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Il valore della fiducia e l’arte di costruire musei

Philip Jodidio: una conversazione con David Chipperfield

David Chipperfield

Il valore della fiducia e l’arte di costruire musei
Scritto da Philip Jodidio -

Sobrietà e riservatezza caratterizzano David Chipperfield, uno dei più importanti architetti contemporanei e vincitore nel 2023 del Pritzker Architecture Prize. Nella sua carriera si è occupato di progetti museali complessi, specialmente a Berlino ma anche altrove. Tra le celebrità del mondo dell’architettura, si distingue per il suo approccio collaborativo e basato sulla fiducia. Ne parla in un’intervista con Philip Jodidio.

David Chipperfield, nato a Londra nel 1953, ha frequentato la Kingston School of Art e ha conseguito la laurea in architettura alla London Architectural Association nel 1977. Inizia il suo apprendistato presso Norman Foster e Richard Rogers, fondando in seguito nel 1985 a Londra il proprio studio David Chipperfield Architects. L’esuberanza tecnologica di questi due maestri non ha influenzato lo stile di Chipperfield, che invece è rimasto legato a ciò che si potrebbe definire un registro moderno classico o persino minimalista. L’architetto si è fatto conoscere a livello internazionale con la complessa operazione di ristrutturazione del Neues Museum (1997-2009) a Berlino sulla Museuminsel. Le colonne relativamente austere del suo Museum of Modern Literature (Marbach, Germania, 2001-06) sono state riprese, con un registro diverso, nella James-Simon-Galerie (1999-2019), sempre sulla Museuminsel. Portano la sua firma anche il Museo Jumex (Città del Messico, 2009-13), l’ampliamento del Saint Louis Art Museum (2005-13), l’Anchorage Museum ospitato all’interno del Rasmuson Center (Alaska, 2003-09), The Hepworth Wakefield (West Yorkshire, Regno Unito, 2003-11), il Turner Contemporary (Margate, Regno Unito, 2006-13), il Mudec – Museo delle Culture a Milano (2000-15) e il West Bund Museum (Shanghai, 2013-19). Il suo ampliamento del Kunsthaus Zürich (2008-20) raddoppia il primo edificio progettato dall’architetto svizzero Karl Moser inaugurato nel 1910. A Berlino, inoltre, si è occupato della ristrutturazione (2012-2021) della Neue Nationalgalerie, costruita negli anni Sessanta su progetto di Ludwig Mies van der Rohe (1963-68). Attualmente sta lavorando al Germanisches Nationalmuseum (Norimberga, Germania, 2021) e all’ampliamento del National Archeological Museum ad Atene (2022).

Nella motivazione della giuria del Pritzker Architecture Prize vinto da Chipperfield nel 2023 si legge: «Le risposte attente, curate, precise e sobrie che ha offerto agli obiettivi cui aspiravano i suoi edifici non possono che nascere da una profonda e solida conoscenza della disciplina. Inoltre, queste risposte non sono mai fini a sé stesse ma libere da tendenze e mode e da ogni estetismo: esse testimoniano tutto il suo impegno nel perseguire il bene civico e pubblico, riconosciuto come il valore più alto». Nonostante abbia esperienza con molte altre tipologie progettuali, la sua professione è stata chiaramente dedicata ai musei – ampliamenti, ristrutturazioni e nuove costruzioni. Nell’intervista che segue, concessa a Philip Jodidio a settembre 2024, egli va oltre la descrizione degli edifici, illustrando invece idee e metodi di lavoro. Il suo approccio atipico, rispettoso del contesto e degli utenti, fortemente moderno e al tempo stesso radicato nella preesistenza, lo accompagna anche nel lavoro con la sua fondazione in Galizia, Spagna, dove si impegna a «cercare di ripensare il ruolo dell’architetto».

Kunsthaus Zürich, Svizzera, 2020 © Noshe, courtesy of David Chipperfield Architects

Philip Jodidio (PJ): A prima vista il suo ampliamento del Kunsthaus Zürich sembra essere un nuovo edificio autonomo.

