Visioni senza tempo e utopie realizzabili | The Plan
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Visioni senza tempo e utopie realizzabili

Metrogramma

Visioni senza tempo e utopie realizzabili
Scritto da Andrea Boschetti, Alberto Francini -

“Credere in un’utopia ed essere contemporaneamente realisti non è una contraddizione. Un’utopia è per eccellenza realizzabile”.

Yona Friedman
Utopie realizzabili, Quodlibet 2003


“Una mappa del mondo che non includa il Paese di Utopia non merita neppure un’occhiata, perché tralascia l’unica terra cui l’umanità sia sempre approdata. E quando l’umanità vi sbarca, subito guarda al largo e scorgendovi terra migliore nuovamente arma le vele. Il progresso è la realizzazione delle utopie”.

Oscar Wilde
Il critico come artista. L’anima dell’uomo sotto il socialismo,
Feltrinelli, 1995

“Le idee vengono chiamate “utopiche” quando appaiono utili ma propongono uno stile diverso, una procedura differente, un movente differente da quelli consueti in quel particolare momento. Possono essere idee di ovvio buon senso e sul piano tecnico anche facili da attuarsi; tanto più, allora, verranno definite “non pratiche” e giudicate “un sopruso imposto alla gente dagli esperti e dagli intellettuali”, e questo con una veemenza che indica forti resistenze psicologiche”.

Paul Goodman
Utopian Thinking, 1961

Qualche tempo fa, ospiti di una tavola rotonda organizzata dal Royal Institute of British Architects (RIBA) di Londra in occasione della presentazione ufficiale dell’ultimo libro del critico d’architettura inglese Lucy Bullivant, “Masterplanning Futures”1, ci è stata posta una domanda solo apparentemente facile e cioè come definire il concetto di “master planning”.
La nostra risposta, immediata, sintetica ed automatica è stata: “city visions of relationships”.
Vorremmo ora, con la giusta distanza critica, provare a riflettere meglio sul senso di tale definizione provando a cogliere le ragioni più profonde contenute in tale risposta.

Nell’esperienza professionale, ormai decennale, di Metrogramma in relazione ai progetti di città - culminata con il lavoro sul nuovo Piano di Governo del Territorio della città di Milano (PGT)2 - si sta affermando la convinzione sempre più stringente che l’attività di “master planning” per come è intesa comunemente da amministrazioni pubbliche e developer privati stia progressivamente esaurendo il proprio significato culturale. In una parola, parafrasando Rem Koolhaas3, il progetto urbano quale concezione tecnico-regolamentativa ed immaginifica dello spazio è morto.

Ciò che invece si sta affermando sempre di più e per cui ci troviamo tutti più o meno impreparati, è la necessità di rappresentare idee capaci di prefigurare nuove utopie4, favorendo la loro realizzazione dal basso e nel tempo. Di fatto, quello che s’intende affermare, è l’importanza del progetto città come visione delle relazioni potenziali in essa contenute (spesso inespresse o inesprimibili), capaci di attivare processi biunivoci di collaborazione governo/cittadino e non più il disegno della città stessa quale corpo spaziale di riferimento. L’ipotesi che intendiamo sostenere è che la città quale entità fisica non può più essere l’esito di un disegno preordinato, ma la conseguenza di nuove forme di relazione tra individui nel tempo entro un quadro di nuove potenzialità ed opportunità contenute in un’utopia realizzabile.

Il pensiero va immediatamente a Yona Friedman ed alle sue “Utopie realizzabili”5. L’architetto di origini ungheresi ha attraversato la II Guerra Mondiale sfuggendo ai rastrellamenti nazisti ed è vissuto per circa un decennio in Israele nella città di Haifa prima di trasferirsi stabilmente nel 1957 a Parigi, dove pubblica questo libro nel 1975.
Lo sfondo culturale entro cui emerge il genio anticipatore (per molti anni incompreso) di Friedman6, è quello, da un lato, delle utopie di massa - siamo nel decennio che va dal ’60 al ’70 - portate avanti da tutti coloro che intravedevano nel concetto di progresso tecnico e network i dispositivi chiave di una maturazione definitiva del mito della modernità nell’evoluzione delle città, dall’altro dell’emergere delle utopie individuali quale contrapposizione politica al concetto di continuum urbano omologante ed ipermoderno7.

