Il nostro lavoro si basa sullo studio del programma e delle soluzioni riferiti alle molteplici scale e funzioni di case, scuole, musei, parchi e ponti. L’essenza stessa del nostro operare risiede però nel ritorno alla “città” e in un rinnovato interesse per essa; in particolare la nostra attenzione è indirizzata a come l’idea di città possa essere reintrodotta negli edifici che andiamo a progettare.
La relazione tra città ed edificio è un tema che da sempre affascina e interessa gli architetti lungo tutta la storia della disciplina. Nel nostro caso, la città è Los Angeles, un luogo forse più persistente che permanente, irrisolto eppure definitivo, vivace in tutta la sua irrequietezza. Nelle sue complessità e nelle sue realtà in costante evoluzione, questa megalopoli è riuscita a crearsi una propria specifica identità e immagine.
Tuttavia, si può rilevare che Los Angeles esprime una forma di città contemporanea sempre più diffusa in tutto il mondo. I suoi problemi e i suoi necessari interventi sono condivisi da tante altre città del mondo in rapida crescita: confini indistinti tra città e regione, richieste sempre più numerose di alloggi a prezzo contenuto e infrastrutture che faticano a stare al passo con l’espansione urbana. Al tempo stesso queste città possiedono un notevole potenziale grazie alla loro intrinseca diversità e alla loro energia creativa. Per questo motivo riteniamo che le impostazioni e le sperimentazioni che qui si praticano possano avere un impatto più ampio.
Per fare emergere da questo luogo potenziali influenze produttive e sviluppare modalità operative che interagiscano con questo tipo di città, siamo giunti a una serie di idee base o, quantomeno, di proposte, che rappresentano riflessioni e impulsi per il nostro lavoro e che, per estensione, sono potenzialmente applicabili a un’ampia gamma di città contemporanee.
La prima idea parte dalla questione controversa su come osservare e leggere questo tipo di città. Le definizioni tradizionali e gli approcci formali allo studio del contesto, che creano collegamenti tra la storia e le forme fisiche attuali di una città, non sono facilmente applicabili a Los Angeles, per cui essa è stata solitamente considerata priva di forme, densità e gerarchie, ma forse potremmo intenderla in modo diverso, come una città a “basso contrasto”. La ripetizione confusa dei nastri dei boulevard, l’uniformità degli isolati, la vasta distesa di case unifamiliari, l’ubiquità e l’apparente ripetitività di materiali economici formano la caratteristica colonna sonora visiva di questa città.
Anziché imporre l’idea tradizionale di “contesto”, preferiamo usare il termine “caratteristiche” per permettere a questa colonna sonora di permeare il nostro lavoro e per evitare di dover inserire Los Angeles in un tipo di analisi che non ha precorso questa metropoli tentacolare, postbellica, tardo-capitalista e incline al laissez-faire. Le caratteristiche ci permettono di ampliare l’area di studio, di soffermarci sulle peculiarità specifiche di questo luogo, che spesso sono più indistinte, più fuggevoli come il colore e la qualità della luce, le infinite distanze da percorrere, il non finito e l’informale, la prevalente fragilità piuttosto che la solidità di molti materiali comuni.
La necessità di trovare nuovi modi di leggere il contesto è stata valida per generazioni di “città” semi-urbane. Questo è il caso di Levittown, a Long Island, New York (di cui sono originario) – un modello imitato – una “città istantanea” sorta dove prima c’erano campi di patate e che ha previsto le esigenze di una crescita generazionale della popolazione.
Viste da lontano, attraverso le lenti di un’analisi urbana tradizionale e formale, Levittown, Los Angeles e luoghi simili sono spesso descritti come ripetitivi, banali e senz’anima. Eppure, la realtà è diversa. A Lewittown, tra la ripetizione di case tutte uguali, sono stati gli spazi tra edifici, i cortili laterali, gli appezzamenti vuoti e i bacini di raccolta delle acque piovane a sviluppare nel tempo una propria qualità spontanea, quasi selvatica. Da un lato questi paesaggi erano artificiali, occasionali, ma al contempo reali, organici e in molti casi belli e unici. Occorre innanzitutto ridefinire l’approccio alla considerazione di questi luoghi, metterli forse in relazione con il punto di vista di Robert Irwin, per il quale «vedere è dimenticare il nome della cosa che si vede»: attestare innanzitutto la grande ingegnosità e specificità del luogo, le parti non previste, informali, intenzionali, proprie di questa tipologia di città, e successivamente trarre da queste forze un proprio valore.
