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In dialogo con la natura

Kjetil Trædal Thorsen

In dialogo con la natura
Scritto da Redazione The Plan -

Con il rapido scorrere del tempo, in un mondo che diventa sempre più imprevedibile, molti di noi si stanno probabilmente fermando a riflettere. Come possiamo trovare un senso in ciò che sta accadendo e contribuire, come progettisti e architetti, a un influsso positivo? Come creare spazi in cui le persone possano interagire, far parte, evolversi ed essere in sintonia con la natura? Possiamo dare risposte alle numerose e pressanti sfide attuali? O siamo ingenui a pensare di poterlo fare?

Ogni giorno sentiamo parlare di guerre, di cambiamento climatico, del crescente divario tra ricchi e poveri, di segregazione urbana e problemi di salute causati da uno stile di vita sedentario in quanto trascorriamo troppo tempo in casa o in solitudine. Sono problemi ardui da affrontare per qualsiasi professione.

Eppure, 40 anni dopo aver completato gli studi di architettura a Graz, in Austria, sono tuttora fermamente convinto che il design e l’architettura possano contribuire a un cambiamento significativo. In un clima di instabilità è più importante che mai rimanere fedeli ai propri valori e alle proprie convinzioni. Dobbiamo continuare a metterci alla prova, impegnarci a generare un impatto positivo, progetto dopo progetto, e avere una prospettiva a lungo termine pensando alle generazioni future.

Per illustrare questa mia convinzione – che alcuni potrebbero ritenere ambiziosa – vi invito a unirvi a me in questo viaggio a ritroso nel tempo, fino alle origini di Snøhetta e alla nascita del pensiero concettuale che ha guidato l’evoluzione dello studio, di cui la connessione con la natura e l’ambiente circostante è diventata forza motrice.

L’escursione al monte Snøhetta nel 2024 © OiOiOi, courtesy Snøhetta

 

Il nome è importante

Tutto iniziò nel 1987, quando un gruppo indisciplinato di architetti e paesaggisti si riunì in uno studio di Oslo con il nome di Snøhetta. Nonostante all’epoca avessimo scelto ironicamente quel nome, esso finì per avere un impatto significativo. In primo luogo era associato al bar/ristorante “Dovrehallen” sottostante al nostro studio mansardato sul viale Storgata (e Snøhetta è la cima più alta del massiccio montuoso di Dovre); in secondo luogo, si trattava di un punto di riferimento paesaggistico, una montagna imponente in un punto nevralgico della Norvegia; infine, il riferimento al Dovre evoca un immaginario di simboli e misteri. Essendo un collettivo transdisciplinare, siamo stati attenti a scegliere un nome che non si riferisse a nessuno di noi in particolare e tale da non dare adito a interpretazioni non pertinenti, in un momento in cui non sapevamo nulla del futuro. Si trattava di finalizzare la progettazione. E il nome è importante.

Sin da quei primi tempi lo studio organizza regolarmente escursioni sulla montagna da cui abbiamo preso il nome, per entrare in contatto con la natura e a livello di collettivo. Questo appuntamento, iniziato come una gita di un piccolo gruppo di persone, è diventato un evento culturale semestrale per tutti i collaboratori di Snøhetta. Il percorso verso la vetta o lungo le zone più basse della montagna rafforza la nostra convinzione che le intenzioni iniziali – legate alla scelta del nome e alla connessione fisica con il paesaggio – siano tuttora valide.

Camminare e conversare sono modi per capire che la creatività non coinvolge soltanto la mente ma il corpo intero. Laurie Anderson, nella sua canzone Walking and Falling, dice: «Stai camminando / E non te ne rendi sempre conto, ma cadi sempre / Ad ogni passo cadi leggermente in avanti / E poi cerchi di non cadere».

Oggi, sembra che il monte Snøhetta abbia condizionato inconsapevolmente il nostro cammino, ma forse anche noi abbiamo avuto una piccola parte nell’influenzare la percezione che le altre persone hanno di Snøhetta.

Rifugio/casa di cura “Outdoor Care Retreat”, Kristiansand, Norvegia, 2018 © Ivar Kvaal, courtesy Snøhetta

 

Il nostro futuro comune

Abbiamo iniziato come collettivo di professionisti di pari livello, infastiditi dall’idea che la progettazione paesaggistica fosse considerata una disciplina di second’ordine, da prendere in considerazione soltanto dopo aver speso la maggior parte degli sforzi e del denaro nella costruzione dell’edificio. Il nostro obiettivo strategico è stato integrare architettura e paesaggio all’interno dello stesso concept. Volevamo definire delle condizioni all’incarico di progetto presentando ai nostri committenti una sorta di proposta perentoria, tipo “prendere o lasciare”: il progetto architettonico non poteva essere realizzato senza l’impostazione paesaggistica.