David Chipperfield (DC): Il concorso per il Kunsthaus Zürich prevedeva un ampliamento di una certa portata, implicando l’aggiunta di un edificio separato più grande della struttura esistente. La richiesta includeva uno spazio per ospitare alcune gallerie e strutture di supporto non presenti sul campus; di conseguenza, il progetto contemplava l’ampliamento di quest’ultimo e quindi anche una riflessione sul suo inserimento urbano. Realizzato di fronte a quello di Moser, il nuovo intervento è sia un edificio autonomo sia parte integrante del campus avendo creato un’interrelazione con la preesistenza.

 

PJ: La galleria sotterranea di collegamento tra gli edifici è stata una richiesta o una sua scelta?

DC: È sempre stato un requisito che, in un certo senso, smentisce o conferma il concetto di ampliamento. Ci siamo chiesti diverse volte se, da un punto di vista tecnico e dei costi, fosse possibile farne a meno, ma in un’istituzione come questa ci sono molti buoni motivi tecnici per creare un collegamento sicuro e coperto tra gli edifici. Questa connessione ha quindi una duplice funzione: facilita il visitatore nel recarsi da un edificio all’altro anche in caso di maltempo e consente al museo di spostare oggetti in modo protetto.

 

PJ: Nello spazioso atrio di ingresso si nota l’imponente scalinata. Qual era la sua visione?

DC: I musei a questa scala hanno un problema di orientamento e di numero di gallerie da visitare. Per questo sin dal principio, se non persino intrinsecamente, doveva essere un museo organizzato su più ambienti. È possibile progettare un museo come spazio libero che viene poi suddiviso oppure come una sequenza di sale ben collegate. Penso siano valide entrambe le opzioni. Questo museo sin dall’inizio, e dal brief progettuale, era stato previsto come composto da più sale, di dimensioni diverse.

La definizione di musei quali spazi flessibili è fuorviante, perché è estremamente costoso spostare le pareti ogni volta; considerando poi tutte le configurazioni possibili, alla fine sono poche quelle che funzionano davvero. Credo quindi che la scelta di avere una sequenza di sale sia stata giusta.

Tornando alla sua domanda, secondo me il problema dei musei è che il visitatore si vuole perdere in qualche modo nell’arte, non guarda l’architettura ma l’arte. E nonostante voglia perdersi, ha comunque bisogno di potersi orientare. Penso che ognuno debba poter decidere quanto si vuole perdere e a che ritmo preferisce procedere. Non c’è niente di peggio che trovarsi in un luogo in cui si è costretti a muoversi frettolosamente perché non si sa bene quanto c’è da vedere.

In questo senso, la hall centrale ha una duplice funzione. In primis collega il museo alla città, creando uno spazio pubblico: si può entrare dal giardino a nord, dalla piazza a sud oppure si può semplicemente attraversare l’edificio senza visitare il museo, che è così collegato alla città. In secondo luogo, una volta all’interno, l’atrio è uno spazio a cui si torna sempre, facilitando l’orientamento e la comprensione delle dimensioni dell’edificio.

The Hepworth Wakefield, galleria d’arte, West Yorkshire, Regno Unito, 2011 © Iwan Baan, courtesy of David Chipperfield Architects

PJ: E questo spazio non è forse architettura? Lei ha detto che quando si visita un museo ci si vuole perdere nell’arte; ma qui l’architettura pervade lo spazio, o sbaglio?

DC: Sicuramente la si percepisce nel momento in cui si entra nell’edificio; la hall deve essere lo spazio più flessibile del museo e promuovere lo svolgimento delle attività. È un ambiente pubblico che spero venga utilizzato per installazioni e iniziative di diversa portata. Quindi, idealmente, è anche una galleria.