Il concetto della casa come microcosmo della città è un tema che nel corso della storia è stato affrontato da molti architetti. Yona Friedman, nel suo libro Pro Domo (2006), ha scritto: «Quando ero uno scolaro ho scoperto che una casa da sola non esiste, che non finisce ai limiti esterni del pianterreno ma si estende sulla strada, in giardino, e poi verso la casa di fronte. La casa dall’altro lato della strada si estende a sua volta verso ciò che le sta di fronte, e così via. Immaginare una casa significa immaginare il mondo intero».
Storicamente la casa è stata l’unità e l’elemento costitutivo essenziale, e sinonimo, di Los Angeles, il luogo delle grandi invenzioni e degli esperimenti riguardo la casa modernista, dalle prime architetture di Irving Gill alla Kings Road House di Robert Schindler e al programma Case Study Houses del dopoguerra; tuttavia questa narrazione risulta quasi idilliaca se si considera la realtà delle esigenze abitative della città odierna. Mentre Los Angeles affronta questioni molto reali e urgenti quali la densificazione di un tessuto urbano prevalentemente composto da alloggi unifamiliari, che hanno diviso individui, intere comunità e funzioni dal punto di vista politico, sociale ed economico, noi ci concentriamo sulle modalità di costruzione di nuovi alloggi in modo che riflettano e incrementino la diversità della città. Abbiamo iniziato a pensare che questo non vuol dire semplicemente aggiungere alloggi nella città, ma piuttosto reinserire la città all’interno della casa.
Questo aspetto è particolarmente problematico in quanto, per la maggior parte della sua storia, Los Angeles è riuscita a eludere la questione della collisione tra diverse realtà urbane, in parte tramite un’infinita espansione verso l’esterno dei suoi numerosi “centri” ogni volta che si sentiva minacciata da un inizio di densità. Quasi tutte le funzioni della città potevano svolgersi “democraticamente” sui boulevard, sulle strade e sui viali senza dover interagire.
Se da un lato possiamo e dobbiamo superare queste divisioni a scala urbana creando isolati e quartieri vivaci e ricchi di diversità, dall’altro è fondamentale portare questa diversità all’interno dei singoli edifici, dal momento che un mix di usi, di comunità e individui è in grado di apportarvi dinamicità, creando un’energia che può irradiarsi nel quartiere circostante.
I primi modernisti, attraverso i loro progetti, hanno avanzato proposte su come gestire la diversità della città, separando e stratificando orizzontalmente le funzioni della vita quotidiana (lavoro, casa, tempo libero) pensando di isolare tensioni e conflitti urbani di matrice sociale, politica, economica e programmatica, che potevano essere reingegnerizzati in quelle prime proposte per vivere in una forma più armoniosa di stratificazione a zone. La conseguenza, naturalmente, è stata separare e isolare le funzioni inevitabilmente attive in ogni città. Anche se represse nel subconscio della città, queste tensioni hanno continuato a “fermentare”, separate da labili confini fisici e psicologici.
Mentre Los Angeles affronta il raggiungimento dei limiti funzionali dei confini fisici della regione, la crescita della città ha iniziato a ripiegarsi su se stessa, facendo pressione per passare da una città con un unico strato orizzontale a una città che ci richiede d’immaginare come nuove complessità e nuovi strati possano essere realizzati all’interno di un palinsesto che si sovrappone e si intreccia con la città presente. Non vogliamo creare semplicemente un “terreno” alternativo da sovrapporre al tessuto esistente, quello che ci interessa invece è studiare il potenziale di una nuova tipologia di spazio “intermedio”, più vivace e complesso, di interazione anziché di separazione.
Nel progetto Star Apartments, tra la copertura esistente di un ex stabilimento produttivo monopiano e le nuove unità residenziali “sospese” al di sopra, abbiamo creato uno spazio comunitario con aule, una cucina e un orto condivisi, un campo da pickleball e una pista da jogging. In questo modo si è formato in questa zona intermedia uno spazio semi-pubblico che attinge sia dall’attività della strada sottostante sia dalla comunità che vive al livello soprastante, creando una maggiore densità di comunità.
