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Permanente ed effimero

Che valore hanno nella progettazione dello spazio urbano?

Rahul Mehrotra

Permanente ed effimero
Scritto da Rahul Mehrotra -

Le città sono state in gran parte ideate da progettisti e pianificatori come entità permanenti, artefatti della cui forma fisica architettura e urbanistica sono strumenti centrali. Oggi, questa assunzione fondamentale è messa alla prova da tre fatti. Innanzitutto, dall’ampiezza del fenomeno di spazi informi nelle città dove il paesaggio urbano è configurato e costruito al di fuori del controllo dello Stato: una contingenza che ha travolto il mondo negli ultimi quarant’anni. Il secondo è di natura demografica: in tutto il globo si registrano importanti movimenti migratori. Questi spostamenti di massa, frutto di instabilità politiche, si aggraveranno per effetto dei cambiamenti climatici, dello squilibrio o dell’assenza di risorse o per l’intensificarsi delle calamità naturali. Terzo elemento, la presunzione che la permanenza sia una condizione assodata per immaginare le nostre città, quando è in realtà un’ipotesi resa più complessa, anche se con risvolti positivi, dal fatto che negli ultimi anni peregrinazioni, celebrazioni e raduni politici ovunque e di ogni sorta hanno accresciuto la necessità di più, e più grandi, strutture e insediamenti temporanei. La combinazione di questi fattori dovrebbe dunque portarci a riconsiderare l’assunzione, anzi l’idea stessa, di permanenza e ricalibrare le nostre risposte dinnanzi alla costante trasformazione del processo di urbanizzazione nel mondo. Come avviene per gli spazi informi della città che portano ad ambienti temporanei auto-costruiti, anche i disastri naturali e i cambiamenti climatici favoriscono la trasformazione di ripari temporanei in campi e insediamenti sempre più frequentemente come soluzioni e strategie di breve o lungo termine. Sono numerosi gli esempi di occupazioni pro tempore a fronte di calamità naturali e minacce ambientali (come di recente nelle Filippine, ad Haiti e in Cile) o di città temporanee nel contesto di un disastro. Inoltre, in molti paesi, le tensioni politiche costringono le persone ad abbandonare i luoghi di origine alimentando i campi profughi e rendendone tremende le condizioni. Questo flusso continuerà a intensificarsi, data la condizione generale di ineguaglianza e squilibrio di risorse che ha sconvolto e dislocato brutalmente comunità e popolazioni. Casi estremi di spazi umanitari per apolidi e richiedenti asilo sono i campi profughi in Costa d’Avorio, con oltre novecento mila rifugiati provenienti per lo più dalla Liberia e, in seconda battuta, da altre zone limitrofe. Ancor più impressionanti sono le condizioni presso il campo di Dabaad nel nord-est del Kenya e quello di Breidjing in Chad, che accolgono rispettivamente quasi cinquecento mila e duecento mila persone, così come la situazione delle strutture che in Sri Lanka ospitano trecento mila esiliati espulsi nell’arco dei dieci anni di guerra civile. Sorprendentemente, questi luoghi danno accoglienza solo a una piccola parte dei quarantacinque milioni di persone che, secondo l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, vivono al momento in queste condizioni nel mondo. All’altra estremità dello spettro, le manifestazioni culturali e religiose sono in aumento sia per frequenza sia per dimensioni, dando origine a strutture momentanee interne ed esterne alle aree urbane. I casi più eclatanti ci raccontano di città temporanee erette per fini religiosi, come per esempio per il pellegrinaggio alla Mecca (l’Hajj), e di una serie di costruzioni provvisorie edificate in India per celebrare alcuni eventi tra cui la Durga Puja, il Ganesh Chaturthi o la Kumbh Mela, un pellegrinaggio religioso che secondo i dati ufficiali riunisce più di cento milioni di devoti. Infine i grandi festival di musica, come l’Exit in Serbia, Coachella in California o lo Sziget a Budapest, che prevedono estesi insediamenti effimeri che ospitano per brevi periodi di tempo enormi gruppi di persone. Si spazia da quelli relativamente piccoli tra cui il Burning Man in Nevada o il Fuji Rock in Giappone, con circa quaranta mila appassionati assiepati per ascoltare musica o fare festa, fino alle trecentocinquanta mila presenze di Glastonbury in Inghilterra, Roskilde in Danimarca o Werchter