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L’AA ed io

Yung Ho Chang

L’AA ed io
Scritto da Yung Ho Chang -

Appena venuto a conoscenza della scomparsa di Zaha Hadid, ho pensato a lei e all’AA, l’Architectural Association School of Architecture di Londra, sebbene non ne sia mai stato studente.

Nella primavera del 1981 ho lasciato la Cina per proseguire la mia formazione architettonica negli Stati Uniti. Nella mia mente mi immaginavo in una “foresta” di grattacieli, invece mi sono ritrovato in una distesa di campi di grano che si estendevano fino all’orizzonte. Mi ero iscritto alla Ball State University, nella città di Muncie in Indiana.

L’anno successivo, dopo aver trascorso l’estate a San Francisco lavorando come garzone nel ristorante di mia zia, ho fatto ritorno a Muncie e ho conosciuto un professore dall’accento insolito e con un fiore al bavero; mi dissero che si chiamava Rodney Place e veniva dall’AA. Aveva un metodo di insegnamento totalmente diverso rispetto al modello americano a cui ero abituato (che era basato, proprio come quello cinese, sulla trasmissione della conoscenza, se non proprio dei fatti). Il suo corso, chiamato “The Laboratory of Uncertainty”, era dedicato al tema “Use, Misuse, and Abuse”. Le lezioni trascorrevano con lui a porci domande come “Cosa vedi in questo dipinto italiano del primo Rinascimento?” (spesso tra le sue slide) oppure “Cosa vedi per le strade di Muncie?” (città dove a fatica ci si imbatte in qualcuno). Indipendentemente dalla nostra eventuale risposta, lui non faceva commenti. Questa era la prassi.

Tranne una volta. Una sera, a tarda ora, Rodney si precipitò in aula entusiasta, chiedendomi di uscire con lui. Là fuori, sotto il cielo limpido e sereno dell’Indiana, alcuni bambini in sella a una bici saltavano su e giù dai gradini davanti alla scuola. Un evento che per me si è tradotto in una ricerca lunga una vita: realizzare un progetto dove mescolare architettura e uso della bicicletta. Una ricerca senza fine, nata durante il corso dal mio io più profondo, come gli studi sulla percezione e sulle modalità di progettazione degli architetti. Nell’arco di quel semestre, ho studiato un blocco residenziale che consentisse ai ciclisti di raggiungere ogni singola unità; oggi, invece, sto lavorando a un progetto residenziale sperimentale - la Bike House - che fa della bicicletta il filo conduttore per rinsaldare i legami tra città e abitazioni e ricreare un certo stile di vita.

Lo stile di vita di Rodney sembrava essere parte del suo metodo di insegnamento. Amava gli abiti anni Sessanta e, come venni a sapere più tardi, viveva al secondo piano di un palazzo per uffici disabitato, nel centro deserto di Muncie. Di notte, l’edificio veniva illuminato lungo la facciata da un’insegna al neon che recitava “Indiana Business College”. Se chiudo gli occhi, ne ricordo esattamente la collocazione. Faccio invece più fatica a ricordare se si illuminasse o meno (a memoria aveva una luce accecante). Il secondo piano era un ambiente arioso, con un bagno vicino alla scala. Tutto l’arredo proveniva dalla sede locale dell’Esercito della Salvezza: due divani fatiscenti, una tavola con due sedie spaiate, un letto pieghevole e un attaccapanni per la sua collezione di vestiti vintage. Tutti quei mobili, comunque, non attenuavano molto il potente senso di vuoto trasmesso dallo spazio. Era essenziale, quindi perfetto per le nostre frequenti riunioni. Tuttavia non mi capacitavo di come riuscisse a viverci; sapevo solo che, di mattina, si recava all’Associazione giovanile maschile cristiana per farsi una doccia.

È stato tuttavia quel luogo a suscitare il mio interesse per gli stili di vita. A inizio anni Novanta, con il prototipo per la Vertical Glass House, ho concepito un progetto di vita in un ambiente domestico, realizzato a Shanghai ventidue anni dopo. Vi ho trascorso una notte illuminato dal biancore della luna, lasciando “pedalare” la mia mente tra le rampe della Bike House che stavo progettando. 