Gli straordinari esperimenti di edilizia residenziale moderna in California meridionale che indirizzano le nostre riflessioni e il nostro lavoro sul rapporto tra città e casa ci spingono a ragionare su un altro tema che in molti di questi progetti è stato fondamentale: il rapporto tra sfera pubblica e privata. Richard Neutra ne è stato uno dei principali protagonisti e la sua Dorothy Serulnic House del 1953, sulle colline di Los Angeles, è l’esempio per eccellenza dell’ambizione modernista di dissolvere i confini tra pubblico e privato attraverso un involucro esterno in vetro trasparente.
Nella nostra contemporaneità, tuttavia, ci chiediamo se questo modo sia ancora in linea con le nostre aspettative nei confronti di una casa o dell’architettura in generale. Trasparenza sociale e connessione con ciò che ci circonda caratterizzano il nostro tempo; la nostra vita privata è sempre più intrecciata con quella pubblica, mentre la trasparenza, che per Neutra era quasi un imperativo morale, è diventata un tema sempre più complesso. Sono sempre più interessato a capire come ottenere una sorta di visibilità sociale, cercando al tempo stesso di analizzare cosa significhi il termine “privato”. Oggi, senza dover uscire di casa, esistiamo in più luoghi contemporaneamente: ovunque ci troviamo, siamo quasi sempre connessi a qualcos’altro. Anche se queste connessioni non sono fisiche, gli spazi in cui si verificano sono nondimeno connessi gli uni agli altri, e questo fatto può e deve essere analizzato per le sue ripercussioni nell’architettura. La trasparenza è stata la grande sfida spaziale del modernismo; oggi, quella più avvincente per gli architetti è la simultaneità, la caratteristica spaziale che forse meglio definisce il nostro tempo.
La nuova Pittman Dowell House che abbiamo progettato è quasi l’alter ego della Serulnic House di Neutra, che si trova a soli trenta metri di distanza; nel sito si trovavano già in nuce le tracce di una sorta di simultaneità, nella relazione tra le tre case che Neutra aveva pianificato di costruirvi. La casa originale di Neutra è “connessa” alla nostra da un unico grande albero, elemento iconico diventato mediatore tra le due residenze; la prima è avvolta da pareti vetrate, la nostra presenta un rivestimento opaco, con alcune aperture che creano una comunicazione tra interno ed esterno. L’esterno è solido e opaco, ma l’interno è quasi completamente trasparente: le pareti sono per lo più in vetro e la maggior parte delle stanze non è separata da divisori; il risultato è che dal soggiorno si possono vedere il cortile, la cucina, il bagno e la camera da letto principale. È come se avessimo preso la Serulnic House, con il camino e il nucleo al centro e il vetro all’esterno, e avessimo invertito il suo schema, portando la trasparenza esterna e il carattere pubblico all’interno, nel mondo privato della casa.
Ci sono due scale di edifici che sono di particolare interesse per le nostre speculazioni sulla città contemporanea. La prima riguarda il “paesaggio intermedio”, ed è strettamente legata alla nostra interpretazione di Los Angeles come città a “basso contrasto”. Primo piano neutro come sfondo di un paesaggio urbano che è caratterizzato dall’apparente continuità della sua palette di forme e texture. Nel realizzare un’architettura a questa scala, che però è più ambientale che apparente, sorgono domande interlocutorie sulla sua identità: è un edificio a sé stante, un progetto urbano, o entrambi? In che modo un edificio si relaziona alla continuità e alla ripetizione che lo circondano? Vuole distinguersi o confondersi? In questa ambiguità troviamo un terreno fertile per ampliare la definizione di architettura e un luogo dove scoprire potenzialmente nuove forme e relazioni.
La seconda riflessione, correlata alla prima, riguarda la previsione di una “scala anticipatrice”. Qui la sfida è sia temporale sia fisica: come dobbiamo costruire pensando al futuro, vicino e lontano, in una città che si sta rapidamente trasformando per dimensioni e densità?
