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Assemblaggi materici e materializzazioni concrete: prospettive di interazione tra involucri e ambiente

Alejandro Zaera-Polo | Britt Eversole

Assemblaggi materici e materializzazioni concrete: prospettive di interazione tra involucri e ambiente
Scritto da Alejandro Zaera-Polo, Britt Eversole -

Sebbene la facciata sia uno degli elementi più teorizzati in architettura, il concetto che vi sta dietro è stato oggetto di discussioni solo a partire dalla fine del XIX secolo. Convenzionalmente questo concetto è incentrato sulla “viseità” (secondo la definizione di Gilles Deleuze e Félix Guattari in “Millepiani. Capitalismo e schizofrenia.”) e sui relativi codici linguistici, leggi proporzionali, operazioni linguistiche e compositive. Tuttavia, durante il secolo scorso, si è registrato un enorme sviluppo sia delle tecnologie per il costruire sia di architetture complesse dalle dimensioni smisurate, un fenomeno che ha portato il valore dei significati mitopoietici e delle strategie espressive a scemare in favore di significati derivanti da logiche e logistiche materiche e quantitative dell’involucro. Queste logiche dell’involucro non sono frutto di nozioni figurative e superficiali di teorie tradizionali sulla facciata, bensì di relazioni tangibili tra strati di materiali, prodotti e persino meccanismi che chiameremo “assemblaggi di involucro”. In essi, le operazioni figurative e semiotiche sono divenute nel tempo secondarie rispetto a concetti quali comportamento e performance. La performance si basa su qualità misurabili (resistenza, grado di isolamento, costo), mentre il comportamento racchiude in sé, come nella cibernetica di vecchio stampo, i cambiamenti nell’ambiente (fisici, sociali, economici, politici) in relazione agli output di un dato elemento e agli input dati a quest’ultimo dall’ambiente stesso.
Capire le logiche, i comportamenti e le performance pone in primo piano gli intrecci concreti tra l’architettura e altri campi, pratiche materiche, economie culturali e strutture politiche. Questa comprensione non è una semplice prassi contemporanea, ma un fenomeno andato consolidandosi da quando le facciate sono state liberate da obblighi strutturali. La conversione e l’adattamento delle tecnologie militari in componenti per l’edilizia dopo la seconda Guerra Mondiale, l’importanza dei sistemi di isolamento ermetico tra gli anni Sessanta e Settanta, dominati prima dall’inquinamento poi dalla crisi energetica, il crescente uso di pareti schermanti in titanio a seguito dei primi crack economici della Russia post-sovietica sono esempi del rapporto tra tropi architettonici di involucro e i relativi substrati culturali, tecnici e politici. Naturalmente, molti di questi assemblaggi sono esistiti per decenni e sono stati usati a servizio delle strategie compositive delle facciate classiche. Tuttavia, dal nostro punto di vista, le trattazioni architettoniche sono prive di una teoria coerente su come e perché cambiano le tecnologie costruttive, come i cambiamenti beneficiano del consenso popolare, perché le tecnologie più avanzate possono non essere le più utilizzate, perché quelle vecchie possono improvvisamente diventare significative e quelle perfettamente valide cadere in disuso. Nonostante il ruolo tuttora discorsivo delle teorie classiche di rappresentazione e fenomenologia, queste non sono indicate per spiegare le complesse relazioni ambientali che innescano il cambiamento tecnologico in architettura. La comprensione di questi processi mette infatti in luce che sono le incarnazioni materiche (e non la rappresentazione) il nucleo delle pratiche architettoniche nell’involucro edilizio. Non parliamo di una cronologia delle scoperte o dei più grandi trionfi tecnologici, ma di uno studio antropologico degli assemblaggi di involucro che si sono evoluti dalla fine del XIX secolo, ovvero da quando la facciata si è svincolata da performance strutturali. Si tratta quindi di uno studio che ha poco a che vedere con una cronaca delle invenzioni, poiché si concentra maggiormente sulla comprensione di materiali e tecnologie nel loro rapporto con l’ambiente, diffusione e adattamento in presenza di condizioni mutevoli. Materiali quali alluminio, tecnologie quali facciate continue, assemblaggi quali pareti schermanti non fungono da tramite per concetti culturali o politici, come un tempo accadeva per gli ordini classici, ma sono invece precise materializzazioni dei processi culturali e geopolitici, le cui implicazioni in architettura devono essere articolate, non perché intangibili, ma perché concrete e comunemente riconosciute.
