Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo di grande sperimentazione non solo per l’architettura. L’imperativo era quello di uscire dagli schemi prestabiliti, avventurarsi laddove non si aveva avuto il coraggio di avventurarsi e, protetti dalle ideologie, trovare nuovi spazi di espressione.
In Italia allora le posizioni si erano polarizzate. Da una parte il radicalismo dei gruppi fiorentini come Superstudio, Archizoom e UFO, dall’altra il rigorismo dell’architettura della Tendenza, di cui il massimo rappresentante era Aldo Rossi. In mezzo tante espressioni, spesso non solo controcorrente, ma persino eretiche. Singolare la posizione di Paolo Portoghesi, almeno fino a quando non cadde nella trappola delle icone a buon mercato postmoderne. Nei primi anni Sessanta Portoghesi inizia una vera e propria decostruzione dei linguaggi. Le sue architetture di quel periodo sono singolari; in esse si mescolano reminiscenze dell’architettura “alta” e quelle dei linguaggi spontanei o se non altro popolari. Nella sua stupefacente torre a Santa Marinella, un progetto del 1966, Portoghesi impila una sopra l’altra quelle che appaiono come delle baracche semiabusive e le impila informalmente, come una città spontanea cresciuta in verticale. In altri casi, specialmente quando lavora con Vittorio Gigliotti, Portoghesi opera una vera e propria decostruzione della sua grande passione, ovvero il barocco su cui aveva scritto un libro di grande pregio, Roma barocca (1973). L’idea era quella di prendere l’etimo base del barocco, ovvero la modanatura, e decostruirla per parti in maniera tale da ottenere delle vere e proprie lastre curve che non si toccavano, lasciando tra di esse dei vuoti a tutta altezza in cui venivano posizionate le aperture, anch’esse a tutta altezza. La chiesa della Sacra Famiglia a Salerno, un progetto del 1969, può considerarsi esemplare per quella che Bruno Zevi...
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