Negli ultimi tredici anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con ciò che Rahul Mehrotra chiama “la giungla architettonica dell’India” e in questo periodo sono nate tante amicizie. In cambio della mia attività di docente e mentore, la professione non solo mi ha sempre riservato un’accoglienza eccellente, ma ha anche arricchito la mia vita attraverso lo scambio di doni; l’atto di donare è una pratica indiana che consente di condividere idee, conoscenze e valori. Come ho riscontrato sin dall’inizio il livello di dialogo creativo non ha, nella mia esperienza, eguali in nessun’altra parte del mondo.
Durante il mio primo viaggio-pellegrinaggio in India, nel 2012, sono stato a Trivandrum, nella punta meridionale del Paese, per vedere le opere di Laurie Baker. Mentre stavo disegnando, un giovane studente di architettura si è avvicinato e mi ha detto: «Per favore signore, ci dia i suoi occhi, così attraverso il disegno impariamo a guardare». Il giorno successivo era domenica; 75 studenti si sono presentati al mio hotel per portarmi a un workshop di disegno; volevano imparare da me e condividere successivamente i risultati sui social media. Non lo sapevo ancora, ma il mio amore per l’India sarebbe nato lì, e sono stati tredici anni straordinari. Il mio spirito creativo è stato costantemente alimentato da innumerevoli fonti di conoscenza e ispirazione, andando oltre le mie aspettative. Tra i tanti momenti importanti, ricordo particolarmente la giornata che mia moglie ed io abbiamo avuto l’onore di trascorrere con Balkrishna Doshi nel suo giardino, argomentando come nella vita di un architetto sia importante il viaggiare.
Lo scopo di questo numero di THE PLAN è presentare a un ampio pubblico internazionale la complessità e l’ampiezza dei lavori di architetti indiani talentuosi ma poco noti e non ancora pubblicati su una rivista internazionale.
L’idea è nata a marzo 2024 durante un incontro a Pune con Girish Doshi. Girish ha 67 anni, si è formato sotto la guida di Balkrishna e, nonostante portino lo stesso cognome, non sono parenti. È stato lui a farmi conoscere il lavoro di alcuni giovani architetti straordinari che ha ispirato questa pubblicazione.
La mia attenzione si è concentrata su un gruppo di architetti quarantenni – il più giovane, Avinash Ankalge dello studio A Threshold, ha 36 anni e di recente ha ricevuto l’AR Emerging Award dell’Architectural Review.
Per ampliare la rete alla ricerca di talenti creativi ho chiesto ad alcuni architetti e accademici degli Stati indiani che ho visitato di consigliarmi 50 professionisti giovani e bravi. I miei viaggi mi hanno portato principalmente nelle regioni meridionali e centrali dell’India ma ci sono tanti altri luoghi e facoltà di architettura che devo ancora visitare.
Potreste chiedervi come mai abbiamo scelto di concentrarci su studi emergenti e piccoli; Mausami e Uday Andhare di indigo architects lo spiegano perfettamente: «Il futuro della professione non è nelle mani di quei pochi studi grandi e conosciuti, le cui opere sono in grado di influenzare importanti decisioni politiche o di altro tipo, ma in quelle dei piccoli studi che apportano migliorie alla casa di qualcuno o intervengono su qualcosa da ripristinare; sono queste le cose che contano».
Presentiamo 32 studi di architettura indiani, sette dei quali analizzati più a fondo. Il recente progetto di RMA Architects potrebbe sembrare fuori contesto in questa pubblicazione, ma Mehrotra, Rajeev Kathpalia, Tony Joseph, Kamal Malik e Bijoy Jain, ormai sessantenni, fanno parte della generazione di architetti successiva a Charles Correa e Doshi, sulle cui spalle si reggono i giovani. Esiste anche una fascia intermedia di architetti che sono stati ampiamente pubblicati, tra cui Nandan Durganand Balsavar, Rajeev Kathpalia, Anupama Kundoo, Bijoy Ramachandran, Quaid Doongerwala, Shilpa Ranade, Sameep Padora, Arjun Malik e Kukke Subramanya, ma la loro storia merita di essere approfondita in una pubblicazione successiva.
Vorrei contestualizzare brevemente il sistema di valori e l’impostazione filosofica e artigianale delle generazioni successive all’indipendenza dell’India, che – a prescindere dall’appartenenza culturale o religiosa – contribuiscono a una comprensione profonda di ciò che significa essere persone e indiani in un così complesso Paese.
La festa del Guru Purnima celebra, oltre all’acquisizione di conoscenze, l’importanza dei maestri e dei guru, e il loro ruolo come guida nel percorso creativo e spirituale dei loro discepoli, i quali vengono incoraggiati ad affrancarsi e uscire dalla propria comfort zone, un prerequisito spesso necessario per essere creativi. In quanto tale, Guru Purnima è un’occasione di ringraziamento e al tempo stesso di incoraggiamento a migliorarsi e raggiungere la realizzazione creativa. Gli architetti hanno dimostrato una notevole generosità supportando ex stagisti nelle fasi di avviamento dei loro studi.