Un assemblaggio è sottoposto a un processo di creazione, proliferazione e infine estinzione, ma non è possibile immaginarlo come artefatto isolato, congelato nel tempo e nello spazio. Si inserisce in un tessuto storico assieme ad altri materiali e assemblaggi architettonici in grado di fornire informazioni sull’evolversi delle tecnologie di involucro. Ogni volta che un assemblaggio di materiale viene impiegato in un involucro edilizio si assiste a una modifica del suo significato; di conseguenza, i suoi significati non sono necessariamente intrinseci, ma possono essere ricondotti ai rapporti con altri materiali, assemblaggi e ambienti. Nell’opporci a una ricerca fenomenologica o a un obbligo morale per esprimere l’essenza di un materiale, siamo convinti che i significati degli assemblaggi non possano essere ricondotti a un’interpretazione univoca e invariabile, bensì a una molteplicità di narrative, economie e storie collegate: alcune sono proprie dell’architettura intesa come disciplina, altre vanno a imporsi dall’esterno sotto forme inattese e spesso problematiche. In questo modo, i significati variano nel tempo e, nella loro molteplicità, possono subire alterazioni repentine e trovarsi in conflitto tra loro. Considerate il percorso altalenante delle finestre in acciaio: popolari alla fine del XIX secolo grazie a un profilo slanciato e caratteristiche quali robustezza e resistenza alla deformazione e infestazione, furono ampiamente utilizzate per riconfigurare finestre difettose in ferro e legno di edifici preesistenti. Nel secolo successivo ebbero invece un ruolo importante nel processo di modernizzazione e dematerializzazione delle facciate solide; senza questo simbolo di modernismo sarebbe infatti stato impossibile immaginare gli effetti architettonici ottenuti da Gropius per il Bauhaus a Dessau o da Albert Kahn negli stabilimenti per la Ford Motor Company a Detroit. Sebbene i loro profili non abbiano subito sostanziali alterazioni nell’arco degli ultimi 130 anni, le finestre in acciaio sono da sempre considerate tutt’altro che perfette, per questo hanno vissuto in uno stato di costante raffinamento. La zincatura a caldo, divenuta una prassi industriale standard negli anni Trenta, pose fine ai problemi di corrosione. Tuttavia, la soluzione tecnica a un difetto materiale non è mai una garanzia sufficiente per assicurarne l’utilizzo nel tempo. Per esempio, l’alta domanda di acciaio durante la seconda Guerra Mondiale portò di fatto a un ritorno al legno nelle finestre e allo sfruttamento di altri materiali (come l’alluminio) per le tecnologie degli infissi. Gli Stati Uniti fecero delle finestre in legno un simbolo patriottico, mentre l’Italia, a seguito della campagna di colonizzazione africana, venne aspramente colpita nelle disponibilità di materiali strategici dalla Società delle Nazioni, tanto che alcuni architetti eccessivamente conservatori definirono i sistemi in acciaio come “anti-italiani”. Potrebbero essere citati altri innumerevoli esempi a livello locale e mondiale per mostrare la natura molteplice e in continua evoluzione dei significati che caratterizzano qualsiasi materiale nel tempo. Le semplici narrative del progresso non possono venire incontro a questi intrecci economici e politici.
