Domando a me stesso / Ambasz interviews Emilio | The Plan
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Domando a me stesso / Ambasz interviews Emilio

Emilio Ambasz

Domando a me stesso / Ambasz interviews Emilio
Scritto da Emilio Ambasz -

Ambasz - Puoi descrivere l’architettura dei luoghi in cui ti sei formato, in Argentina?
Emilio - Sono nato a Chaco, nell’Argentina subtropicale, 1.500 km a Nord di Buenos Aires. Il vapore che seguiva ogni giorno l’immancabile pioggia pomeridiana era metafora dell’impermanenza di tutte le cose. A sette anni mi trasferii con i miei genitori a Buenos Aires. La mia camera si affacciava sui rami frondosi di un albero che cresceva in strada. Per me, con il letto sistemato contro la finestra, era come vivere in una casa sull’albero. Guardavo il riflesso dei lampioni tra i rami, non smettevo mai di stupirmi della luminosità di una goccia di pioggia su una foglia, rabbrividivo allo stormire delle foglie. Ancora oggi ricordo quell’albero affascinante come un fratello. Le stelle a Buenos Aires: se ne vedono tante di più nell’emisfero meridionale. Osservandole dal balcone, le percepivo come una cupola infinita, ma con il centro ovunque. Io, invece, non ero nulla. Ci si sentiva talmente soli, in questo universo imponente. Buenos Aires è sempre stata per gli Argentini l’incarnazione di tutto ciò che loro considerano ideale. Pur sapendo che sarebbe stata una delusione, amavamo le sue pretese di perfezione. L’ho celebrata, come si farebbe con un figlio molto amato che ci ha deluso, in un saggio di 40 anni fa: “Anthology for a Spatial Buenos Aires”.

A. - Perché trascorri metà del tuo tempo a New York e metà in Italia? Quali sono i risvolti pratici? Ci sono significati nascosti? Cosa preferisce Emilio? E cosa Ambasz?
E. - Se Emilio non potesse tornare in Italia si sentirebbe scacciato dal Paradiso. Se Ambasz non potesse rientrare a New York si sentirebbe escluso dalla Capitale del 20° secolo. Ho bisogno di entrambi i luoghi: i piedi sulla terra del giardino, la testa rivolta a quelle nuvole mutevoli, che suggeriscono immagini future. Conserverà l’Eden la sua magia? Continuerà New York ad essere un importante punto di riferimento nel nuovo secolo? Forse mi trovo nel momento cruciale in cui un frutto sta per maturare: ancora nel pieno del fascino della maturazione, e solo un vago suggerimento di disfacimento. Per quanto riguarda la professione, potrei lavorare ovunque. La posta elettronica mi ha liberato dall’esigenza di essere in un posto preciso. I rapporti inter-personali, ancora molto importanti, li mantengo incontrando regolarmente i miei collaboratori. Nel frattempo ho generato figli, nipoti, non pochi illegittimi. Vedere Renzo Piano, Jean Nouvel, Tadao Ando e altri usare materia vegetale mi fa pensare che la mia missione stia cominciando a fruttare. Sentire alcuni di loro rivendicare la paternità di queste idee mi fa sentire come un personaggio mitologico, ma so che si tratta di un semplice caso di destino freudiano.

A. - Quali tue opere consideri più importanti, e perché?
E. - Innanzitutto la Casa de Retiro Espiritual, con la quale ho voluto davvero “ri-considerare“ l’architettura. L’unico elemento verticale era la facciata, una quinta scenica che, come una maschera, rappresentava un surrogato dell’architettura. Con questo stratagemma retorico ho cercato di riformulare l’architettura come processo condizionato dalla cultura, di tornare al concetto arcaico dell’abitazione. Contro le aspettative e le speranze di tutti è stata costruita ed è ancora lì, orgogliosa ed elegante. Un altro progetto importante per me è quello di Fukuoka, perché è la dimostrazione che “grigio e verde” possono coesistere e che si può restituire alla comunità il 100% del terreno coperto dalle fondamenta, sotto forma di giardini accessibili a tutti a partire dal piano terra. Questo edificio è una prova fondamentale di come il concetto dominante che vuole le città adatte agli edifici e le periferie ai parchi sia un equivoco, buono solo per quegli architetti il cui obiettivo primario è il compito neanche tanto ben remunerato di arricchire i costruttori. L’edificio di Fukuoka fa coesistere costruzione e giardino, soddisfacendo al 100% le esigenze di investitori, utenti e vicinato.

