parte dell’uomo di quella abilità, deve, per la stessa ragione, dare all’etica un posto centrale nel proprio pensiero, e non può separare con profitto fatti da valori come fa la scienza. L’architetto, diversamente dallo scienziato, dovrebbe permettere a come vorrebbe che le cose fossero di influenzare il proprio modo di vederle. Il pensiero scientifico propriamente non può comprendere un modo di pensare adatto al progettare. Tuttavia scienza e architettura non sono discipline opposte, bensì complementari. Il compito della prima è analizzare i fenomeni naturali, mentre il ruolo della seconda è fare una sintesi del nuovo. La scienza sintetizza concetti utili alla propria analisi della realtà concreta; l’architettura analizza concetti per sintetizzare strutture concrete. La sovrapposizione fra le due discipline è ovvia, così come il valore inestimabile per chi opera in architettura dei metodi scientifici, altamente sviluppati come sono. Ciononostante, in virtù del peso specifico della scienza nella nostra cultura e dei ripetuti tentativi di trasformare la progettazione in disciplina scientifica, ho preferito sottolineare qui come l’architettura, intesa come l’attività con cui l’uomo crea il proprio futuro, non possa prosperare entro i confini della visione scientifica del mondo*. Date le interrelazioni dialettiche esistenti tra i sistemi socioculturali e fisici creati dall’uomo e la natura pienamente attiva, aperta e transazionale dell’essere umano, è fondamentale che il modo di pensare capace di strutturare e ristrutturare l’ambiente costruito comprenda una concezione empirica ed esistenziale del Come e del Perché delle azioni e reazioni umane. In campo empirico, questo modo di pensare dovrebbe afferrare operativamente i modelli di interazione esistenti tra uomo e ambiente naturale e, ancor di più, i modelli di interrelazione in continua evoluzione tra l’uomo e l’ambiente artificiale3. Il concetto di stato perseguito con determinazione (voluto) include il definire obiettivi e norme, il mettere in relazione un vasto numero di dati, lo sviluppare soluzioni alternative e selezionare come più soddisfacente la soluzione che, in quanto riflesso di valori accettati o che possano esserlo nel tempo, incarna alcune virtù che attualmente non esistono. L’analisi esplicita dei valori deve essere considerata, di conseguenza, una delle caratteristiche principali di questo modo di pensare. Per instaurare metodi teorici sistematici e rigorosi, questo modo di pensare dovrà inoltre inserire nella propria logica come fattore reale la nozione di operatore esistenziale (l’uomo, il sintetizzatore e creatore di simboli intuitivo)4. L’uomo, pur essendo uno dei tanti organismi viventi in grado di modificare il proprio ambiente per mantenere le proprietà fisiologiche essenziali, è tuttavia l’unico essere capace di generare immagini e sottoporsi a evoluzioni ontologiche5. In campo esistenziale, questo modo di pensare dovrebbe, perciò, concepire l’uomo come chi crea strutture esperienziali e concettuali per soddisfare bisogni e conciliare aspirazioni, da quelle fisiche a quelle cosmologiche, entro i confini del mondo naturale e socio-culturale. Ovviamente, la ricerca di tale modo di pensare richiede una mole considerevole di immaginazione e una sviluppata capacità di analisi interdisciplinare. Due domande vengono, allora, in mente: la prima, quale area problematica del contesto artificiale garantirebbe le migliori condizioni alla ricerca e alla ideazione? La seconda, le istituzioni universitarie e di ricerca hanno attualmente un raggio d’azione sufficiente per porre in essere uno scambio interdisciplinare e il potere per concretizzare i propri programmi teorici? 3. Per rispondere alla prima domanda, osservando le crescenti caratteristiche urbane della nostra società, ci rendiamo conto che i processi che scaturiscono da fenomeni urbani non sono leggibili e gestibili unicamente con metodi politici e operativi sviluppati per affrontare - a livello funzionale e linguistico - una società industriale e i suoi prodotti. Ogni tentativo di rinnovare e inventare il linguaggio di una società urbana può scaturire solo da una critica radicale e dalla postulazione di teorie e prassi urbane. Di tutte le strutture create dall’uomo, i diversi gradi di significato inerenti ai modelli sociali e fisici dell’esistenza urbana sono quelli che restituiscono la fonte più ricca di idee per sviluppare un sistema di pensiero capace di progettare un ambiente fatto da e per gli esseri umani. Siccome stiamo raggiungendo una situazione in cui gli unici approcci validi saranno quelli che abbracciano l’intero sistema mondo, i modelli urbani da considerare sono l’ambiente naturale e quello costruito dall’uomo - ossia l’intero globo - come un unico problema strettamente interrelato. Rispetto alla seconda domanda, ovvero se la ricerca e l’insegnamento nelle università attuali possano essere sfruttate per meglio comprendere e aiutare a sviluppare il nuovo sistema di pensiero progettando l’ambiente urbano, una risposta rilevante può essere desunta dal report della Ford Foundation sull’estensione urbana6. Dal 1959 al 1966, la Ford Foundation ha finanziato ricerche sperimentali per utilizzare le risorse delle università del Paese per i problemi delle città americane. Nella relazione finale, dell’ottobre 1966, la Ford Foundation affermava che le ricerche sperimentali rivelavano che le nostre attuali università devono ancora risolvere un insieme di questioni cruciali per affrontare efficacemente, se mai lo faranno, i problemi di una società urbana. Alla domanda se attualmente le università abbiano strutture adatte per assumere impegni riguardo all’ambiente urbano, il report ha confermato cioè quanto tutti sospettavano, asserendo che «relazionarsi con l’ambiente urbano richiede un coinvolgimento