Le ragioni per scegliere il riuso di edifici e di materiali edilizi sono inconfutabili; il punto è come intervenire in modo da non portare soltanto un beneficio all’ambiente e alla società, ma farlo divenire una ragione di bellezza e di interesse. Troppi progetti di riuso, riqualificazione o di semplice ristrutturazione sono così banali da risultare irrazionali e deludenti, come del resto la gran parte degli edifici costruiti ogni anno ex novo. Tuttavia è incoraggiante che negli ultimi anni sia emersa una pratica che chiamo riuso inventivo, con cui si cerca non solo di ovviare al debito di carbonio, di evitare la perdita di spazi aperti, la formazione di gerarchie sociali e la pura e semplice bruttezza di tante nuove costruzioni, ma anche di offrire in cambio esperienze spaziali e materiali altrettanto apprezzabili quanto le migliori nuove architetture di questo millennio.
Il riuso inventivo infatti non genera solo effetti spaziali e materiali, ma realizza anche strutture sociali di grande successo, evitando l’estrazione di quelle risorse naturali che non si rigenerano. In questo elenco dovrebbe rientrare anche il legno, che oggi viene prodotto industrialmente da foreste non sostenibili, dannose per la Terra tanto quanto alcuni sistemi di attività estrattiva. Il legno ottenuto da questi processi viene successivamente assemblato utilizzando prodotti tossici, spesso a base di petrolio. Invece di ricorrere a tali sistemi, gli architetti praticano sempre più l’urban mining, letteralmente l’estrazione urbana, un processo che va oltre il semplice riutilizzo di materiali edilizi di scarto ma che consente di recuperare tutti i materiali che la nostra società consumistica scarta quotidianamente, dalle bottiglie di plastica alle lavatrici, dalle pale eoliche ai mobili. Con questo materiale assemblato vengono costruiti edifici che presentano un’estetica attuale in virtù della provenienza e dell’aspetto nel complesso usurato dei suoi componenti.
Altri architetti adottano la pratica più comune di liberare dal loro involucro edifici esistenti mettendone in luce la struttura, e di eliminare divisori interni aprendo lo spazio a nuovi usi. I progettisti migliori riescono a farlo in modo da non toccare direttamente la struttura, preservando e mettendo in evidenza la stratificazione dell’originale attraverso uno studio archeologico più attento. Quando creano aperture nel tessuto esistente, lasciano i segni di questo intervento chirurgico, in modo da rendere leggibile l’atto architettonico di liberazione; quando sono costretti ad aggiungere nuovi materiali (che spesso provengono dal processo di urban mining), li utilizzano come vettori di modernità che giungono sul sito dal passato.
Queste tattiche non si limitano agli edifici. Infatti, alcuni dei migliori progetti di riuso inventivo si estendono fino al recupero di paesaggi industriali. In tutto il mondo, ex fabbriche, miniere, acciaierie e altri grandi siti produttivi abbandonati sono stati trasformati in spazi pubblici vitali, offrendo alle persone spazi ricreativi negli antichi luoghi di durissimo lavoro. Linee ferroviarie dismesse, ex magazzini portuali e parcheggi sono diventati siti che aiutano a definire nuove forme di socialità, consentendoci di esplorare i paesaggi che abbiamo creato.
Oltre questo ampio panorama di possibilità di riuso inventivo, gli artisti e gli architetti stanno stimolando la nostra immaginazione con costruzioni – alcune virtuali, altre sotto forma di installazioni site specific, altre ancora abitabili – che offrono visioni di come potrebbe essere il nostro mondo. Gli interventi più riusciti sono quelli indefinibili: si tratta di evocazioni di un passato, di aperture verso un futuro o di una reimmaginazione del mondo che abitiamo? Sebbene tali costruzioni possano sfidare i nostri concetti di costruibilità o addirittura di fattibilità, esse hanno la stessa funzione dell’arte: danno forma a possibilità che è compito degli architetti introdurre nella nostra società.