Cominciano in questo periodo a prendere forma in antitesi ad un mito del progresso senza luogo i concetti di comunità, di spazio eterogeneo e separato, di specificità entro cui gli individui scelgono come vivere ed in quale utopia realizzare il proprio sogno. Emergono nel dibattito architettonico internazionale inerente il futuro delle città approcci teorici e scientifici ai territori che da lì a poco disegneranno tecniche d’immaginazione declinate attraverso sempre più precise e regolamentate grammatiche visionarie differenti tra loro. Ma Friedman è differente da tutti. Egli non contrappone una critica operativa rileggendo progettualmente la storia, il suo non è uno sguardo pessimistico nei confronti della modernità, bensì afferma la visione positiva di una collettività che si può realizzare appunto “dal basso” dandosi forme di volta in volta riconoscibili seppur differenti.
Il lavoro dell’architetto in questo quadro ha il compito preciso di prefigurare attraverso idee e dispositivi di progetto nuove relazioni non predefinite a priori, oppure favorite in modo indifferenziato ed atopico dall’omologazione tecnologica. In questa maniera egli stava già definendo in modo molto preciso il concetto di “city visions of relationships”, ovvero la visione delle potenzialità di nuovi modelli di relazioni sociali entro le città. In questo quadro sono le opportunità sviluppabili dal basso che prendono il sopravvento sul controllo estensivo e prestabilito delle regole a tutto campo o sul grande sogno del progresso tecnologico senza confini.
Quella di Friedman è la rappresentazione di un’utopia realizzabile nella forma di una vera e propria visione sociale che si concretizza, invece, attraverso una comunicazione fondata intorno ad un linguaggio molto complesso, seppur apparentemente elementare, della rappresentazione. Egli immagina, infatti, che sia proprio a partire dalla relazione di piccole comunità, denominate Gruppo Critico8, che possa prendere forma una tale economia della comunicazione.
È facile tuttavia banalizzare il messaggio di Friedman applicandolo alla contemporaneità e cioè all’idea di comunità quale antitesi ai guai causati dalla globalizzazione. Quello che appare incredibilmente attuale, invece, è che le utopie realizzabili di Friedman, le sue architetture spaziali, sono ponti che mettono in comunicazione comunità eterogenee, individualità separate, culture differenti. È una proposta concreta, teorica ed insieme realizzabile, di un governo del territorio a partire dal principio elementare di necessità, senza sofisticazioni dogmatiche che tante responsabilità hanno avuto nella cultura della pianificazione che ci ha accompagnato sino ad oggi.
Dopotutto, si può considerare come giunta al suo epilogo la città cartesiana dove tutto è certo e predefinito. Acquista sempre più rilevanza, invece, la città possibile in cui la narrazione di futuri possibili apre ad una maggiore comprensione della realtà in cui si vive e ci si muove.