Nel 1987 ebbe luogo un altro evento importante, la pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite “Our Common Future”, commissionato dall’ex Primo Ministro norvegese Gro Harlem Brundtland – prima donna a ricoprire quel ruolo. Era la prima volta – a quanto ne sappiamo – che la sostenibilità sociale, ambientale ed economica veniva formulata in modo così dettagliato e con un tale impatto sulle politiche future.

Come gruppo avevamo intuito che quel documento poteva essere fondamentale per stabilire una collaborazione trasversale tra le nostre professioni; sembrava diventato possibile trasferire il contenuto direttamente nella progettazione del contesto, e fare della sostenibilità sociale, ambientale ed economica il tema da adottare nei nostri progetti.

Forse il fatto che la maggior parte di noi provenisse dalla Norvegia e vi risiedesse ci ha reso più ricettivi al contenuto di quel documento. La nostra formazione primaria si fonda sui principi di uguaglianza e accessibilità, introiettando l’impegno del nostro Paese verso un modello sociale basato su servizi sanitari e assistenziali finanziati dalle tasse e sull’istruzione gratuita con l’obiettivo di creare condizioni di vita, salute e lavoro più eque.

L’escursione al monte Snøhetta nel 2024 © OiOiOi, courtesy Snøhetta

 

Il diritto di libero accesso

Anche l’accesso alla natura fa parte della nostra cultura ed è un grande privilegio, specialmente per chi vive nei Paesi nordici, dove essa ci circonda da tutti i lati: si può nuotare nel mare, passeggiare nei boschi, scalare una montagna – attività che a loro volta diventano parte integrante del nostro vivere. In Norvegia, tutte le persone possono muoversi liberamente nella natura; un’antica consuetudine, oggi tutelata dalla legge, rende il libero accesso alla natura un diritto ufficiale (allemannsretten) a condizione di comportarsi in modo responsabile, di muoversi con cautela e di non lasciare tracce.

Tenere in considerazione tutto questo, oltre a sembrarci – forse inconsapevolmente – la giusta direzione, ci ha portato ad analizzare il rapporto tra persone, natura e ambiente costruito e a superare sempre più in tutti i nostri progetti i confini tra interno ed esterno.

Da queste prime riflessioni sono nate, tra le altre, le strutture definite “keyless”, ovvero liberamente accessibili al pubblico, come il Viewpoint Snøhetta a Hjerkinn, Norvegia, completato nel 2011, dal quale è possibile osservare le renne selvatiche. Questo padiglione, con vista sul monte Snøhetta e sul parco nazionale circostante, offre ai visitatori un luogo di riposo e un caldo riparo dalle condizioni climatiche avverse, rimarcando al contempo come l’intera area appartenga alla natura e agli animali e che noi esseri umani possiamo osservarli soltanto a debita distanza.

Biblioteca di Alessandria d’Egitto, 2001 © Gerald Zugmann, courtesy Snøhetta

 

Concettualismo contestuale

I primi progetti di Snøhetta sono diventati degli ibridi in quanto abbiamo voluto testare diverse tipologie di costruzioni per capire la relazione tra architettura e ambiente circostante. Alla base vi erano l’annullamento dei confini – dal sottosuolo al soprassuolo, al di sotto e al di sopra della superficie dell’acqua – e il collegamento tra gli elementi (acqua, terra, aria e cielo).

La biblioteca di Alessandria d’Egitto, completata nel 2001, è uno degli esempi più esplicativi di questo modo di pensare ibrido. L’edificio si caratterizza per la forma circolare – del diametro di 160 m – e inclinata, che raggiunge i 32 m di altezza fuori terra e si immerge per 12 m nel terreno. Per rendere la biblioteca uno spazio fruibile da tutti i cittadini, essa è circondata da una piazza con uno specchio d’acqua riflettente.

Il successivo Teatro dell’Opera di Oslo è costruito su palafitte a ridosso di un terreno bonificato proteso nel fiordo della città, offrendo a tutti, e non solo a chi assiste a uno spettacolo, l’accesso a un’ampia porzione di lungomare. Per consentire una promenade attorno alla struttura, la copertura diventa una piazza sopraelevata, un grande e dinamico spazio pubblico che sembra fuoriuscire dall’acqua e dove paesaggio e architettura diventano un tutt’uno.