in Belgio. A questi esempi si possono aggiungere altre situazioni quali la serie di “città effimere” costruite per sfruttare le risorse naturali (minerarie, petrolifere o boschive) come nei pressi della miniera d’oro di Yanacocha in Perù (con oltre dieci mila minatori pro tempore), delle miniere Maritsa Iztok in Bulgaria, della miniera di carbone Motru in Romania o di quelle di Chuquicamata, Salvador e Pelambres nel nord del Cile. Questi insediamenti si differenziano per natura dai precedenti sia per il loro ciclo di vita, sia per la loro complessità. Generano infatti conseguenze ambientali frutto delle operazioni su larga scala che modificano, seppur attraverso azioni temporanee, la topografia del luogo. Il ciclo di vita di queste “città effimere” si lega al termine delle attività estrattive e all’esaurimento di risorse; tuttavia, in molti casi, esiste già una data certa o presunta di fine lavori. Ai fini operativi, la domanda è dunque: un paesaggio temporaneo può svolgere un ruolo “transizionale” decisivo nella trama di flussi che investe le città su scala planetaria in proporzioni sempre crescenti? La condizione contemporanea, associata alla diffusione incontrollata dell’influenza del capitale globale e alla colonizzazione di suolo nelle periferie urbane, sta confinando il globo in forme di urbanizzazione insostenibile: la dipendenza da combustibili fossili, associata ai trend isolazionisti delle gated community per ricchi, sta creando una polarità che sarà difficile da scardinare. Così, mentre la città formale cresce nell’immaginazione di Governi e promotori, la città informale prolifera e si amplifica a un ritmo senza precedenti. Può dunque l’urbanistica affrontare in qualche modo questi temi? Possiamo noi, come architetti e pianificatori, sfidare il presupposto che solo ciò che è permanente ha un valore? Nella città fluida, fenomeno globale nello scenario post-industriale di molti centri urbani, vita e lavoro sono sempre più frammentati. Luoghi di residenza e spazi di lavoro hanno perso correlazione dal momento in cui - com’era prevedibile - questi ultimi sono stati centralizzati. Nelle odierne economie di rete, queste realtà non solo sono disgiunte, ma sono anche fluide e in costante riconfigurazione. Questo processo ha generato la disgregazione della struttura e della forma urbana, così come lo smantellamento della rigorosità dello zoning o dell’utilizzo programmatico del suolo, che porta a un immaginario molto più articolato su come funziona e viene vissuta una città. È un’urbanizzazione creata da coloro che vivono al di fuori dei domini elitari della modernità formale dello Stato. È ciò che il professore indiano Ravi Sundaram identifica come “modernità pirata”, in grado di sfuggire alle leggi della città per la propria sopravvivenza, senza alcun tentativo dichiarato di fondare una contro-cultura. Questo fenomeno dei flussi diventa un elemento critico nelle città e nazioni connesse all’economia globale; tuttavia, i luoghi originati in questo modo sono in larga misura estromessi dai dibattiti culturali sulla globalizzazione, focalizzati invece su elitari domini di produzione nella città. Sono luoghi lontani dal radar di gran parte degli architetti e urbanisti (più orientati verso lo spazio pubblico tradizionale) nei quali si conduce un’esistenza fluida in perpetuo cambiamento. Non si tratta solamente della città dei poveri, di modelli canonici di sviluppo formale contrapposti a quelli informali o di altre dicotomie ancora, bensì di uno spazio dinamico in cui tutti questi modelli si riducono a singole entità dai significati mutevoli e con linee di demarcazione sfocate. Sorgono dunque alcune domande. Noi, come architetti e pianificatori, siamo in grado di progettare per questo genere di spazio? Siamo in grado di ragionare con la mente scissa in due? Possono essere incluse altre forme organizzative nella discussione sulle città e, se sì, come possiamo riconoscerle e integrarle in un confronto formale di progettazione urbana? Non si tratta di discutere se lasciare che le nostre città diventino temporanee, ma se riconoscere questi fenomeni effimeri quali parti integranti del contesto urbano e individuare quale spazio c’è per questo nella progettazione della città - dalla stessa forma urbana, passando per gli spazi pubblici fino alle strutture amministrative. Inquadrare questa fluidità