Questa seconda tradizione, però, che potremmo definire di matrice platonica9 e che è assimilabile ancora una volta ai grandi sogni di carta di matrice neopositivista, nasconde comunque molti rischi connessi ad un’epoca che vive una nuova ondata di progresso tecnologico. Il concetto di rete e network ormai appare (accade ciclicamente) la soluzione a tutti i mali delle città. Se in un primo momento, infatti, il timore nei confronti di un mondo ancora pressoché sconosciuto faceva dire a molti osservatori attenti che eravamo giunti con l’avvento di internet (la prima esplosione è degli anni ’90), parafrasando il titolo di un celebre libro di Frances Cairncross, alla “death of distance”, cioè alla morte della distanza, quindi della città, oggi tale preoccupazione pare essere superata tanto da intravedere nella rete la panacea di tutti i mali. La magia della rete sembra essere, infatti, la soluzione ideale anche per quanto riguarda l’evoluzione e la pianificazione delle città.
Amministratori, politici e cittadini sembrano abbracciare l’avvento della “Smart City” come il grande sogno funzionalista che s’afferma in modo definitivo. E se da un lato ciò cambierà moltissimo l’efficienza urbana, bisogna sempre ricordarsi che la vita di tutti i giorni continuerà a fare riferimento allo spazio fisico e che continueranno ad essere gli spazi di relazione tra le persone il cuore della vita quotidiana.
I sensori e le reti elettroniche che stanno trasformando le città in computer a cielo aperto vanno programmati e soprattutto devono diventare occasioni aperte e flessibili per affermare la libertà dell’individuo e nuove utopie; il rischio invece è che tale tecnologia possa affermarsi come un ulteriore modello di controllo sofisticato, omologante ed invasivo. La grande mole d’informazioni in tempo reale dovrebbe divenire l’ingrediente principale per nuovi approcci di “master planning”. Saranno sempre le idee e le narrazioni delle opportunità che favoriranno nuove visioni sociali e non viceversa. La lettura dei bisogni in tempo reale dovrà diventare il cardine di una progettazione processuale in cui le scelte operative (anche in forma di master plan) danno concretezza nel tempo alle visioni di partenza. In questo quadro, infatti, ciò che è veramente rilevante è il possibile lavoro dal basso, in cui i cittadini possono svolgere un nuovo ruolo, certamente più creativo e partecipativo.
In un’epoca dove la crescita verrà progressivamente arginata a favore del riutilizzo di ciò che esiste10, il concetto di smart city appare come un’occasione straordinaria, tuttavia sarà nel modo di vivere gli spazi di relazione che la città cambierà maggiormente. Tra qualche anno, l’immagine di Venezia, Roma o Milano non sarà probabilmente molto differente da oggi. Ciò che può, invece, modificarsi radicalmente, è la qualità delle idee in grado d’innescare nuovi processi di relazione tra le persone. In tali processi rigenerativi (necessari) la libera condivisione delle informazioni svolgerà un ruolo determinante. Ancora una volta, saranno gli spazi collettivi, pubblici e privati, a giocare il ruolo di megastruttura architettonica nell’evoluzione ed il progresso (sociale) delle città. È su questo aspetto che gioca un ruolo chiave il significato proprio di sostenibilità11.

Ciò che affascina è che le architetture utopiche di Friedman tengono insieme la tecnologia quale espressione di una fattibilità concreta ed una comunicazione elementare quale dispositivo di rappresentazione di visioni capaci di far emergere nuove idee e nuovi modelli aggregativi collettivi. Ed è proprio ciò che l’attività di master planning oggi dovrebbe offrire alle città, vale a dire indicazioni relative alla costruzione di ponti in grado di far emergere nuove forme di relazione tra individui, collegando identità diverse troppo spesso irrimediabilmente separate ed isolate. Ciò che serve è collegare culture, quartieri, comunità, condizioni sociali e sogni differenti nel rispetto comunque di specifiche identità.
Le città, ed è ormai evidente, non sono più il frutto di un progetto di piano disegnato a tavolino. Sono l’esito di una crescita incontrollata cui l’opera dell’uomo nulla ha potuto poiché troppo concentrata sul fattore sbagliato: il concetto di spazio e non quello di relazione.
Crediamo fermamente che le responsabilità dell’architetto, soprattutto oggi in tempi di crisi economica globale, riguardino invece sempre più l’interazione delle persone con il mondo fisico e non il mondo fisico in quanto tale.

E il concetto di spazio tra le cose, l’in between, è il luogo nella città contemporanea ove le utopie realizzabili - ponti gettati sul futuro tutto da scrivere - riscoprono il ruolo sociale dell’essere città12.
Il compito di architetti ed urbanisti sarà sempre di più quello di progettare ponti prima che città: “city visions of relationships” appunto; perché è nel tempo dell’ “absence of utopian drive”13 che le idee risultano più preziose.

THE PLAN 061
Questo breve scritto si configura come una riflessione intorno al progetto di città che, oltretutto, conclude un viaggio attraverso 10 numeri di The Plan dedicati ad altrettanti architetti italiani, i quali attraverso sguardi e punti di vista personali dettati dall’esperienza sul campo, hanno provato a disegnare una geografia dei temi e delle riflessioni rilevanti inerenti la città contemporanea e sui possibili futuri.
Quali curatori dell’iniziativa, insieme all’editore ed alla redazione della rivista tutta che ha creduto da subito in tale progetto, cogliamo l’occasione per ringraziare gli architetti per l’impegno nella realizzazione di questo progetto editoriale. Siamo certi che il contributo fornito al dibattito sulla città, di primissimo livello, sia utile, fertile ed apra ad un dibattito ancora tutto da scrivere.
Una piccola utopia realizzata, un ponte gettato tra le individualità degli architetti che sempre di più si trovano soli nei reciproci percorsi di ricerca, poiché mancano occasioni di confronto critico ed operativo sui nostri giorni.

Andrea Boschetti, Alberto Francini

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