Terminata la mia esperienza a Muncie, ho stretto amicizia con un ex studente di Rodney ai tempi in cui era docente in Illinois, il quale mi ha raccontato di un graffito in uno dei bagni maschili dell’università, con scritto “Nessun posto è come da Rodney”. Per me Rodney era l’AA. Non solo perché ci aveva studiato - era nello stesso corso di Zaha - e insegnato, ma anche perché il suo spronarci verso degli approcci all’architettura alternativi mi aveva trasmesso l’essenza di quella scuola. Tuttavia, ero ben consapevole di non aver ricevuto una formazione da AA (troppo onerosa per le mie tasche). Nel 1993, quando insegnavo alla Rice University di Houston, sono andato alla University of Texas di Austin per una conferenza su un mio progetto per una scuola materna caratterizzata da grande permeabilità e trasparenza. Dopo la presentazione, sono stato avvicinato da un professore di nome Chris McDonald che mi ha domandato se fossi stato studente di Robin Evans. Robin Evans era docente di Teoria dell’Architettura all’AA, dove a suo tempo era stato compagno di corso di Rodney e Zaha. A inizio anni Novanta, la mia curiosità verso quella scuola cresceva sempre di più; in biblioteca raccoglievo via via sempre più notizie, su quell’istituzione. Peter Wilson. Un nome menzionatomi da Rodney che mi fece conoscere i suoi lavori e, in particolare, un suo progetto per un bagno pubblico in cui la raffigurazione realistica ma al contempo poetica dell’acqua, del fuoco e del fumo ha rivoluzionato la mia idea di rappresentazione architettonica. Bernard Tschumi e Michael Gold e la loro ricerca di una propria narrativa architettonica e del legame profondo tra letteratura e progettazione. In una delle loro pubblicazioni una figura sale una scala inclinata appena illuminata; un’immagine che mi ossessiona di tanto in tanto. Ho comperato ben tre copie dei The Manhattan Transcripts di Bernard e - ovviamente - ho visitato il Parc de la Villette a Parigi, ma la questione di come letteratura, cinema o nozioni concettuali possano tradursi in forme architettoniche rimane aperta. Zaha Hadid. Quando penso a lei, penso alla sua invenzione di un nuovo linguaggio formale. La sua architettura guarda al costruttivismo russo e adotta come metodo di rappresentazione prospettive curvilinee in quanto la realtà che abbiamo davanti agli occhi, come lei stessa ha affermato una volta, è un mondo curvo. Poi Nigel Coats, Peter Salter… Infine Robin Evans, architetto che scriveva di architettura. Non ricordo se Rodney me lo abbia citato en passant; si vede che a quel tempo non ero abbastanza attento. Tuttavia, dopo aver letto alcuni suoi saggi come Translation from Drawing to Building, The Developed Surface, Figures, Doors and Passages e Mies van der Rohe’s Paradoxical Symmetries, ho compreso che Evans era stato l’insegnante del mio insegnante, cioè di Rodney.

Non vorrei utilizzare il termine “teoria” per descrivere le sue opere, poiché correrei il rischio di inserirlo tra quei luminari che separano l’architettura dalla dimensione pragmatica, facendone un concetto astratto. Al contrario, Robin Evans ha scritto di muri, porte e corridoi, del modo in cui le persone abitano gli edifici e gli architetti disegnano. Realizzava lui stesso i diagrammi per i suoi scritti; erano parte del suo sforzo per celebrare l’architettura ed elevarla dalle costruzioni ordinarie e dalla prassi comune.

