Per una serie di circostanze che, sebbene non pianificate, sono state in un certo senso cercate, nel 2004 siamo arrivati a Barcellona, la città dove oggi viviamo e lavoriamo, fondando lo studio mentre eravamo ancora alla ricerca di un ufficio dove stabilirci. Provenivamo da contesti accademici diversi ma ambedue completamente estranei al panorama architettonico della città. Eppure quei primi anni hanno avuto un forte impatto sul nostro modo di essere architetti oggi. L’assenza di piccole commissioni dirette locali – che avrebbero potuto aiutare lo studio a crescere – ci ha spinto a lavorare sin dal principio a livello internazionale. Di conseguenza, il nostro lavoro in quei primi anni si è sviluppato indipendentemente dal contesto in cui abitavamo e lavoravamo, influenzando probabilmente la tipologia di architettura che progettiamo. Non prendevamo tanto spunto dall’ambito locale, quanto da ciò che avevamo imparato alla facoltà di architettura e da alcune esperienze chiave di quegli anni formativi. In realtà, ciò che facciamo, come tutti del resto, viene da lontano. Ogni architetto ha la sua storia, una narrazione profondamente personale. Il progetto non nasce quando iniziamo a disegnare ma, in un certo senso, dal momento in cui abbiamo preso conoscenza dell’architettura; nel mio caso, credo di aver capito di voler fare l’architetto quando ho visto Casa Malaparte.
Ricordo esattamente quel momento: avevo 12 anni e ne sono rimasto affascinato. Con mio stupore, ho scoperto che era stato Adalberto Libera, un architetto della mia città natale vicino alle Dolomiti, ad aver realizzato questa villa straordinaria su un’isola nel Mediterraneo, per me un posto pressoché straniero. Costruita quasi per caso, la casa rappresenta la prima opera di architettura moderna che mi ha affascinato e per molti anni mi è rimasta nel cuore. Devo ammettere che c’è molto di Casa Malaparte nel nostro lavoro. Quando l’ho rivista con occhi da architetto, il fatto che più mi ha stupito è stato il rapporto che forme semplici ed elementari erano state in grado di stabilire con il luogo, un contesto stupendo ma difficile, così come il magnifico contrasto tra la natura e l'artificio architettonico, il quale si inseriva nel contesto naturale acquisendo una dimensione metafisica. Sono rimasto sorpreso nel vedere come, nei primi disegni di Libera – o di Malaparte, poiché la paternità è incerta – le forme più elementari sono state trasformate, ricorrendo a un elemento apparentemente estraneo come una scala, in un’architettura capace di rivelare una nuova dimensione e un nuovo, inaspettato, aspetto del contesto. Ho sempre in mente un’immagine che indica l’essenza stessa del progetto: Curzio Malaparte, autore di La pelle e proprietario della casa, fotografato davanti alla scalinata della chiesa dell’Annunziata a Lipari, un’isola delle Eolie. Questo basilare elemento architettonico, inserito in Casa Malaparte, ha subito una mutazione. Anche se non è mai stato provato, credo che Malaparte e Libera abbiano preso spunto dalle caratteristiche della tradizione di queste isole.
Mi ha sempre conquistato ed entusiasmato vedere come oggetti semplici, appartenenti a una precisa tradizione, possano assumere forme enigmatiche e misteriose e come, con pochi tratti schematici, questi elementi basilari siano in grado di stabilire un dialogo profondo con un contesto specifico e con le componenti che identificano un determinato luogo. Una constatazione che mi ha portato a comprendere come l’unione tra forme basilari, l’interpretazione dell’unicità di un luogo e l’inserimento in un determinato contesto di un elemento estraneo – la caratteristica di una tradizione o un ricordo intimo del committente, in questo caso uno scrittore – possa dare vita a un’architettura. Mi ha stupito vedere come un elemento, qui apparentemente estraneo e per certi versi inutile, quale una scala, se inserito in volumi semplici, possa diventare l’elemento cardine di un intero progetto, la caratteristica che conferisce all’edificio la sua raison d’être. È proprio questo elemento, estraneo al luogo stesso, che paradossalmente lega il progetto al paesaggio. Soltanto nel corso degli anni, e soprattutto di recente, ho realizzato quanto, forse inconsciamente, Casa Malaparte abbia influenzato il nostro lavoro.
Esaminando i nostri progetti, ci siamo resi conto di quanto questa esperienza sia stata alla base di un metodo di lavoro, un modo di definire un linguaggio espressivo. In molti casi ci appropriamo di elementi che abbiamo percepito e li integriamo nelle nuove architetture. Un progetto non nasce dal nulla, ma trae sempre la sua origine da qualcosa che esisteva prima e che ne costituisce il fondamento. Il dialogo tra ciò che c’era e ciò che ci sarà è sempre presente nella nostra architettura.