con l’espressione “urbanizzazione effimera” è forse più stimolante della ripartizione binaria tra città formale e informale, e implica perciò una condizione transitoria piuttosto che trasformativa o assoluta. Come progettisti tendiamo a osservare e organizzare il mondo attorno a noi in sistemi binari: ricco e povero, privato e pubblico, formale e informale. Questo metodo, pur avendo una sua utilità, sembra svantaggioso per chi fa progettazione, poiché impone lo schieramento e il sostegno di una polarità a discapito di un’altra, quando invece l’architettura presuppone la capacità di sintesi e l’abilità di risolvere controversie con soluzioni spaziali. Dunque, qual è il ruolo dell’architetto in queste condizioni? La fluidità rappresenta ora il new normal, che sommato agli impulsi di crescita e di flusso innescati dall’incertezza politica e dalle calamità naturali, apre per noi architetti nuovi scenari che ci impongono di rivedere la nostra interpretazione della condizione urbana e il nostro stesso ruolo. Nel suo libro Discovering the Vernacular Landscape (1984) e nelle sue considerazioni sul Nord America, J.B. Jackson rimarcò l’importanza di quello che definiva come il terzo paesaggio, ossia il paesaggio degli eventi ciclici. Il primo era quello della mobilità, delle prime culture coloniali tradizionali che preferivano l’adattabilità e la capacità di spostarsi con facilità, le tende per brevi soste e le capanne di tronchi; un ambiente che caratterizzava il Nord America aspettando che nascessero i classici villaggi agricoli di Jefferson. Sono questi insediamenti scomponibili - una tipologia rintracciabile in ogni cultura - ciò su cui ha voluto richiamare la nostra attenzione nei suoi scritti. A questo paesaggio transitorio ed effimero subentrò il secondo tipo di paesaggio che «fece nascere in noi la convinzione che ci potesse essere solo una tipologia di paesaggio, contraddistinta da un ordine sociale fortemente conservativo e statico»; oggi è riscontrabile in gran parte dei contesti urbani del Nord America, dell’Europa e forse della Cina. Coloro che vivono in questo genere di paesaggio, secondo Jackson, si sentono isolati anche se lavorano e vivono a stretta distanza tra loro. Lo scrittore difende quello che definisce il terzo paesaggio, dove l’effimero e il momentaneo possono essere inseriti all’interno di quadri statici, arricchendo l’interazione sociale. Il terzo paesaggio è dunque fluido, temporaneo, in grado di rispondere a specifiche necessità in una scala temporale a volte prevedibile. Spettacoli dal vivo come il circo, il mercato contadino e i festival, per esempio, sono momenti di aggregazione in cui le diverse componenti della società diventano consapevoli della reciproca esistenza all’interno di un sistema urbano. La condizione effimera ha, ovviamente, molto da insegnarci sulla pianificazione urbanistica e architettonica. Infatti, la città temporanea che cresce e scompare in un arco temporale spesso estremamente limitato, rappresenta un surrogato completo dell’ecologia urbana. In breve, la nozione di effimero quale categoria produttiva nel più ampio discorso sull’urbanizzazione è da tenere in seria considerazione. Perché nella realtà, quando le città vengono analizzate per lunghi periodi di tempo, la temporaneità emerge quale condizione importante nel ciclo vitale di ogni ambiente costruito. Peter Bishop e Lesley Williams si sono di recente interrogati sul motivo per cui gli urbanisti si siano così focalizzati sui concetti di permanenza e invariabilità, pur dinnanzi all’evidenza che le città sono una complessa stratificazione di edifici e attività in un modo o nell’altro temporanei. Ampliare le modalità di lettura dello spazio urbano è dunque un obiettivo da perseguire e un modo per iniziare a raccogliere prove e materiale per promuovere un’urbanizzazione più aperta, ossia come la descrive il sociologo Richard Sennett: un’entità incompleta, errante, contradditoria e non lineare. Questa forma urbana permetterebbe di affrontare una vasta gamma di problematiche, seppur per un lasso di tempo definito, che interessano memoria, geografia, infrastruttura, raccolta dei rifiuti, sanità pubblica, ecologia e forma urbana. Questi parametri potrebbero rivelare il proprio potenziale proiettivo, offrendo alternative su come integrare sistemi più “morbidi”, ma forse più efficaci, in città