Una porta non è più solo una porta. Forse è qualcosa di più, sebbene rimanga di fondo tale; qualcosa di molto simile a una porta, simile a quella nell’appartamento di Marcel Duchamp in Rue Larrey 11 a Parigi dove una porta con due stipiti perpendicolari dava accesso contemporaneamente a due stanze; aprendola si chiudeva automaticamente l’altra stanza: una porta aperta e chiusa. Duchamp era un altro nome citato da Rodney, che prese spunto proprio dal suo dipinto “Nude Descending a Staircase No. 2” per disegnare una porta girevole e restaurare un appartamento in cui, per recarsi in camera da letto, era necessario attraversare un armadio.

Ho potuto ammirare solo in foto la porta-armadio di Rodney, mentre ho visto di persona la casa progettata da Robert Cole in Michigan a fine anni Ottanta, dove spingendo una libreria-porta si entrava in camera da letto. Anche Robert all’AA era nel corso con Rodney, Zaha e Chris. Io stesso, nel 1998, ho progettato una porta scorrevole, girevole e pieghevole; in quel momento, dovevo essere in uno stato di totale amnesia per non accorgermi di contribuire alla breve evoluzione concettuale della porta (senza volere insinuare che il gioco delle porte sia esclusività di un determinato gruppo).

La porta è un elemento costruttivo da cui è difficile liberarsi in toto. Quella ideata da Steven Holl per il progetto residenziale a Fukuoka, in Giappone, creava una partizione una volta chiusa. Un’invenzione che dimostra come gli architetti riflettano da sempre su questo elemento, sulla sua essenza e sui suoi possibili impieghi. Lo stesso vale per la finestra, con esempi che spaziano dall’opera d’arte “Fresh Widow” di Duchamp alla finestra “sigillata” di Sigurd Lewerentz. Contestualmente, lo stesso discorso può essere applicato anche a oggetti atipici e non architettonici, come la ruota di una bici. Il primo è stato - ancora una volta - Duchamp, nel 1913, quando l’ha separata dal mezzo di trasporto per farne un’opera d’arte ready-made. Noi di Atelier Feichang Jianzhu l’abbiamo utilizzata nel 1996 a Pechino per la libreria Xishu, sfruttandola come supporto per una scansia girevole.

Non intendo banalizzare Robin Evans o celebrare in maniera esagerata Marcel Duchamp. Intendo solo affermare che Evans era in grado di trasformare un edificio banale in un laboratorio dove dare sfogo alla propria vena creativa e al proprio spirito di esplorazione. Vivere, occupare e appropriarsi di uno spazio sono da considerare come prosecuzione e ampliamento dell’atto della progettazione; in questo senso, il progetto di Rodney per il concorso di progettazione bandito per il complesso residenziale Shinkenchiku con tema “Comfort nella metropoli” - valutato nel 1977 da Peter Cook - sembrava fondere in un unicum il progetto e l’uso della metropolitana di Londra. La parola “intervento” ha qui un duplice significato. Un po’ come quando a Duchamp venne chiesto se l’architettura fosse o meno di suo interesse e rispose “Assolutamente”. 

Nel 1992 ho fatto finalmente visita all’AA come turista, vedendo con i miei stessi occhi le personalità scoperte attraverso i libri e le riviste che “divoravo” al bar al primo piano… Nel 1998, sono ritornato a Bedford Square per allestire una mostra chiamata “Possibly Big Possibly Small”, in collaborazione con due amici: Kay Ngee Tan di Singapore e Tie-Nan Chi di Taiwan. In quel periodo, il preside dell’AA era Mohsen Mustafavi, un altro compagno di corso di Rodney, Zaha, Chris e Robert.

Questo esercizio di memoria non è solo una pratica nostalgica, nemmeno un tentativo di ricostruire ciò che era l’AA degli anni Settanta e Ottanta - il che potrebbe essere totalmente fuorviante date la mia conoscenza molto limitata e la mia carenza di prospettiva storica. Sto semplicemente cercando di riportare alla luce e raccogliere idee di architettura - geniali, pertinenti o entrambe le cose - che negli ultimi decenni sono state “inghiottite” dalle tendenze dominanti nello sviluppo della disciplina. Ad esser sincero, auspico che in questo esercizio possa ritrovare anche “parti disperse” di me, per raccoglierle e ricongiungerle il prima possibile.

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