Tali pratiche hanno trasformato le testimonianze della rivoluzione industriale in cattedrali moderne e piazze pubbliche, fornendoci esempi imponenti e su larga scala di come potremmo passare da una società ossessionata dalla produzione del nuovo a una incentrata sull’uso migliorativo di ciò che già esiste. In Germania, negli ultimi decenni, alcuni governi e istituzioni hanno convertito l’ampio patrimonio industriale della regione della Ruhr, come impianti siderurgici, miniere e altri stabilimenti, in una sempre più vasta collezione di musei, teatri, birrerie, parchi pubblici, centri di ricerca e poli creativi. La scala di questi edifici, per esempio la miniera dello Zollverein, è maestosa e glorificante. Allo stesso modo, città come Copenhagen e Shanghai hanno trasformato ex aree portuali in parchi giochi con scivoli e piattaforme per i tuffi. A New York, un’ex ferrovia sopraelevata per il trasporto merci è diventata la High Line, un parco pubblico lungo 2,3 km, che offre una visione completamente nuova della città. Tanti studi al giorno d’oggi stanno introducendo queste idee in tutto il mondo, in siti come questi: dall’ex acciaieria fuori Pechino diventata quartier generale delle Olimpiadi invernali del 2022, allo sviluppo continuo del parco Beltline, che un giorno circonderà tutta Atlanta. In virtù della loro natura pubblica, questi luoghi rappresentano per il riuso inventivo una guida di fattibilità.
È il riutilizzo quotidiano di ciò che abbiamo, tuttavia, che sta diventando la base del riuso inventivo. L’urban mining non è un concetto nuovo; infatti, sin da quando esiste una storia documentata le nuove costruzioni hanno utilizzato parti di quelle demolite o fatiscenti. In Asia, questa consuetudine ha spesso portato, man mano che i materiali si deterioravano, a una ricostruzione esatta della preesistenza. In Occidente si ricorre più spesso a ciò che gli storici chiamano reimpiego delle cosiddette “spoglie” – colonne, fregi, frontoni e blocchi degli antichi edifici di Roma – già durante l’Impero Romano e, successivamente, da parte dei cristiani che con questi elementi hanno costruito chiese e case. Questi elementi riciclati possono essere piccoli, per esempio mattoni o pietre, utilizzati come riempimento dei muri a sacco, ma possono essere anche interi edifici, come per esempio anfiteatri trasformati in abitazioni; se lasciati a vista essi mantengono, sia realmente sia per associazione, gli stili e i modi di costruire della struttura di cui facevano parte. Questi “collage” architettonici sono continuati nel tempo e ripresi specialmente nel XX secolo da movimenti artistici che creavano realizzazioni assemblando oggetti di scarto e di recupero.
Al giorno d’oggi l’urban mining è una pratica diffusa. Esistono ferramenta specializzate in materiali di recupero e sempre più siti web o applicazioni ne permettono la ricerca digitale. Nei Paesi Bassi è sorto un gruppo di designer industriali e d’arredamento i quali, riuniti nel movimento Droog Design fondato nel 1993, sono stati i pionieri del riutilizzo radicale di scarti, stracci, vasi rotti e altri frammenti. Tra questi spicca Jan Jongert, co-fondatore di Superuse Studios con sede in un ex centro termale che oggi, col nome di BlueCity, ospita aziende che producono birra con resti di cibo ed edifici con elementi di scarto. La sua invenzione più notevole è stata il riuso di pale eoliche leggermente danneggiate come sedute e attrezzature per parchi giochi, ma la cosa più sorprendente del suo lavoro è l’uso molto personale della tecnica “usa ciò che trovi” per creare strutture stimolanti e divertenti di diverse tipologie, tra cui abitazioni, club house e uffici. Di recente ha creato una bancarella la cui struttura è costituita dai contenitori che gli agricoltori usano per portare il latte al mercato. Insieme a Césare Peeren, ha sviluppato la piattaforma web Harvest Map (al momento sospesa in quanto venduta a una società di software) che consente di mappare e reperire elementi riciclabili.