 

PJ: Lei e io ci siamo incontrati tempo fa a Berlino, dove trascorre molto del suo tempo, dove ha un suo studio e dove si è occupato di numerosi e importanti progetti in ambito museale. C’è stato un momento in cui ha scelto di concentrarsi su questa tipologia, oppure si è trattato di circostanze, come per esempio i concorsi?

DC: Entrambe le cose; se ci fossimo trovati a progettare stazioni ferroviarie, ora faremmo più stazioni ferroviarie, avvalendoci di conoscenze, notorietà ed esperienza. Ci si potrebbe anche annoiare a progettare stazioni ferroviarie, ma con i musei questo non accade mai. Una volta che ci si trova a realizzarne uno, continuano ad arrivare richieste per un altro, e non si rinuncia mai perché sono ottimi incarichi.

In primo luogo, il committente assicura un certo grado di certezza in termini di tempistiche, budget e qualità. I progetti commerciali sono spesso dettati dalle tempistiche e dai costi e la qualità diventa qualcosa che bisogna cercare di preservare. I committenti dei musei sono gruppi di persone che, pur preoccupandosi di questioni come tempistiche e costi, sono più tolleranti rispetto ad ambizioni non quantificabili in termini convenzionali: essendo più interessati alle qualità artistiche, sono in grado di comprendere aspetti che in altre situazioni potrebbero risultare secondari.

In secondo luogo, in termini di brief di progetto, si devono gestire questioni basilari quali spazio, sequenza, luce e materiali. Per un certo verso, i musei sono architetture prive dei requisiti programmatici che potrebbero essere dominanti in altri casi, per esempio stazioni ferroviarie, ospedali, edifici per uffici o scuole. La descrizione programmatica dei musei generalmente è astratta, una serie di ambienti in cui è piacevole passeggiare. Probabilmente, a parte le chiese, i musei sono la tipologia che più si avvicina alla pura questione architettonica, il che è positivo ma anche negativo, in quanto si può abusare di tale libertà o mancanza di una funzionalità precisa; in altri casi, quest’ultima può giustificare la scelta di una particolare forma.

 

PJ: I progetti per Berlino e in particolar modo per la Museuminsel richiedono molto tempo, suppongo per questioni amministrative e per la loro complessità. Questo l’ha mai portata a pensare che le decisioni prese nel 1997 potessero non essere appropriate dieci anni dopo? Non c’è forse un’evoluzione naturale nel suo approccio all’architettura che in qualche modo contrasta con i lunghi periodi di realizzazione dei progetti a Berlino?

DC: Abbiamo vinto il concorso per il Neues Museum nel 1997 e lo abbiamo terminato dodici anni dopo. Mi chiede se le decisioni prese nel 1997 sono diventate obsolete. In realtà, al momento del concorso, avevamo preso una sola decisione, l’approccio alla ricostruzione di questo edificio in rovina: tutto ciò che era sopravvissuto doveva essere protetto e integrato nella soluzione finale. È un approccio adottato normalmente nel restauro di reperti archeologici o di dipinti, ma non sempre in architettura. La verità è che non avevamo assolutamente idea di come farlo, di cosa avrebbe significato o dove ci avrebbe portato in termini di forma.

Non abbiamo vinto con un progetto, ma con un atteggiamento e un approccio filosofico. E questo nel tempo ha funzionato perché credo che il principio fosse corretto. Era molto semplice da spiegare a livello razionale, ma non necessariamente a livello emotivo; per i tedeschi, e soprattutto per i berlinesi, l’idea di proteggere le rovine era un approccio positivo dal punto di vista archeologico ma negativo dal punto di vista emotivo, in quanto si trattava di una testimonianza dell’orrore, e io proponevo di conservare i ricordi di un periodo terribile, mentre ciò che alcuni avrebbero voluto fare era semplicemente coprire tutto. Ho dovuto discutere e ragionare su ciò che era razionalmente corretto ed emotivamente comprensibile. Solo in Germania si poteva avere uno scambio di idee a un livello così alto e di così forte impatto, e io non lo consideravo un problema per me.

