Frank Lloyd Wright, passato alla storia come l’architetto dello spazio, nei suoi numerosi scritti non ha mai parlato espressamente di spazio. Sono stati gli storici e i critici dopo di lui, come Bruno Zevi e Sigfried Giedion, a incoronarlo re dello spazio. Wright ha invece parlato spesso e specificatamente dell’aggetto, della forma in aggetto rispetto a un nucleo, di quello che lui stesso definiva il “getting away”.
Specialmente negli anni Trenta nel periodo delle sue ville “usoniane” Wright inizia a concepire un’architettura che parte da un nucleo centrale forte, spesso in pietra o cemento rivestito, da cui si dipartono, più o meno liberamente, altri nuclei, spesso stanze che è come se si irradiassero verso l’esterno, quasi a volerlo ghermire. Un allievo di Wright, il viennese Richard Neutra, un architetto di grande successo negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, darà al getting away del maestro un’interpretazione del tutto modernista, quasi alla ricerca di un possibile incontro tra Wright e Mies van der Rohe.
Delicati invece i getting away di Alvar Aalto, che attraverso questa tecnica, coniugata con la modellazione del terreno circostante, tentava (riuscendoci) di integrare le sue ville con la natura circostante. Dopo di loro, in anni molto più recenti intorno ai primi anni Duemila, Steven Holl, in uno dei suoi edifici più convincenti, la Y House, concepirà l’intera casa come un frammento di getting away, come una sovrapposizione di ali libere nello spazio a cui però è come se fosse stato sottratto il centro da cui si sarebbero dipartite. La Casa a Mellieha, da poco realizzata a Malta dallo studio MYGG, presenta una particolare interpretazione di questa poetica. Per comprendere appieno il progetto è necessario concentrarsi sulla sua parte forte, ovvero le piante. In esse vediamo...
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