Lo studio Rotor di Bruxelles ha sviluppato un progetto simile, Rotor DC, dove trovare, acquisire e vendere parti provenienti principalmente da edifici per uffici della fine del XX secolo in via di demolizione. Nella stessa ottica, lo studio olandese Popma ter Steege Architecten (PTSA), quando ha ricevuto l’incarico di progettare un edificio per laboratori di ricerca nei dintorni di Leida, ha trovato una struttura di dimensioni e finalità simili riutilizzandone gran parte per il suo nuovo progetto chiamato BioPartner 5.
A Berlino, lo studio oggi noto come b+ (bplus.xyz, fondato da Arno Brandlhuber) si è specializzato non solo nel riuso di strutture brutaliste in calcestruzzo, ma anche nel loro allestimento con componenti riciclati. L’architetto statunitense Dennis Maher adotta un approccio ancora più radicale: ha trasformato prima la propria casa a Buffalo, nello stato di New York, e poi una chiesa nelle vicinanze in un collage in continua evoluzione di materiali di scarto provenienti da abitazioni e luoghi di lavoro aggiungendo installazioni site specific.
Le strutture più facili da “ripulire” e riciclare sono ovviamente gli edifici interi, e lo facciamo da millenni. Questa forma di riuso va dal conservare la condizione che l’architetto trova (riuso in senso stretto) al tentativo di ripristinare la situazione originale (restauro) fino all’adattamento di ciò che si trova alle esigenze e alle tecnologie attuali (riqualificazione o riuso adattivo). Negli ultimi decenni è emerso il concetto di architettura come forma selettiva di riuso, in cui le decisioni dell’architetto non riguardano ciò che aggiunge o costruisce ma ciò che toglie. Il progetto assume la forma di una spoliazione selettiva degli strati che si sono accumulati nel tempo, rivelando il segno del tempo attraverso la struttura. Oltre a staccare la carta da parati o effettuare aperture nelle superfici, questi architetti “riduttivi” si impegnano anche nel praticare tagli, facendo in modo che questo intervento radicale rimanga ben percepibile nel risultato finale.
Alcuni dei migliori architetti che lavorano adottando questo approccio si trovano nelle Fiandre. Uno di questi è lo studio architecten de vylder vinck taillieu che si è diviso in due: da un lato Jo Taillieu, che si concentra in particolar modo nel mettere in evidenza la bellezza specifica dei frammenti che trova e di ciò che aggiunge per far funzionare la struttura rinnovata – si veda la sua Twiggy Boutique a Gand, dove in uno spazio a doppia altezza ha rimosso un solaio, lasciandone visibili i segni e un camino sospeso; dall’altro lato, Jan De Vylder e Inge Vinck sono più interessati all’effetto grezzo, persino bizzarro, di ciò che trovano o devono aggiungere. Ad oggi, il loro progetto più importante è la riqualificazione del Palais des Expo di Charleroi, dove si svolgono spettacoli, mostre e altre iniziative culturali: l’intelaiatura dell’edificio è stata messa a nudo, accumuli di rifiuti sono stati lasciati nelle vicinanze e il parcheggio occupa la struttura rimasta di una delle vecchie sale congressi. Le pareti e le colonne portano i segni di decenni di convegni ed esposizioni e degli interventi che hanno riportato in vita il sito.
Nella vicina Bruxelles, lo studio 51N4E ha sviluppato una sottocategoria di riutilizzo di vecchi edifici. Tra i loro progetti, l’ex sede IBM che ora è un hotel con uffici di co-working, uno spazio commerciale diventato una discoteca e un complesso di caserme alla periferia della città che stanno trasformando in un maker space con centro comunitario e parco artistico. In tutti questi esempi, allo studio interessa lasciare quante più tracce possibili di ciò che ha trovato, aggiungendo materiali – da tubi di scarico a sacchetti di plastica – che sono a loro volta recuperati. All’interno e intorno alle ex caserme del sito ASIAT si trovano nicchie che a prima vista potrebbero sembrare ripari per persone senza fissa dimora, ma a uno sguardo più attento si notano la cura e l’abilità con cui sono state progettate.
