Come si sa, la forma architettonica intrattiene un rapporto particolare con il tempo. La forma architettonica non sembra avere scelta: può solo essere non-contemporanea, o anacronistica, se non altro per il lungo tempo che intercorre dalla sua ideazione alla sua nascita, e cioè il momento in cui incomincia una vita solitaria indipendente da chi ne ha seguito la gestazione. È dunque un fatto o un oggetto che, almeno apparentemente, rimane avulso dal proprio contesto temporale. Durante il Novecento la retorica dello Zeitgeist - lo spirito del tempo - è stata spesso sostenuta da architetti (modernisti) ansiosi di dimostrare la “contemporaneità” delle soluzioni formali e tecniche da essi stessi adottate nel tentativo di essere riconosciuti come “contemporanei” dai propri simili. Al fine di raggiungere questo obiettivo, hanno pensato (e continuano a pensare) che essere contemporanei significhi cercare un equivalente formale alle retoriche dominanti del tempo, senza chiedersi se queste ultime possano essere false o distorte. In questo modo sono spesso diventati, nella maggioranza dei casi, capaci di essere puntuali solo all’appuntamento secondario del mestiere dell’architetto - quello con il (futile) tempo cronologico degli “ismi” architettonici del momento - risultando invece in ritardo all’appuntamento importante, ovvero quello con l’anacronismo congenito della forma architettonica. Pochi sono coloro che hanno pensato che per essere contemporanei sia necessario, secondo le parole di Giorgio Agamben, «tenere fisso lo sguardo sul proprio tempo per percepirne non le luci, ma le ombre [...]» e che «l’uomo contemporaneo, anche quando rimane investito dal fascio di luce che proviene dal suo tempo, rimane capace di percepire il buio del suo tempo come qualche cosa che lo riguarda e con cui deve interagire». In questo panorama, il nuovo municipio di Byblos dello studio di Hashim Sarkis emerge come prova convincente di come si possa interagire con il buio del nostro tempo...
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