12 settembre 1997. Nel giorno del mio ventitreesimo compleanno, dopo un volo di sedici ore da Bologna, atterrai a Los Angeles. Mentre osservavo la metropoli dall’alto, pronta per la borsa di studio di un anno alla UCLA, non avrei mai pensato che di lì a poco sarei arrivata nella città che avrei chiamato “casa” per i successivi vent’anni. Ricordo, nel guardare fuori dal finestrino, una luce più bianca di quella a cui ero abituata e un inesorabile sprawl urbano che si diffondeva a perdita d’occhio. Calcestruzzo e asfalto divoravano la metropoli, una distesa di arcipelaghi di coperture piane, grigie e, nel migliore dei casi, impreziosite dagli argentei tubi di scarico dei climatizzatori. In questa trama, piccoli reni di colore blu - in realtà, piscine - punteggiavano ogni giardino. Ricordo che domandai a me stessa se avessero devastato un intero continente… quando all’improvviso mi ritrovai a terra, nel clima caldo secco di una città invasa dall’odore di cherosene. Dopo 15 mila ore di viaggi in macchina, dopo centinaia di migliaia di miglia aeree, dopo svariate piccole (e piccolissime) scosse di terremoto, dopo vari anni vissuti in un bungalow di Venice Beach a un isolato dall’oceano e dopo tutti i visti d’immigrazione possibili fino all’agognato passaporto di colore blu, posso affermare con certezza di essermi guadagnata il simpatico appellativo di “Angelina” che spetta a tutti coloro che vivono a Los Angeles da così tanto tempo da poterla chiamare casa. In linea generale, mi trovo più in sintonia con il punto di vista di Reyner Bahnam che nel suo The Architecture of Four Ecologies (1971) scrive una lettera d’amore all’urbanistica di Los Angeles, piuttosto che con la drammatica società immaginata da Mike Davis in City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles (1990). Come molte altre odierne megalopoli, anche Los...
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