A. - Come vedi il tuo lavoro in rapporto al movimento ambientalista mondiale? In questo campo l’architettura ha un ruolo importante secondo te?
E. - Gli architetti hanno sempre sentito sulle spalle il peso di tutti i mali del mondo. Saranno tra gli ultimi, credo, ad andare all’Inferno per i loro peccati contro l’ambiente. Ma ci andranno, se non onoreranno la responsabilità etica di proporre modelli alternativi per il futuro. Quei progetti architettonici che non cerchino di offrire modi di vita nuovi, o migliori, non sono etici. E’ un compito che può anche colpire l’immaginazione, paralizzare ogni speranza, ma non possiamo sottrarci dal cercare di metterlo in pratica.

A. - Potresti collocarti nel contesto della produzione architettonica attuale?

E. - Sembrerò presuntuoso, ma credo di essere il precursore dell’attuale architettura attenta all’ambiente. Punto forte nelle mie idee sull’architettura, è la convinzione che questa debba essere sì pragmatica, ma anche emozionale. Sono molto contento quando vedo un progetto che genera in me una reazione emotiva, anche se ha altri obiettivi, come per esempio quelli di Gehry, che lavora in modo così diverso da me. La cosa importante è la sua originalità; proprio grazie alla sua differenza sicuramente influenzerà il mio lavoro. Considerando chi invece segue il mio credo architettonico, non mi interessa che rivesta i progetti di verdura, ma che i suoi lavori mi colpiscano emotivamente.

A. - Esiste un soggetto universale nella tua architettura?
E. - Il vero compito dell’architettura inizia non appena le esigenze funzionali e comportamentali siano state soddisfatte. Non è la fame, sono l’amore e la paura – a volte la meraviglia – a mettere in moto il processo creativo. Il contesto socioculturale dell’architetto si evolve, ma non muta il suo compito: dare forma poetica a ciò che è pragmatico.
In tutti noi c’è un bisogno profondo di rituali, cerimonie e processioni, paramenti e gesti magici. E’ una ricerca archetipa a cui tutti prendiamo parte. La mia architettura è intrisa di misticismo. Da un lato, gioco con gli elementi pragmatici della mia epoca, come la tecnologia. Dall’altro, propongo un modo di vivere alternativo, nuovo. Il mio lavoro cerca di dare forma architettonica agli elementi primordiali – nascita, innamoramento e morte. Ha a che fare con l’esistenza a livello emotivo, passionale ed essenziale. Cerco di creare un lessico oltre la tradizione canonica dell’architettura, un’architettura contemporaneamente presente ed assente. Spero di dare a chi la usa un nuovo modo di esistere, una celebrazione della grandezza, del pensiero e del sentire dell’uomo. Anche se apparentemente sono assolutamente diversi, esistono caratteristiche - primitive ed antiche - che ricorrono nei miei progetti. Ne risulta un’architettura che sembra destinata all’eternità. L’ideale sarebbe avere un appezzamento di terreno così fertile ed accogliente nel quale, lentamente, la terra assumesse una forma in grado di darci un rifugio. Dentro a questo spazio magico non pioverebbe nè ci sarebbero problemi. Costruiamo case solo perché non siamo i benvenuti nello spazio aperto. Ogni costruzione è una sfida alla natura. In una natura perfetta, non avremmo bisogno di case.
Se si trova la quintessenza di un problema, si può arrivare a una soluzione. Filo conduttore della mia ricerca è una sola preoccupazione: trovare la radice, l’essenza del problema. Riguardo alle modalità espressive, cerco di avvicinare un problema progettuale nel modo più trasparente, austero e rispettoso. Ho per obiettivo un’architettura essenziale, ma al tempo stesso piena di significati. Parafrasando Paul Valéry: la mia ricerca dell’essenziale in architettura non vuole essere semplice e leggera come una piuma, ma essenziale e compatta, come un uccello.
L’architettura, secondo me, è un aspetto della nostra ricerca di modelli cosmologici. Ognuno dei miei progetti cerca di avere almeno una caratteristica dell’universo. La ricerca dell’infinito, dell’eterno, credo possa essere soddisfatta in progetti composti da poche linee essenziali che, se tutto va bene, acquisteranno la forza affascinante delle strutture mitiche. Forse è perché cerco l’essenziale che amo il De Rerum Natura di Lucrezio. Mi interessa la scoperta, non il recupero, l’invenzione, non la classificazione. Cerco l’essenziale e i principi dell’eternità nell’architettura.