Questo genere d’intervento di ristrutturazione semplice è entrato a far parte delle pratiche comuni, specialmente in seguito alla grande visibilità di progetti culturali come The Geffen Contemporary at MOCA (ex Temporary Contemporary) a Los Angeles di Frank Gehry del 1983, il Palais de Tokyo a Parigi di Lacaton & Vassal del 2002 e il Neues Museum del 2009 di David Chipperfield a Berlino. In tutti questi casi, gli architetti hanno scelto di lasciare gran parte delle funzioni e dei materiali della preesistenza come parte della nuova destinazione a luogo d’arte. Questo approccio si è ulteriormente diffuso grazie alla popolarità della trasformazione di fabbriche in siti artistici su larga scala, dove gallerie e funzioni aggregate formano un unico insieme. Tra i primi esempi su larga scala, vi è la riqualificazione di un ex sito di produzione di armi a Pechino, trasformato nella 798 Art Zone a partire dal 1995. A questo progetto sono seguiti rapidamente altri esempi in Cina e poi in tutto il mondo. Più di recente, questa modalità di riuso di siti di produzione in centri commerciali – cattedrali del consumismo – si è estesa dal Dover Street Market di Londra del 2004, all’ex magazzino Sears diventato il Ponce City Market e al mercato della carne, ora quartiere commerciale, entrambi ad Atlanta. A Houston, OMA ha trasformato un vecchio centro di distribuzione postale in un ulteriore centro commerciale.
In alcuni di questi siti si può persino abitare: a Varsavia, un vecchio edificio per uffici riqualificato da Marcin Stępniewski-Janowski e dallo studio di interior design Tremend è diventato l’Hotel Warszawa, dove si fa colazione nell’ex locale caldaia al piano seminterrato e si dorme sotto a ciò che rimane della struttura in calcestruzzo grezzo; a Città del Messico, il Círculo Mexicano di Ambrosi | Etchegaray è nato dalle rovine della casa del fotografo Manuel Álvarez Bravo e i muri di mattoni sbrecciati inglobano oggi alloggi minimalisti.
Eppure è nelle abitazioni private che questa azione di riutilizzare i rifiuti da demolizione, di smantellare e conservare, aprire ed evidenziare è diventata più sofisticata. Il Regno Unito ha visto la riqualificazione di una serie di proprietà storiche, ormai ridotte a ruderi, in residenze espressive ma di lusso. Ne sono un esempio il castello di Astley, su progetto di Witherford Watson Mann, terminato nel 2013, e The Parchment Works, un’ex cartiera che lo studio Will Gamble Architects ha trasformato in residenza nel 2019: sia la sua apparenza sia la sua anima derivano dal movimento degli Squatter degli anni Sessanta e il suo fascino è originato dall’aspetto vissuto e délabré, reso in voga dalle riviste. Taillieu, sfruttando le rovine di un’ex casa colonica nelle Fiandre, ha creato una casa privata con spazi ben separati; b+ ha trasformato un’ex fabbrica di lingerie in una dimora/bunker in calcestruzzo fuori Berlino.