a tutto campo. Un’azione isolata [di una facoltà o di un dipartimento] ha un impatto limitato sul problema come intero». Inoltre, la relazione dice esplicitamente che «la differenza tra le necessità dell’ampliamento urbano e quelle dei dipartimenti accademici dipendono nettamente più dai costumi universitari e dalle strutture amministrative che da condizioni effettive». L’attuale percorso formativo, di conseguenza, non prepara lo studente di architettura ad assumersi responsabilità. Non gli viene dato né di acquisire un’attitudine mentale né gli strumenti intellettuali per agire creativamente in un mondo dove porre e risolvere problemi richiede, cosa molto complessa, l’inventare controlli dinamici piuttosto che perseguire soluzioni definitive. Quali conclusioni trarre da questa realtà ben nota? Se accettiamo l’idea che la formazione propedeutica alla progettazione dell’ambiente urbano debba comprendere ogni informazione e ogni azione fisica e socio-economica che diano senso e struttura all’ambiente urbano, dovremmo allora domandarci seriamente se l’attuale struttura delle università, molto rigida e compartimentata, consenta un approccio interdisciplinare effettivo all’analisi e alla progettazione del contesto urbano. Tutte queste riflessioni ci hanno portato al punto in cui dobbiamo iniziare a considerare se è giunto il momento di ipotizzare un’istituzione, esplicitamente dedicata alla cornice etica della nostra società, e concepita per sviluppare un sistema di pensiero capace di progettare l’ambiente umano. Tale istituzione dovrà risolvere - ovviamente non nell’immediato - i problemi dell’ambiente urbano, con l’obiettivo a lungo termine di rendere questi problemi dei processi controllati. La speranza è che lo schema concettuale di tale istituzione benefici del tramonto delle nozioni deterministiche dell’Ottocento, che credevano non solo che i sistemi dovessero essere semplici e generali ma anche che le organizzazioni umane potessero, di conseguenza, essere pianificate in modo rigido e finito. Questa istituzione, per essere davvero significativamente nuova, richiederebbe una diversa nozione di “sistema”. Dovremmo dunque parlare di un concetto dinamico di “sistema complesso”: indeterministico, progettato per operare in una condizione di costante innovazione e di adattamento ad altri sistemi, capace altresì di riconoscere le emozioni e i valori privati quali fattori essenziali nell’ampio e difficile processo della formazione di obiettivi condivisi. Questa istituzione dovrebbe includere tutte le discipline che possono dare significato e ordine al nostro ambiente socio-fisico. Pertanto, alla “spina dorsale” composta da progettazione fisica, biologica e socio-economica dovranno aggiungersi le scienze sociali e comportamentali, le scienze esatte ed applicate, come quelle umanistiche, tutte articolate lungo temi di ricerca e non come discipline. Sarebbe inoltre necessario che quest’istituzione rendesse noti i propri programmi in via di sviluppo per ottenere dei feedback; un programma di sviluppo urbano del genere richiederebbe, perciò, un coinvolgimento attivo tanto del settore pubblico che di quello privato. Abbiamo immaginato qui che se il concetto tradizionale di Universitas fosse riformulato secondo le necessità di una società post-tecnologica, tale Universitas dovrebbe dunque abbracciare l’intera costellazione di concezioni occidentali di università. La prima tra queste è quella umanistica, concepita dalle accademie greche, istituzionalizzata nel Medioevo dalle università italiane e parigine, poi riformulata dal cardinale John Henry Newman7 nell’Ottocento. La seconda è quella scientifica, dedicata nello specifico al mondo empirico come immaginato da Francis Bacon8 e René Descartes9, istituzionalizzata da Wilhelm von Humboldt. Infine la terza potrebbe corrispondere all’idea qui illustrata di istituzione che affronti i processi legati alla sintesi fisica e socio-economica delle aspirazioni umane, in armonia con l’ambiente naturale e socio-culturale. Questo concetto riformulato di Universitas o di costellazione di università dovrebbe dunque rappresentare il modo filosofico di pensare dell’università umanistica, quello scientifico dell’università empirica, e quello architettonico dell’università di progettazione e sviluppo10. Ci saranno quindi, per esempio, filosofi della società nelle facoltà umanistiche, scienziati sociali in quelle scientifiche e progettisti sociali in quella di progettazione e sviluppo. I compiti che queste Universitas dovrebbero assumere potrebbero far vacillare l’immaginazione e paralizzare la speranza, ma non bisogna rinunciarvi perché coinvolgerebbero: primo, la funzione retrospettiva di valutare le conseguenze di determinate scelte, sulla base di valori non superiori a quelli dell’accettazione del consumismo quale motivazione esistenziale; secondo, la funzione critica di analizzare le istituzioni politiche e socio-economiche del nostro contesto tecnologico per stabilirne gli effetti sul sistema di idee ed emozioni della nostra civiltà; terzo, la funzione prospettica di immaginare e espandere costantemente il quadro di valori privati e condivisi che dovrebbero guidare la progettazione fisica e socio-economica della nostra società, infine, quarto, la responsabilità operativa di sviluppare i metodi fisici e socio-economici necessari a implementare tali obiettivi. Tuttavia, la realizzazione di questi compiti richiederà che, prima di definire nuove aree di indagine e di azione finalizzate allo sviluppo di nuove discipline, noi si abbia il coraggio di immaginare questa Universitas sia per indagare il senso della condizione umana, sia per immaginare e implementare la qualità della nostra esistenza, nei termini di ambiente costruito dall’uomo.

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