Anzi, era una sorta di forza motrice del progetto e quindi questo conflitto era una legittima ma anche piacevole lotta di idee. È stato un processo dinamico. Il dibattito interno a noi e all’interno della comunità è andato avanti parallelamente alla discussione emotiva e razionale, ma anche a quello con l’amministrazione per questioni pratiche e logistiche. Oltretutto c’erano esperti del museo interessati agli spazi per gli oggetti da esporre. Questo processo dinamico ha caratterizzato l’intero sviluppo del progetto. Quindi, in realtà, il Neues Museum non è il risultato di qualcosa lasciato in sospeso per dodici anni, ma di un processo durato dodici anni.

The Hepworth Wakefield, galleria d’arte, West Yorkshire, Regno Unito, 2011 © Iwan Baan, courtesy of David Chipperfield Architects

PJ: La James-Simon-Galerie è un caso diverso: un nuovo edificio in un sito che sembra limitare l’introduzione della modernità architettonica e che è ricco non solo di storia ma anche di architettura. Com’è nata l’idea di questo progetto che attira l’attenzione?

DC: Il Neues Museum (1859) e l’Alte Nationalgalerie (1876) sono entrambi opera di Friedrich August Stüler – allievo di Karl Friedrich Schinkel, architetto dell’Altes Museum (1830) – il quale li collegò con un colonnato, creando il cosiddetto Kolonnadenhof. Il colonnato è una soluzione architettonica con la quale Stüler ha riposizionato queste singole strutture. Ha utilizzato una struttura aperta o un elemento architettonico che non è un edificio, per unire il complesso. Il programma della James-Simon-Galerie era poco chiaro: non un museo, ma un contenitore che includesse tutto ciò che gli edifici tradizionali del XIX secolo sulla Museuminsel non offrivano.

 

PJ: È una questione di circolazione e di connessione, giusto?

DC: Beh, di connessione e di programma, di un misto di cose: per esempio, sull’Isola non c’è un auditorium ma ce n’è bisogno; non c’è una libreria ma ce n’è bisogno; non c’è uno spazio idoneo per mostre temporanee; non c’è un buon ristorante, e così via. Sembra una lista della spesa e non il programma convenzionale di un edificio; è una risposta alla mancanza di infrastrutture negli edifici del XIX secolo, i quali non soddisfano i nuovi requisiti dei visitatori contemporanei. La James-Simon-Galerie è un tentativo di risolvere i problemi legati – come dice lei – alla circolazione, all’ingresso, al collegamento e al programma. È un problema dai molti aspetti. Con il Kolonnadenhof, Stüler non solo collegò l’Alte Nationalgalerie al Neues Museum, ma creò anche uno spazio comune, connesso a sua volta al Lustgarten. Il Pergamonmuseum (1930) si trova sull’Isola ma non è collegato all’Alte Nationalgalerie, nel senso che bisogna uscire dall’Isola, dirigersi a nord, attraversare il ponte e ritornare sull’Isola. È come se qualcuno si sedesse in soggiorno e girasse la sua sedia dandovi le spalle, occupando lo spazio accanto a voi ma rifiutandosi di parlarvi. E non c’è modo di entrare. Così, l’oggetto più grande dell’Isola non ha alcun legame apparente con i primi tre edifici e questo comporta un problema di infrastrutture per il complesso museale.

James-Simon-Galerie, Berlino, Germania, 2019 © Simon Menges, courtesy of David Chipperfield Architects

PJ: È questa una delle problematiche che ha tentato di risolvere con la James-Simon-Galerie?