In una città a bassa densità spesso si teme che gli sviluppi più recenti e di maggiori dimensioni risultino essere fuori scala in un quartiere o in una zona già esistenti. Se l’area in questione rimanesse stabilmente immutabile, queste preoccupazioni e critiche avrebbero una loro fondatezza. Ma se pensiamo che la città stia cambiando e che continuerà a evolversi, allora è responsabilità dell’architetto fare supposizioni, anticipare, andare incontro al futuro della città in modo proattivo e non solo reattivo.
Il complesso per appartamenti One Santa Fe si trova in uno di questi quartieri in rapida evoluzione. Quando il progetto è stato reso pubblico abbiamo dovuto affrontare critiche sostanziali. Molti ritenevano che fosse troppo grande e fuori scala rispetto al contesto prevalentemente industriale e con edifici di media altezza; eppure, a distanza di quasi dieci anni, il quartiere è cresciuto intorno all’edificio. Con il nostro lavoro abbiamo cercato di anticipare questa trasformazione più ampia attraverso interventi specifici, calibrati e mirati per quel particolare sito e quel contesto urbano locale: abbiamo sospeso una porzione dell’edificio per formare un sottopasso che incornicia un’apertura rivolta verso una futura stazione della metropolitana; abbiamo progettato delle aree all’interno dell’edificio da cui si dipartono dei ponti che conducono, passando oltre lo scalo ferroviario adiacente, al fiume Los Angeles, che si sta riqualificando come risorsa urbana e civica; infine abbiamo creato due livelli di parcheggi a tutta altezza che potranno in futuro essere convertiti in unità residenziali vista la riduzione del numero di persone che possiedono un’auto. In questo senso, l’architettura di un edificio può essere protagonista attiva della città, contribuendo a creare per la nostra idea di evoluzione urbana diversi scenari futuri possibili e prevedendo per l’edificio stesso una trasformazione nel tempo.
Nella narrativa del dopoguerra, Los Angeles si è sempre presentata come una città “multiculturale”, in cui la coesistenza di diverse comunità ha creato un forte spirito di coesione collettiva. Con i fatti di Watts del 1965, la rivolta di Los Angeles del 1992 dopo il pestaggio di Rodney King e le tensioni sociali negli ultimi decenni dovute all’aumento vertiginoso del numero di persone senza fissa dimora e del divario economico e sociale, è diventato evidente che Los Angeles non è tanto una città multiculturale quanto una città di molte culture vibranti e pregnanti ma isolate, separate da confini reali e ideologici.
Quale forma può assumere l’architettura se il suo obiettivo è quello di collocarsi non al centro di una comunità ma su quegli stessi confini e linee di divisione? Anziché fungere da semplice apertura tra due parti, può l’architettura fonderle in una terza forma che produce connessioni e complessità positive all’interno di un quartiere?
Uno dei nostri più recenti progetti di edilizia residenziale permanente, 26 Point 2 (la distanza in miglia di una maratona), si trova nella località portuale di Long Beach, specificamente lungo la Pacific Coast Highway, il cui nome evoca un’immagine romantica della vita da spiaggia della California meridionale, ma concretamente è un vero e proprio boulevard commerciale, formato da una sequenza di edifici commerciali monopiano e caratterizzato da traffico veicolare veloce. Questo grande viale divide due paesaggi radicalmente diversi: da un lato, serbatoi di stoccaggio di petrolio; dall’altro, una distesa indifferenziata di case unifamiliari.
La forma di 26 Point 2 è un insieme dei suoi confinanti. Il tetto a falde del lungo volume monopiano che affianca il negozio di abbigliamento usato si distingue dagli edifici bassi che caratterizzano il quartiere, formando una nuova facciata più alta lungo la Highway. Il parcheggio al piano terra, sotto l’edificio, funge da spazio di aggregazione, così come la sala comunitaria e la cucina comune con tetto a falde che condividono la scala con il negozio accanto; un soppalco esterno si affaccia sul tetto della sala comunitaria sottostante e, dal lato opposto della strada, sui giacimenti petroliferi.
Presi singolarmente, la sala comunitaria, la cucina e il parcheggio sono semplici componenti del programma dell’edificio, ma nel loro insieme aggregano e creano nuove relazioni di forme e spazi che propongono una forma più interconnessa e dinamica di comunità diversificata in un luogo precedentemente definito da separazione e isolamento.
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