In altri Paesi, tali progetti di riqualificazione si sono estesi all’edilizia sociale. Sull’isola di Maiorca, Carles Oliver ha trasformato un edificio del XVII secolo in alloggi per famiglie locali escluse dal mercato immobiliare a causa dell’industria turistica. In Scozia, lo studio londinese Assemble lavora da oltre dieci anni in una zona particolarmente disagiata dal punto di vista sociale chiamata Granby Four Streets; in quest’area ha ristrutturato alcune case a schiera conservando gran parte del tessuto originale e aggiungendo elementi realizzati nei laboratori locali di ceramica e di lavorazione del legno che hanno contribuito a far nascere. Gli architetti dello studio si sono concentrati in particolare sulla casa Winter Garden, una costruzione le cui condizioni erano troppo precarie per farle mantenere tale funzione: ora, i suoi muri di mattoni a vista e la presenza di un lucernario danno ospitalità a un centro comunitario. In Cina sono stati riqualificati diversi hutong, i complessi residenziali un tempo appartenuti alle famiglie di un clan: tra questi si distingue l’intervento di Zhang Ke (fondatore dello studio ZAO). Wang Shu e Lu Wenyu, fondatori di Amateur Architecture Studio, si sono recati nel piccolo villaggio di Wencun lavorando in sinergia con gli abitanti per ricostruire le case in rovina e rendere il sito attraente e vivibile sia per loro sia per i visitatori; l’intervento è consistito nel riassemblare alcune strutture, aprirne altre e creare nuovi spazi pubblici interconnessi.
Oltre a questo impegno concreto per far emergere il nuovo dal vecchio o per rivelare il passato nella quotidianità del presente, ci sono progetti che immaginano una separazione più netta tra tempo e spazio. Alcuni di questi sono realizzati quali siti abitabili, come l’Heidelberg Project a Detroit, un quartiere trasformato da Tyree Guyton tra il 1986 e il 2018, e il Dorchester Project a Chicago del 2006 a cura di Theaster Gates. Altri, come Watch the Tone a Memphis, di Studio Barnes, si presentano come siti più permanenti.
Interventi di artisti, più temporanei, propongono siti senza tempo né luogo. Lo scultore e artista visivo inglese Mike Nelson si è specializzato nella costruzione di scenografie elaborate: ha trasportato per esempio un cortile da Istanbul al Padiglione britannico della Biennale di Venezia del 2011. L’artista olandese Marjan Teeuwen ha ottenuto il permesso di riassemblare strutture prossime alla demolizione in cataste accuratamente composte che poi fotografa. Di solito, questi documenti sono tutto ciò che rimane della realtà immaginata. Più recentemente, artisti e architetti hanno concepito siti che possono esistere solo come proiezioni o proposte digitali, come il video Geography of Ghosts di Wanda Spahl e Dominic Schwab del 2023.
Il lato negativo di tutto questo lavoro è che si tratta di una forma di gentrificazione. Qualsiasi investimento, nel nostro sistema capitalistico, richiede un ritorno, e la maggior parte dei progetti appena descritti servono a coloro che se li possono permettere; anche quando sono pubblici, come nel caso della High Line, comportano una spropositata rivalutazione dell’area circostante, allontanando utenti e residenti. Inoltre, il riuso in tutte le sue forme è attualmente più costoso delle nuove costruzioni. Finché non cambiano le nostre leggi, i nostri regolamenti, le nostre decisioni su dove, come società, scegliamo di investire (nel recupero piuttosto che in opere monumentali private o pubbliche, per esempio), anche la scelta del riuso inventivo non cambierà il fatto che l’architettura ha sempre rappresentato, rappresenta e rappresenterà per il prossimo futuro l’affermazione “edificata” dell’élite socio-economica in tutti i suoi desideri e valori.
Tuttavia, questi e molti altri progetti che stiamo ricavando dall’ambiente costruito ci aiutano a reimmaginare il passato come strumento per comprendere e abitare il presente; ci mostrano la bellezza di ciò che abbiamo ereditato; uniscono il fascino delle rovine agli impulsi utopici degli architetti per creare un mondo migliore; fanno inoltre in modo che il luogo da cui veniamo non sia solo un ricordo del passato, ma una realtà costruita e resa nuovamente abitabile, dove poter costruire la nostra vita in forme più aperte, sostenibili e belle.
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