Inoltre, poiché le tecnologie in architettura sono spesso frutto del passaggio e conseguente trasformazione da una pratica all’altra, è difficile, e non del tutto corretto considerarle invenzioni di architettura. Al contrario, vi proponiamo di intenderle come entità soggette a processi di adattamento. Nella maggioranza dei casi, le tecnologie esistenti attendono le giuste condizioni ambientali per diventare apprezzabili e sfruttabili a livello architettonico, attirando su di sé il nostro interesse non tanto per ciò che sono, quanto per cosa fanno e come agiscono all’unisono con (o contro) l’ambiente - ossia per il loro comportamento e la loro performance. Gli assemblaggi degli involucri, quali facciate continue e schermanti, pannelli compositi, facciate per i media, involucri pneumatici, elastici, verdi o cinetici, ma anche l’intero ventaglio di nuove possibilità tecniche emerse nel XX secolo al di fuori del contesto disciplinare e delle teorizzazioni architettoniche, non si trasformano in modo lineare ma discontinuo, a volte sottotraccia, passando da un campo di applicazione all’altro o mutando in risposta a nuove situazioni ambientali. Un assemblaggio o una tecnologia particolari possono sopravvivere in un primo momento godendo di uso limitato, per poi scoprire solo in una seconda fase un nuovo ambiente in cui crescere, anche se per un periodo circoscritto. Per esempio, l’isolamento a cappotto è stato sfruttato in Germania all’inizio degli anni Cinquanta come sistema di finitura e coibentazione termica da utilizzare per ricostruire rapidamente gli edifici abbattuti dalle bombe e rimodernare quelli sopravvissuti alla guerra, così da ridurre le dispersioni termiche e diminuire i costi energetici e di riscaldamento. La sua crescente popolarità ha tuttavia raggiunto il picco negli anni Settanta, quando negli USA è divenuto il materiale perfetto per gli insediamenti suburbani. Questo sistema dall’aspetto così esclusivo ma dai costi decisamente più contenuti rispetto al laterizio trovò il proprio mercato (o ambiente) nella sempre più diffusa edilizia residenziale unifamiliare e commerciale (negozi di grandi dimensioni). In seguito, il ciclo di vita dell’isolamento a cappotto venne segnato positivamente dalla raffinata scelta degli architetti postmodernisti di utilizzarlo per grandi superfici luminose e policrome proprio quando il comune sentire lo considerava problematico e prossimo al fallimento. In modo ancor più bizzarro, i produttori ne esaltavano le applicazioni postmoderniste - alcune delle quali addirittura trasgredivano le modalità tradizionali di installazione! - mentre, al contempo, gli stessi assemblaggi venivano alterati per introdurre ulteriori livelli di impermeabilizzazione. La storia dell’isolamento, tanto curiosa quanto contradditoria, è un’eccellente dimostrazione dei processi dinamici che ispirano il percorso evolutivo di un assemblaggio.
A differenza dei materiali semplici (come pietra, acciaio e legno), gli assemblaggi sono totalità, ossia una varietà di materiali e sistemi riuniti per dare vita a un unico insieme costruttivo all’interno di un’architettura in un dato momento. Gli assemblaggi sono molto più di una semplice somma delle parti: sono il frutto di una scommessa che porta a unire più materiali in un preciso ambiente. Questo rischio deriva dalla natura contingente degli stessi assemblaggi, contraddistinti dalla ricerca provvisoria di equilibrio (omeostasi) all’interno delle condizioni di un ambiente specifico, preso nel suo complesso. L’ambiente in questione non si limita allo spazio fisico, ma include anche un reticolo di forze, conflitti, polemiche, leggi e codici, storie, narrative e miti in grado di condizionare in modo dinamico i significati. Tuttavia è solo attraverso gli assemblaggi che l’equilibrio ambientale viene affrontato a livello sistemico e tutti i miti collegati ai singoli materiali si fondono nelle grandi narrazioni degli involucri. Indipendentemente dal fatto che vengano contraddistinti da metodi e tecniche costruttive comuni a una vasta gamma di progetti applicabili su una altrettanto vasta mappa geografica, o siano caratterizzati da applicazioni fortemente contestualizzate a livello sia tecnico sia di significato, gli assemblaggi (standardizzati nel primo caso, integrati nel secondo) mostrano il complesso di agenti, economie e autorità capaci di ispirare e influenzare le decisioni a livello architettonico. Ai nostri fini, la distinzione tra queste due categorie non può essere riducibile a una mera contrapposizione tra generico e personalizzato o tra basso costo e lussuoso. Al contrario, è preferibile concentrarsi su un altro genere di distinguo, ovvero tra gli assemblaggi in armonia con l’ambiente e quelli che cercano di stravolgerlo, così da avere a disposizione uno strumento utile tanto per valutarne l’integrazione e l’equilibrio nell’ambiente, quanto nel comprendere l’intensità con cui gli scompensi di equilibrio comportano dei cambiamenti nella nostra concezione di architettura.