A. - Le tue opere hanno un orientamento fortemente agreste. Nutri qualche speranza per il futuro dell’urbanesimo?
E. - Perché pensare che i campi esistano solo al di fuori delle mura cittadine? Ancora oggi, dalle torri di una città medievale come Bologna scopriamo, oltre i prospetti allineati lungo le strade, giardini che coprono quasi il 35% dell’area urbana. Una volta erano orti e pascoli: spazi fondamentali durante gli assedi. Vorrei che nelle città in futuro si potesse, aprendo la porta a qualunque piano, uscire direttamente in giardino. L’edificio di Fukuoka è un esempio di come, in una città densamente popolata, sia possibile conciliare esigenza di costruire abitazioni e bisogno emotivo di spazi verdi.

A. - Qual è la differenza tra ornamento e mimetismo?
E.  - Il mimetismo si usa per nascondere una cosa che esiste già dandole un altro aspetto. Ad esempio, si copre un carro armato con una vernice a chiazze verdi per trasformarlo in una parte del paesaggio. E’ un atto conservativo: travestendolo, rimane così com’è. L’ornamento si usa invece per attribuire a un oggetto le caratteristiche di ciò in cui vogliamo trasformarlo. Ne sono un esempio i capitelli delle colonne e le cornici degli edifici ornati con motivi floreali in pietra. La parola chiave è attribuire: questo atto esige la sospensione del dubbio. Sappiamo che questi elementi non sono ciò che rappresentano, ma li accettiamo come se avessero le caratteristiche con cui si mostrano. Ricorrendo ad elementi vegetali io non creo un ornamento, ma una funzione. Non solo l’elemento introdotto è esattamente ciò che sembra, ma è intrinsecamente legato alla prestazione dell’edificio: uso elementi veri radicati in maniera vitale nell’edificio. Sono figlio della mia epoca e diffido delle cose definitive, quindi uso elementi che mutano con le stagioni. Le foglie in autunno cadono e, dopo averle protette dal caldo estivo, lasciano che il sole riscaldi le facciate. Sono elementi decorativi, ma anche parte integrante dell’edificio e, come la pelle di un organismo, respirano. Quando le foglie e le ghirlande in marmo cadono a terra o finiscono in un museo, l’edificio è sfregiato ma la sua utilità resta. Se le piante che coprono i miei edifici venissero strappate via, l’edificio subirebbe una diminuzione sostanziale della sua ragion d’essere. La vegetazione che uso non cerca di assumere la forma e le caratteristiche di un’entità già esistente. E’ se stessa, non una sua rappresentazione. Usando queste piante e muovendo la terra intorno all’edificio cerco di riconciliare l’esistenza dell’edificio con se stessa come principio e con il suo contesto più ampio. Secondo me la parola chiave è Riconciliazione. Andiamo alle origini. Credo che nella ricerca di dominare la Natura così come gli è stata data, l’uomo abbia creato una seconda Natura, con un rapporto complicato nei confronti di quella originaria. Dobbiamo ridefinire l’architettura come aspetto della Natura creata dall’uomo, ma per farlo dobbiamo prima ridefinire il significato contemporaneo di Natura. Forse, potremmo definirla una nuova sorta di Accademia. Oppure potremmo chiamarla Universitas, “il tutto”.