DC: La domanda era: possiamo connettere tutti i musei? Questa è la ragione per la quale la James-Simon-Galerie doveva avere la funzione di un edificio di collegamento tra i musei. Ed è il motivo per cui abbiamo adottato la soluzione del colonnato, che maschera l’ambiguità dell’edificio come non-edificio e prova a nasconderla anteponendovi uno nuovo spazio. In termini di linguaggio architettonico, abbiamo trasformato il colonnato in una versione essenziale di una architettura classica. Si potrebbe dire che ha più presenza architettonica di quanto avremmo voluto. In un certo senso, stavamo cercando di non farlo scomparire come architettura, ma di alleggerire la sua qualità di oggetto privilegiando la funzione che doveva svolgere come struttura di connessione.

 

PJ: Sembra esprimere un certo rammarico o avere ripensamenti sulla forte presenza architettonica della galleria.

DC: Non credo sia questo; dico solo che chiaramente qualsiasi segno assume un certo significato e quindi se da un lato crediamo che il progetto della James-Simon-Galerie sia stato definito dal suo ruolo di unificatore di problemi logistici, spaziali e di placemaking, dall’altro c’è un’inevitabile seconda lettura dell’edificio come oggetto.

Ristrutturazione del Neues Museum, Berlino, Germania, 2009 © Ute Zscharnt, courtesy of David Chipperfield Architects

PJ: Nel caso del Neues Museum, ha dovuto ristrutturare un edificio con un passato bellico; ha dovuto ristrutturare anche la Neue Nationalgalerie ma la questione era diversa, poiché il suo passato era relativamente recente, di impianto modernista.

DC: Si discute spesso di cosa fare degli edifici degli anni Sessanta o del patrimonio moderno. Se non sono di alto livello o non godono di uno status iconico, molti vengono demoliti con la scusa che sono insufficienti dal punto di vista tecnico o che hanno esaurito il loro corso. Non si mette ovviamente in discussione se un edificio come la Neue Nationalgalerie debba essere ristrutturato o meno, ma ci sono carenze tecniche intrinseche che rendono l’operazione piuttosto complicata – e trattandosi di Mies, l’intervento era estremamente complicato, poiché non c’era margine d’errore.

In un edificio del XIX secolo, se privo di un efficiente sistema di isolamento, probabilmente si può trovare uno spazio dove inserirlo. Della Neue Nationalgalerie abbiamo mantenuto tutto, però abbiamo dovuto ricostruire alcuni elementi ricorrendo a quelli originali ma migliorandone la resa con aggiunte o rinforzi. «Dio è nei dettagli», ma qui i dettagli erano molto, molto esili. In effetti, qui il dettaglio e l’idea sono la stessa cosa. L’idea alla base della sua architettura è profondamente radicata nella realizzazione fisica, però con la Nationalgalerie quei dettagli non funzionavano. Mies non ha incluso alcun tipo di isolamento termico o ponti termici nelle eleganti nervature in acciaio. I telai delle finestre sono splendidi perché ha utilizzato elementi puri. E per 60 anni, l’edificio ha sofferto a causa di una mancata integrazione. Non so a cosa pensassero all’epoca ma era impossibile che una facciata in vetro non isolata come quella potesse affrontare gli inverni berlinesi.

 

PJ: Come ha risolto questo problema così fondamentale?

DC: In poche parole, ma per chiarire la questione: se avessimo aggiornato i telai ai requisiti attuali, sarebbero stati otto volte più grandi di quelli precedenti. Quindi, le due soluzioni estreme possibili erano, da un lato riparare e rimettere al loro posto gli elementi, il che non avrebbe risolto nessun problema ma avrebbe conservato l’edificio di Mies così com’era. Dall’altro lato, ricostruire almeno tre volte in più rispetto a quello che c’era. Abbiamo passato un anno cercando di trovare soluzioni accettabili per tutti, un approccio che avevamo sperimentato per il Neues Museum, perché in progetti come questo l’architetto non sbatte i pugni sul tavolo dicendo: «Lo voglio così», si siede piuttosto con cinque diversi gruppi di persone – curatori, storici, restauratori, tecnici, ecc –, ognuno con una propria opinione, per esempio sulla collocazione del montacarichi, e deve aiutare tutti a capire la posizione degli altri per arrivare a una soluzione comune, perché non va bene giungere a una soluzione che crea il malcontento delle altre quattro persone. In seguito all’esperienza del Neues Museum, abbiamo riutilizzato questa strategia per la Neue Nationalgalerie: abbiamo riunito in una stanza ingegneri, rappresentanti del ministero delle finanze – che stava supportando il progetto – e storici, con i quali abbiamo avuto un serrato confronto su cosa sarebbe stato giusto fare dal punto di vista tecnico e cosa sbagliato dal punto di vista storico.

