Ci sono regole non scritte dell’architettura che nascono da una lenta sedimentazione modulata dall’uso, dalla pratica quotidiana di generazioni, dal rapporto naturale con il clima e il sole, da un’idea consolidata di cosa è urbano e cosa non lo è. Ci sono modi di pensare e progettare l’architettura che prescindono dagli stili e dai linguaggi, ma che, invece, seguono quelle regole silenziose del vivere urbano che rendono un’opera chiara e comprensibile a tutti. Una facciata che costruisce con chiarezza un fronte su strada e che è capace di dichiarare i mondi che ospita; un sistema di ingressi, risalite e corti che orienta chi visita e vive i luoghi appena costruiti; alcuni elementi che inaspettatamente danno forma a un’emozione, che ti fanno rallentare, almeno un attimo, e ti permettono di memorizzare il luogo che hai appena attraversato; una relazione tra cielo e terra definita, senza per questo essere banale. Mi è capitato diverse volte, entrando e attraversando con attenzione alcune opere progettate dai Piuarch, di provare questo genere di piacevoli sensazioni elementari e di sentire che tutto era costruito con naturale chiarezza e consapevolezza. Non si trattava della ripetizione di modelli urbani riconoscibili, né del ricorso scontato ad elementi che marcassero il terreno con la debolezza della scontata firma d’autore, quanto piuttosto si trattava di scelte progettuali che nascevano da intuizioni urbane e territoriali essenziali e, per questo, decisive. Voglio dare per scontato, almeno per un attimo, l’abilità dello studio italiano nell’impaginare facciate e nel maneggiare con abilità e grazia la materia quasi impalpabile della contemporaneità. Mentre vorrei cercare di rileggere le opere dei Piuarch alla luce di un pensiero urbano così tradizionalmente europeo e, per questo, coerente con una storia che ancora c’insegna come pensare e costruire città. I due recenti lavori per il quartiere generale di D&G a Milano e delle Quattro Corti a San Pietroburgo...
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