Noi preferiamo concentrarci su una prospettiva legata alle ripercussioni delle decisioni umane negli assemblaggi di involucro, piuttosto che sul punto di vista delle scienze sociali o della fenomenologia. Non possiamo considerare un’architettura senza comprenderne le economie, i materiali, i passi falsi durante la costruzione, le opinioni circa idoneità o adeguatezza e così via discorrendo. Nel viaggiare nel mondo osserviamo edifici di qualsiasi genere e, sin dall’infanzia, siamo abituati a immaginarli nudi, spogliati da ogni relazione nascosta: ogni volta che incontriamo un edificio, ci avvaliamo del nostro bagaglio di esperienze di vita; d’altro canto, sarebbe impossibile fare finta di ignorarlo. Sebbene siano dinamici, edifici e contesto appaiono comunque delimitati da un insieme definito di possibili significati passati e futuri, a loro volta circoscritti in toto dalle nostre esperienze. Il luogo dove si materializza questo dinamismo ci appare mediante gli assemblaggi, ossia il campo di applicazione dove nel tempo entrano in gioco le varie contestazioni economiche e politiche. Naturalmente, tutti i materiali impiegati nella costruzione di un involucro edilizio sono ancora soggetti alle forze del mondo (vento, acqua, gravità, temperatura, luce e visione), nonché ai vettori dei corpi penetranti (esseri umani, arredamento, macchine, ecc.) e altri fattori spesso nascosti come la trasmissione di informazioni, l’elettricità, gli impianti idraulici e altri servizi. I materiali vengono creati anche in relazione a quelle stesse forze che ne stabiliscono i limiti sia nelle dimensioni, sia nelle applicazioni. Elasticità, coefficiente di espansione, deformazione termica, resistenza alla compressione e così via non sono proprietà essenziali. Per utilizzare un termine proposto dal teorico evolutivo Daniel Dennett, esse esprimono una sorta di “design space” di formazione, rappresentato dall’ambiente nella sua totalità e dal processo di creazione di un materiale, dalle forze del mondo che ha già incontrato e probabilmente incontrerà, dalla sua contiguità con altri materiali e dall’eredità lasciata da precedenti pratiche umane o modalità di creazione. I materiali architettonici racchiudono al loro interno una vasta gamma di informazioni tra cui politiche economiche, commercio globale, nonché disponibilità, richiesta e insufficienza di prodotti. Gli altri fattori nello sviluppo tecnologico sono di matrice umana: le preferenze estetiche in un dato momento, il desiderio di costruire un edificio a costi accessibili senza spese di manutenzione, nonché le regole per testare i materiali e l’applicazione dei codici architettonici.
Raramente sono forze singole a influenzare un materiale da costruzione o un assemblaggio. Le forme architettoniche frutto dell’immaginazione e dell’estro spingono oltre i limiti dell’ingegneria, sebbene questi ultimi siano ancora determinati a livello qualitativo da forze fisiche ed economiche più o meno note. Il “design space” è dunque un set limitato di forze probabili e non, la cui maggioranza ci è conosciuta: quelle probabili sono cose come vento, budget, usura e danni, mentre quelle improbabili sono paragonabili all’antigravità o al Conciliarismo. La nascita di nuove forze sarà concepita in relazione a quelle esistenti, comportando una tensione. È importante operare una distinzione tra quelle effettivamente nuove, come i social media, e quelle preesistenti riproposte in chiave eccentrica e originale.
Naturalmente, noi tutti amiamo le grandi opere d’arte capaci di ridisegnare i confini architettonici e ingegneristici. La spinta verso nuovi effetti e forme esclusive ha dato vita ad assemblaggi unici e sbalorditivi. A volte sono diventati popolari e largamente usati, come quelli di Pilkington con vetri strutturali alla fine degli anni Sessanta. Altri, al contrario, sono risultati così atipici da non rientrare tra i tasselli evolutivi generali; le lenti in vetro concepite da Herzog & de Meuron per la boutique Prada a Tokio e per l’Opera di Amburgo, oppure i dispositivi cinetici di Ned Kahn sono esempi di tecnologie che mostrano una sorta di ipertelia, ossia un sovra-adattamento concepito per una funzione unica e dalle limitate possibilità di trasformazione nel tempo. Alcuni esempi, tra cui i dettagli in vetro negli Apple Store, brevettati e di conseguenza inimitabili, sono concepiti come un’architettura irripetibile e parte del brand. Tuttavia, come asserisce Gilbert Simondon, sono le tecnologie predisposte all’adattamento e al cambiamento - tecnologie e sistemi “aperti” - a racchiudere spesso il maggiore potenziale di realizzazione e influenza (e quindi evoluzione). Reyner Banham criticò l’attenzione riposta da Sigfried Giedion verso le invenzioni e “le prime volte”, preferendo il concetto di “varie volte”, quindi la distribuzione all’ideazione. Allo stesso modo, la nuova antropologia degli assemblaggi di materiale e, più in generale, l’idea di involucro da noi auspicata aspira a un allontanamento dalla celebrazione convenzionale delle architetture simbolo, in favore di un approccio più realista sulle forze che ispirano l’evoluzione delle tecnologie architettoniche.

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