più permanenti. Andrea Branzi dà qualche spunto su come pensare le città del futuro. A suo avviso, dobbiamo imparare ad applicare la reversibilità, evitando soluzioni drastiche e decisioni definitive. Suggerisce inoltre approcci che aprono alla riconversione e riprogrammazione dello spazio attraverso nuove attività non previste o non anticipate dal programma iniziale. L’architettura e la pianificazione urbanistica devono, perciò, riconoscere la necessità di riesaminare la validità delle soluzioni permanenti quali unico strumento per formulare immaginari urbani, concependo al tempo stesso nuovi protocolli da riformulare, riadattare e riprogettare costantemente nello sforzo interattivo di un equilibrio temporaneo che reagisce a stati permanenti di crisi. Inoltre, la crescente sensibilità verso le problematiche ecologiche e ambientali ha contagiato anche le discussioni sulla città, riflettendosi nell’urgenza di reintrodurre il paesaggio nel modello urbanistico, e rende evidente la necessità di evolvere verso dibattiti di maggior respiro ed elasticità per la città e per la sua forma urbana nel senso più ampio. La loro struttura fisica sta evolvendo a livello globale, sta trasformandosi tramite il morphing, sta mutando e diventando più malleabile, più fluida e più aperta al cambiamento rispetto alle tecnologie e alle istituzioni da cui è generata. Oggi, gli ambienti urbani si confrontano con flussi migratori crescenti, con sempre più disastri naturali e crisi economiche interattive che, nella loro evoluzione, alterano i flussi di capitale e le relative allocazioni, quasi fossero componenti fisiche delle città. Di conseguenza, le scenografie urbane hanno l’obbligo di essere più flessibili per aumentare la propria efficacia nel rispondere, organizzarsi e resistere a sollecitazioni interne ed esterne. In un periodo storico come questo, in cui il cambiamento e l’inaspettato sono onnipresenti, caratteristiche urbane come la reversibilità e l’apertura diventano elementi critici per riflettere su come articolare modelli di sviluppo più sostenibili. Nelle odierne urbanizzazioni di tutto il mondo sta emergendo con chiarezza sempre maggiore quanto affermato da Saskia Sassen e Richard Sennett, ossia che le città per essere sostenibili devono essere fluide e devono facilitare i flussi attivi, piuttosto che essere imbrigliate entro configurazioni materiali statiche. Questa versione più allargata della progettazione urbanistica accoglie nuove letture come l’effimero e presenta una visione convincente che ci permette di comprendere meglio i confini annebbiati dell’attuale processo di urbanizzazione (spaziale e temporale) così come il modo in cui le persone vanno a definire e classificare gli spazi nella società urbana. Pertanto, per dedicarsi a questa discussione, l’esplorazione dei paesaggi temporali innesca un importante dibattito sulla permanenza e sull’immutabilità quali soluzioni univoche per la condizione urbana. Si potrebbe invece argomentare che il futuro delle città dipende meno (e non soltanto) dal riassetto di edifici e infrastrutture e più dall’abilità degli architetti e degli urbanisti di immaginare con la mente aperta paesaggi più malleabili, tecnologici, materiali, sociali ed economici. Ossia immaginare una forma urbana che riconosce e gestisce meglio la natura elastica e temporanea dell’emergente ambiente urbano costruito, con strategie più efficaci per governare il cambiamento quale elemento essenziale per la costruzione dell’ambiente urbano. La sfida sta allora nell’imparare da queste condizioni estreme per gestire e affrontare le varie contingenze urbane, riuscendo al tempo stesso a rispondere alle necessità emergenti e a prestare attenzione a elementi della società urbana in larga parte dimenticati. L’obiettivo è dunque quello di arrivare a concepire un’architettura più flessibile e un’urbanistica più allineata con le realtà emergenti, dandoci la possibilità di confrontarci con scenari più complessi rispetto agli ambienti permanenti (o invariabili) costruiti per un’illusoria stabilità. Un ringraziamento a Felipe Vera per i tanti saggi scritti assieme sul tema dell’urbanistica effimera, studi che hanno inciso nella composizione di questo editoriale. Un ulteriore ringraziamento a Ricky Burdett, per lo sviluppo di alcune di queste idee.

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