 

PJ: Sembra un problema irrisolvibile.

DC: Alla fine, devo dire che abbiamo trovato una soluzione che si avvicina molto all’originale di Mies; siamo persino riusciti a mantenere ogni elemento dell’edificio storico. Abbiamo trattato un edificio degli anni Sessanta come un tempio greco. Anziché sostituire, abbiamo riparato: abbiamo rimosso 30.000 elementi, li abbiamo portati a riparare in laboratorio e li abbiamo rimessi al loro posto. Sarebbe stato molto più economico liberarsene. Non c’era nulla che non si potesse sostituire, ma abbiamo deciso che, da un punto di vista etico, sarebbe stato più corretto conservare tutto, e dove potevamo tenere la vernice originale, lo abbiamo fatto. Come dicevo, per ristrutturare la Neue Nationalgalerie abbiamo adottato lo stesso approccio sviluppato in occasione del progetto del Neues Museum e la fiducia guadagnata dall’amministrazione ci ha messo nella condizione di operare.

 

PJ: Eppure credo che questo sia legato anche alla cultura del proprio Paese di provenienza. Per esempio, lei è inglese e sta gestendo alcune delle problematiche architettoniche più delicate e difficili per la Germania. Crede che la sua identità inglese abbia contribuito al suo successo in questo Paese? Ha mai dovuto rinunciare a qualche sua idea avuta altrove per adattarsi al meglio all’identità tedesca?

DC: Una domanda interessante. Come architetto proveniente dalla cultura anglosassone, ho continuato a lottare affinché le cose avessero un significato oltre la loro accezione pratica ed economica. Bisogna ricordare che la Berlino del 1997 era diversa da quella di oggi. Era un periodo stimolante, in cui la città doveva ridefinire sé stessa e reinventarsi. I miei amici tedeschi continuavano a scusarsi con me per le manifestazioni e gli articoli contro il progetto del Neues Museum e a chiedersi perché dovessimo conservare questi ricordi della guerra, perché io non li potessi semplicemente coprire o perché non si potesse semplicemente riavere l’edificio di Stüler.

Io continuavo a dire che per me queste discussioni erano fantastiche. Noi architetti sosteniamo che l’architettura è importante e che le persone se ne dovrebbero interessare. Di conseguenza quando ciò accade non possiamo dire: «Ma io non volevo che ti interessasse così tanto» o «Non volevo che tu avessi questa opinione al riguardo». Si ottiene ciò che ci si è preposto. Quindi, non ho alcun problema quando ci sono queste discussioni.

 

PJ: Le era già successa una situazione simile con il Museum of Modern Literature a Marbach, completato nel 2006.