Da allora, mettere alla prova le tipologie è diventato un metodo di lavoro per continuare ad analizzare queste relazioni. È un elemento paesaggistico o una costruzione? Se è un manufatto, qual è la relazione con il suo ambiente? Il nostro approccio contestuale è nato da questi interrogativi e ci accompagna tuttora nel nostro lavoro. Ripensandoci, sono contento che all’epoca abbiamo scelto di non adottare un unico stile che, se ripetuto nel tempo, ci avrebbe definito e avrebbe posto dei limiti alla nostra visione condizionando la nostra direzione futura. Al contrario, descriviamo il nostro approccio e la nostra filosofia come “concettualismo contestuale”, e questo comporta che i nostri progetti possano apparire molto diversi.

Siamo più interessati alle condizioni contestuali che influiscono sullo sviluppo del progetto e sul suo rapporto con un determinato luogo. Questo significa da un lato osservare il luogo, il tempo, il sito e le circostanze, dall’altro utilizzare queste informazioni per formarci un’idea di ciò che faremo in futuro. Non si tratta di stile o di estetica in sé, ma di come quest’ultima si sviluppa in base al contesto, dando forma alla concettualità propria di ogni progetto.

Per questo motivo il Teatro dell’Opera di Oslo deve la sua forma al luogo in cui si trova e al rispetto del suo contesto specifico. Le linee di confine sfumate tra acqua e cielo sono rese possibili dalla sua posizione. L’esperienza di camminare sulla sua copertura, per esempio, non avrebbe lo stesso impatto e coinvolgimento emotivo in Arabia Saudita, dove le condizioni contestuali ci hanno indotto a progettare un Teatro dell’Opera diverso, un cluster di edifici, generando spazi aperti e ombreggiati per il pubblico.

Harvard HouseZero, Cambridge, Massachusetts, USA, 2018 © Harvard Center for Green Buildings and Cities, courtesy Snøhetta

 

L’arte delle preposizioni

Un rapporto profondo e tangibile con il paesaggio e l’ambiente circostante è forse il modo migliore per descrivere il nostro indirizzo concettuale. Sviluppare il nostro approccio in modo più consapevole ci ha portato a definire l’architettura come “l’arte delle preposizioni”: la relazione con un manufatto o con l’ambiente circostante è legata alla posizione del proprio corpo rispetto a esso – è dentro, sopra, davanti o dietro? Meno preposizioni vengono usate per descriverla, maggiore è la distanza; più preposizioni, più stretto e profondo il rapporto. Per esempio, narrando la possibilità di camminare sul tetto del Teatro dell’Opera, abbiamo aggiunto una preposizione in più rispetto al semplice trovarsi dentro o fuori, rendendo più profondo il rapporto tra noi e l’edificio. La copertura è diventata una quinta facciata. Se si può toccare, si può possedere.

Negli anni successivi abbiamo applicato questo approccio alle nuove discipline che si sono aggiunte alla nostra pratica transdisciplinare che, oltre all’architettura e al paesaggio, si occupa ora anche di progettazione d’interni, design di prodotto, di digital e graphic design e d’arte.

Oggi Snøhetta opera a livello globale, ma il libero accesso e la natura non sono un privilegio per tutti. Sebbene ogni progetto sia frutto di un particolare contesto, possiamo comunque cercare ogni volta di fare una scelta che aumenti l’accessibilità. Ogni programma e progetto deve essere analizzato e valutato per individuare cosa è possibile fare e cosa porterà benefici agli utenti finali e al pubblico in generale. Secondo una ricerca,1 trascorriamo in media il 90% del nostro tempo al chiuso, quindi avvicinarsi alla natura o creare un elemento che ci spinga a uscire avrà un grande effetto sia fisico sia psicologico. Se lo facciamo nel modo giusto, potremmo persino sensibilizzare le persone, spronandole a prendere decisioni a beneficio del nostro comune futuro.

Nelle città asiatiche ad alta densità, per esempio, dove la natura o gli spazi pubblici scarseggiano, abbiamo scelto consapevolmente di rendere gli spazi verdi pubblici parte integrante dei nostri progetti urbani.

Teatro dell’Opera di Oslo, Norvegia, 2008 © Helge Skodvin, courtesy Snøhetta

 

Architettura curativa

Il contatto con la natura era per noi un aspetto intuitivamente corretto sin dall’inizio; oggi molte ricerche ne dimostrano i benefici sulla nostra salute.