Doshi sosteneva che la ricerca della certezza e della perfezione da parte dei Paesi sviluppati fosse un falso costrutto. Per gli indiani, al contrario, l’incertezza è la realtà della vita e gli errori fanno parte dell’apprendimento, che a sua volta fa parte del processo di cambiamento. Accettare l’incertezza come mentalità proattiva è una componente importante dell’identità indiana. «Gli indizi sono lì ad aspettarci, da scoprire in ogni situazione», affermava. «Il disegno a mano libera, come strumento di osservazione che parte dall’intuizione e dalla conoscenza spaziale di chi lo produce, può permettere di scoprire gli indizi».
Data la diversità di lingue madri parlate in un qualsiasi gruppo di studenti, far descrivere ai loro genitori o nonni per esempio il cancello, la porta d’ingresso, l’atrio o il cortile aggiunge sfumature e significati ulteriori rispetto alla terminologia inglese standard. L’importanza della lingua come parte della cultura è un motivo di orgoglio che si traduce in un potenziale della capacità espressiva architettonica.
Doshi e Correa hanno mostrato quanto si possa imparare in termini di valori umani dallo studio delle caratteristiche dei villaggi. Entrambi concordano sul fatto che creare insediamenti umani comporta grande attenzione come lo dimostra la capacità dei villaggi indiani di adattarsi a circostanze sempre diverse trasmettendo un forte senso di appartenenza, identità, materialità e sostenibilità.
Un’esperienza condivisa dalle generazioni successive di architetti indiani già durante gli anni formativi universitari è l’approccio all’apprendimento attraverso il reperimento della documentazione in loco di interi quartieri abitati costituiti da villaggi tuttora esistenti. Alcune tipologie residenziali in molti dei villaggi più antichi risalgono a migliaia di anni fa, formando il patrimonio urbano indiano. Questi stessi villaggi, peraltro, dimostrano anche di sapersi adattare alle circostanze socioeconomiche e ambientali in evoluzione.
In India, nei programmi di studio di tutte le scuole di architettura in cui ho insegnato, la progettazione urbana occupa una posizione centrale, contrariamente a quanto accade in Occidente, dove l’approccio a questa materia avviene soltanto negli ultimi anni.
Qui, già agli inizi del percorso universitario gli studenti di architettura apprendono concetti fondamentali come lo spazio pubblico, la strada, i luoghi di aggregazione e il passaggio dalla sfera pubblica a quella privata; inoltre, sono incoraggiati a studiare i mobili e gli arredi dei villaggi come testimonianze di un vissuto, a dimostrazione di come vengono utilizzate le case nella vita quotidiana. Concetti quali la crescita progressiva e l’adattamento al cambiamento sono ulteriori argomenti di studio.
Altro tema fondamentale in questo percorso di studi è il comprendere l’adattamento di un edificio al clima. Le Corbusier costruì i suoi primi edifici in India ad Ahmedabad, nei quali l’aria fluiva liberamente nonostante il clima umido; gli architetti indiani hanno appreso da lui questa strategia facendone un obiettivo progettuale, soprattutto negli Stati meridionali più caldi.
Gli studenti di architettura indiani sono avvantaggiati in quanto sanno affrontare le complessità culturali in tutte le loro sfumature, dato che fanno parte della loro quotidianità. L’insieme di valori umani trasmessi loro durante il percorso formativo fornisce un approccio pratico a ciò che, innanzi tutto, costituisce l’identità indiana. Queste basi e questo radicamento servono da antidoto nel saper valutare la pertinenza della moltitudine di immagini e concetti astratti decontestualizzati provenienti dallo standard architettonico internazionale.
Molti degli architetti del gruppo intermedio tra i cinquanta e i sessant’anni hanno frequentato corsi di formazione post laurea all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, tornando con nuove prospettive riguardo ciò che era opportuno per la propria professionalità in India: sostenere il valore delle lezioni umane apprese da giovani.
Gli architetti indiani emergenti presentati in questa pubblicazione cercano di resistere all’uniformità consumistica associata al progresso tecnologico moderno e analizzano con occhio critico i metodi di costruzione contemporanei al fine di creare consapevolmente edifici radicati nella cultura e nel luogo.
L’incertezza come agente di cambiamento, unita a un approccio pratico alla complessità delle sfumature culturali, è fondamentale per la vita in India e una generazione di giovani architetti sta affrontando questa realtà in modo costruttivo e significativo in termini di adattamento.
Il fattore umano che si manifesta nell’architettura è lo scambio di doni che gli architetti indiani considerano il loro contributo a un ambiente migliore. Nato per necessità, l’imprevedibile emerge dal costrutto dell’incertezza.
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