DC: In un certo senso, con il museo di Marbach è nata una cultura dello studio che si occupa di tali questioni. Si percepiva un clima di ansia legato alla costruzione delle colonne e quando chiesi se questo accadeva perché facevano sembrare l’edificio di epoca fascista, mi risposero: «Sì, esattamente». Era la prima volta che nella Germania meridionale, dopo la guerra, si tornava a usare una sorta di linguaggio classicheggiante. E probabilmente io, essendo inglese, in qualche modo l’avevo per così dire “ripulito”. Credo che il fatto di portare rispetto ma anche di sentirmi coinvolto e al tempo stesso distaccato mi abbia fatto guadagnare una posizione speciale in questo Paese. Penso che sia una questione di fiducia e che ci sia del potenziale nel riuscire a dimostrare il proprio interesse verso determinate questioni e di essere affidabili. All’inizio del progetto del Neues Museum c’è stata molta confusione perché volevo che il processo fosse collaborativo e mi sono reso conto che, non essendo tedesco, dipendevo dalle persone intorno a me. Dipendevo dal trovare una soluzione, non dal portarne una. All’inizio i tedeschi erano diffidenti, poiché abituati a un altro approccio; dicevano: «Beh, è ovvio che sa cosa vuole fare, quindi perché non ce lo dice e basta?» e io continuavo a dire: «No, non lo so». Alla fine, hanno accettato questo procedimento, molto insolito ma convincente. Questo museo, per tutte le persone coinvolte nel progetto, dai direttori, agli storici, all’architetto dell’amministrazione locale, ha un profondo valore affettivo e sentono proprio l’edificio tanto quanto me. Credo in questo processo e nel fatto che abbia contribuito alla mia posizione in Germania. Sono convinto anche di aver capito che in genere gli architetti non sono ritenuti affidabili, e la cosa più preziosa che si può sviluppare è proprio un rapporto di fiducia.

 

PJ: È così anche in Spagna, dove ultimamente sta trascorrendo più tempo?

DC: Il mio centro di gravità al momento è la Galizia, dove sto lavorando con il governo locale e la comunità. L’unico strumento a mia disposizione è, di nuovo, la fiducia, che probabilmente mi viene attribuita in quanto persona esterna, priva di secondi fini. Dove possibile, come architetto, consiglio di dimostrare la propria affidabilità e di mettere da parte il punto di vista convenzionale,  che sembra voler imporre un determinato obiettivo. «Questo è il mio progetto ed è migliore di quello degli altri». Trovo questo atteggiamento estenuante e davvero noioso. L’obiettivo è lavorare in un ambiente in cui si cerca di stabilire la correttezza delle idee piuttosto che la correttezza della propria posizione. In Germania ho imparato che grazie a questa strategia si può ottenere di più, e ora la sto usando, anche se in modo molto diverso, in Galizia. Le risposte che si trovano non imponendo il proprio punto di vista, ma mettendo in discussione le opinioni e cercando di porre domande difficili, sono diverse da quelle che si cerca di imporre da soli.

 

PJ: Quali sono i suoi obiettivi in Galizia?

DC: Ho creato e gestisco da sette anni una fondazione che lavora in modo diverso rispetto a uno studio di architettura. All’inizio l’ho finanziata io, e non abbiamo clienti nel senso convenzionale del termine. Assieme a un team di architetti lavoriamo su aspetti fastidiosi per gli abitanti di una città e di cui nessuno si occupa. Perché questo villaggio è compromesso da una strada che lo attraversa? Perché sta succedendo questo? Ci occupiamo di questi fatti e, in un certo senso, li trasformiamo in progetti. Lo facciamo da sette anni con l’obiettivo di diventare un organismo che si occupa di casi che si perdono nelle varie responsabilità. È anche un modo per cercare di ridefinire il ruolo dell’architetto. Anziché lavorare esclusivamente per gli investitori, si cerca di trovare un nuovo modo di lavorare per le persone, per i cittadini, il che sembra molto semplice, ma ovviamente non lo è. In questi anni abbiamo coltivato rapporti con diverse amministrazioni e, di nuovo, siamo riusciti a guadagnare la loro fiducia e quindi le persone vengono da noi, chiedono un nostro consiglio e ci vogliono coinvolgere. Sono consapevole di stare in parte sfruttando la mia reputazione internazionale a livello locale, per poter porre quesiti che ovviamente non avrei potuto avanzare così facilmente se fossi stato un giovane architetto sconosciuto. Sto usando la mia posizione per porre alcune domande difficili e spesso impegnative, sperando nel contempo di aiutare a trovare alcune risposte.

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