A. - Come ti consideri in rapporto alle tendenze contemporanee nel mondo dell’arte, a figure quali Heizer, Judd, Serra, Miss, ed altri ancora? C’è un rapporto importante e reciproco?
E. - Robert Smithson ed io siamo diventati subito grandi amici. Già dopo il nostro primo pranzo insieme ci sentivamo come fratelli che si erano persi di vista da tanto tempo. Ci interessavano le stesse cose, da un diverso punto di vista. Mi affascinava il suo lavoro e credo che lui fosse interessato al mio. Non ho mai provato con altri questa sensazione di fratellanza ideale. Mi piaceva moltissimo parlare con lui, la sua morte è stata per me una vera tragedia. Ho anche mantenuto un’ottima amicizia con Sol Lewitt, da me sempre considerato l’angelo custode del gruppo Minimalista. Michael Heizer mi ha avvicinato una volta chiedendomi di scrivere introduzione e saggio critico per una sua antologia. Conoscevo le sue opere, ma non l’avevo mai incontrato. Penso che lo incuriosissero la nostra condivisione di interessi e le nostre affinità. Il fatto che non conoscessi le opere di Richard Serra quando ho progettato il Mexican Computer Center nel 1975 potrebbe sembrare sorprendente. Le ho conosciute allo Yonkers Museum, quando mi accompagnò a vedere la mostra il suo curatore, Richard Koshalek. Rimasi folgorato e pensai che, se mai mi fossi dedicato alla scultura, sarei stato molto felice di realizzarne una che avesse solo metà della bellezza di una delle opere di Serra.

A. - Secondo gli ambientalisti e i sociologi più attenti, vegetazione, agricoltura urbana e spazi verdi sono componenti essenziali della città (per salute, benessere e stabilità sociale). Perché, secondo te, il mondo tradizionale del design fa ancora resistenza nei confronti dell’uso del paesaggio – o lo considera, al massimo, un elemento decorativo di poca importanza?
E. - Gli architetti tradizionalisti hanno un atteggiamento di superiorità nei confronti degli architetti di interni ed esterni, cioè i paesaggisti. Si credono la vera rappresentazione di ciò che è normale e naturale e vedono gli altri, al massimo, alla stregua di artigiani o parrucchieri. La maggioranza degli architetti ha assimilato la forza della sistematicità del mestiere e la convinzione di appartenere a questo mondo, se non di dominarlo completamente. Hanno imparato che piccole finestre quadrate, o piani contorti ed inclinati - a seconda delle scuole di appartenenza - sono architettura. I loro professori li hanno lautamente ricompensati per portare avanti la politica del proprio partito. Come aspettarsi che usino materiali diversi da quelli tradizionali? Che cerchino di integrare un edificio con la Natura, se sono orgogliosi eredi della tradizione greco-romana del dominio sulla natura, se sono abituati a sentirsi superiori e a volersi distinguere da essa? Dichiarano di sentirsi addosso la responsabilità di tutti i mali del mondo, ma non oserebbero mai stupire il committente con un’architettura umile, in simbiosi con la natura: potrebbero perderlo.

A. - Come è cambiato negli ultimi anni il tuo pensiero sull’architettura e sul suo ruolo nelle riforme sociali ed ambientali? Sei ancora idealista e ottimista com’eri vent’anni fa?
E. - La rappresentazione perfetta del coraggio non è per me l’immagine di chi marcia in battaglia senza la minima esitazione, ma quella di una persona che, pur spaventata, continua a marciare pensando di essere nel giusto. La lucidità della paura, se non paralizza, è una decorazione al valore.
Ho sempre saputo che la mia ricerca di modelli futuri alternativi sarebbe stata rifiutata, derisa o che, al massimo, sarei stato lasciato solo ad abbaiare alla luna. Ma, da idealista, questo ho sempre tenuto a mente: il pazzo che gettava pietre verso la luna non la colpiva mai, ma alla fine nessun altro nel villaggio riusciva a lanciarle tanto in alto.

A. - Ti interessano gli ultimi sviluppi della tecnologia ambientale? Hai usato alcune di queste innovazioni nei tuoi progetti più recenti?
E. - Mi interessa molto qualunque tipo di tecnologia. Sono uno dei pochi architetti che non solo progetta il proprio lavoro in scala 1:1, ma sa anche come produrne su scala industriale i dettagli. Questo perchè sono anche un industrial designer che progetta, costruisce e risolve qualunque problema si presenti nello sviluppo dei prodotti che crea. Credo che il modo di risolvere davvero i problemi causati alla società dalla tecnologia sia proprio usare la tecnologia.
Il problema della nostra società è che è tecnologicamente illetterata, e quindi si trova sotto l’incantesimo della tecnica e del ruolo dei sommi sacerdoti. Non si dovrebbe mai confondere l’uso pirotecnico della tecnica con l’architettura.

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