Una ricerca recente della professoressa Åshild Lappegard Hauge dell’Università di Oslo evidenzia l’impatto significativo dell’ambiente fisico sulla qualità della vita, specialmente per i gruppi di persone vulnerabili. Hauge sottolinea come gli spazi ben progettati possano migliorare la salute mentale favorendo le interazioni sociali, l’accesso alla natura e l’attività fisica, e sostiene che un’architettura che prende a modello la natura può infondere tranquillità, mentre edifici in cattivo stato di manutenzione possono essere un segnale di scarsa valorizzazione, con ripercussioni su residenti e utenti.

Hauge e il collega ricercatore Eli Kindervaag hanno preso come oggetto di studio il nostro progetto per il rifugio/casa di cura Outdoor Care Retreat, a pochi passi dall’ospedale di Oslo (di cui esiste un edificio gemello presso l’ospedale Kristiansand), dove i bambini, assieme alle famiglie, possono prendersi una pausa dall’ambiente ospedaliero durante le cure. Nella loro ricerca dimostrano che le terapie risultano più efficaci se svolte in questo ambiente naturale anziché in ospedali tradizionali, portando i pazienti a rilassarsi e a una guarigione più rapida.

Padiglione “Viewpoint Snøhetta” (Tverrfjellhytta), Hjerkinn, Norvegia, 2011 © Ketil Jacobsen, courtesy Snøhetta

 

Fonti di ispirazione, non limitazioni

Oggi, a quasi 40 anni da quando abbiamo iniziato, i temi e i valori su cui abbiamo fondato Snøhetta sono più attuali che mai. Nel corso degli anni, la nostra filosofia e il nostro approccio progettuale hanno continuato a evolversi e la sostenibilità sociale e ambientale è ora una strategia definita e centrale nella nostra impresa e in tutti gli studi del mondo. Il settore dell’edilizia, di cui siamo parte, è responsabile del 37% delle emissioni globali. Abbiamo quindi la responsabilità di ridurre al minimo il nostro impatto ambientale diretto e indiretto e di considerare queste sfide come fonti di ispirazione per il nostro processo progettuale, e non come limitazioni. Le nostre scelte influiscono sull’impronta ambientale degli edifici e degli spazi che progettiamo e danno luogo a numerose opportunità.

D’altro canto, occupando suolo contribuiamo al cambiamento del paesaggio naturale, che va perduto. In questi casi, per controbilanciare gli aspetti negativi, è necessario impegnarsi per trovare una prospettiva positiva, un impatto costruttivo sulle persone e sulla società in generale, oppure realizzare edifici e spazi che siano di compensazione alla perdita di valore ambientale.

Abbiamo cercato di capire come è possibile raggiungere questo obiettivo pianificando una serie di progetti, tra cui il prototipo a emissioni zero Harvard HouseZero, le Powerhouse – una serie di edifici che producono più energia di quanta ne consumano nell’arco della loro vita – e Vertikal Nydalen, il primo edificio a uso misto con un sistema di climatizzazione naturale della Norvegia.

Anche se i nostri progetti non sono (ancora) privi di difetti, possiamo fare ricorso a quanto imparato in passato per fare sempre meglio in futuro. Le emissioni fanno parte dell’intero ciclo di vita dell’edificio – estrazione delle materie prime, trasporto, costruzione, domanda di energia per l’uso e la manutenzione ma anche demolizione, smantellamento e riuso. Le nostre scelte progettuali hanno un impatto significativo sulla tipologia, quantità e distanza di trasporto dei materiali da utilizzare, sull’efficienza energetica e sull’uso dell’edificio durante il suo ciclo di vita. L’ambiente costruito svolge un ruolo importante anche nel determinare le nostre modalità di adattamento al cambiamento climatico. Con l’intensificarsi di questo fenomeno, è indispensabile integrare strategie progettuali resilienti per garantire alle società e alle comunità longevità, sicurezza e adattabilità.

Non ci sono risposte definitive su come le nostre professioni debbano evolvere, ma sicuramente il principio di base dei progettisti e degli architetti della mia generazione deve essere quello di lasciare il pianeta in condizioni migliori, per le persone e per la natura, rispetto a quando abbiamo iniziato la nostra professione. È un compito oneroso, che ci impone di pensare a lungo termine e ad agire a breve termine.

Come mi diceva mio nonno da bambino, durante un’escursione nella natura bisogna guardare in basso per non inciampare, in avanti per orientarsi, in alto per sognare e talvolta indietro per vedere da dove si è venuti. Se non si gira la testa di conseguenza, sembrerebbe di fare una camminata anziché un’escursione. E al momento è necessario fare un’escursione.

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