In un certo senso, queste riflessioni sono riassunte nel nostro primo libro Barozzi Veiga (2022), e più precisamente nella prefazione intitolata “A Sentimental Monumentality”, che rappresenta una sorta di manifesto del nostro lavoro; vi esponiamo la dicotomia che ne sta alla base: la ricerca di un equilibrio tra la specificità del luogo e l’autonomia della forma architettonica. Tutti i nostri progetti si richiamano a questo concetto. L’ossimoro nel titolo rivela il paradosso che anima il nostro lavoro, ovvero il dialogo fondamentale tra contestualizzazione e astrazione. Il termine “sentimentale” si riferisce alla necessità di essere empatici nei confronti del carattere e delle condizioni uniche di un luogo, mentre “monumentale” è riferito alla consapevolezza dell’inevitabile autonomia e solitudine dell’oggetto architettonico.
Questo saggio si è poi tradotto in un’installazione alla Biennale di Venezia, un’opera che era la rappresentazione fisica del concetto di progetto architettonico descritto nel testo: un’installazione site-specific al centro delle Corderie che reinterpretava l’elemento identificativo di quello spazio, la colonna. Semplicemente, abbiamo aggiunto un elemento archetipico alla serie infinita che era già presente. Pur appartenendo alla specificità del luogo e proprio perché definiva un archetipo, l’installazione era un oggetto alieno e cercava di dimostrare come un progetto nasca da un determinato contesto per poi assumere una vita propria.
Questo modo di lavorare ha una relazione profonda e diretta con quanto esposto in precedenza: riflettere sulla specificità del luogo e sulla sua interpretazione e capire come mettere in luce le sue caratteristiche uniche e la sua identità in modo indiretto, inaspettato, come nel caso di Casa Malaparte. Potremmo dire che il nostro lavoro procede per analogie: analogie con la realtà fisica di un luogo ma anche con il suo linguaggio architettonico, il suo carattere e gli elementi intrinseci. A volte, questo approccio va oltre la fisicità di un luogo, facendo riferimento invece alla storia dell’architettura e a precedenti storici; il nostro progetto a Coira, per esempio, è un riferimento diretto alle proporzioni ideali della Rotonda di Palladio. Altre volte riprende forme urbane: nel progetto del Museo Cantonale delle Belle Arti di Losanna c’è una sottile analogia con gli Uffizi e il Foro Romano, un riferimento che dissolve i confini tra architettura e spazio pubblico, definendo così il progetto come uno spazio collettivo, pubblico, civico e non come un semplice oggetto architettonico.
Negli ultimi anni, sempre proseguendo su questa linea, ci siamo sempre più resi conto di come il nostro lavoro sia essenzialmente la ricerca di una certa idea di continuità con i luoghi e con le architetture esistenti; in altre parole, di continuità con una storia precisa. Non a caso, la nostra prima mostra monografica porta il titolo On Continuity ed è stata recentemente presentata all’Università Iuav di Venezia, dove ho studiato, poi a Milano e a Budějovice (Repubblica Ceca). Con questo titolo la mostra si interroga sul significato del termine continuità in architettura, che per noi vuol dire interpretare le specificità di un luogo, le diverse realtà esistenti e, di conseguenza, capirne la tradizione e come rapportarsi ad essa. Nella nostra monografia abbiamo inserito un’importante citazione dal libro Teoria estetica (1970) di Theodor W. Adorno: «Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità». Questa frase, per noi fondamentale, afferma che l’idea di tradizione non si perpetua nella continuità, ma che l’antico – ovvero la tradizione – si infiltra negli interstizi, nostro oggetto di interesse e mezzo con cui interpretiamo l’idea di tradizione. Paradossalmente, per lavorare in continuità con la tradizione, e quindi con la specificità di un luogo, deve esserci un interstizio, ed è esattamente ciò di cui andiamo alla ricerca con il nostro lavoro. Esso si genera quando un elemento della tradizione appartenente a un luogo o a un paesaggio si trasforma in qualcos’altro, presentandone un significato nuovo e inaspettato. Un esempio potrebbe essere la scala di Casa Malaparte.
Questo approccio è importante poiché riteniamo che oggi si debba riflettere su come preservare l’essenza dei luoghi, evitare la loro omologazione, interpretare ed enfatizzare le differenze tra l’uno e l’altro. In altre parole, pensare a come adattare, trasformare e rinnovare elementi costruttivi. Conservare non significa semplicemente mantenere intatto, ma lavorare in quello spazio interstiziale, in quel frammento di spazio che ho appena descritto, perché è lì che si trova l’inaspettato. Per noi è fondamentale conservare ciò che rende un luogo unico e diverso dagli altri. Si potrebbe dire che lavoriamo con le contingenze di un contesto cercando sempre un equilibrio tra storia e innovazione. Per noi, l’aspetto avanguardistico di alcune opere sta nella ricerca del confine tra continuità filologica e interpretazione personale.
Credo che il nostro lavoro mostri chiaramente queste intenzioni. Il nostro primo edificio, la sede del Consiglio Regolatore Ribera del Duero a Roa (Spagna), crea un rapporto diretto con il luogo, un dialogo con le sue caratteristiche ma soprattutto con la sua atmosfera; il progetto presenta inoltre alcuni aspetti che sono diventati delle costanti nel nostro lavoro, tra cui il concetto di permanenza e la ricerca del modo più idoneo per far sì che l’architettura diventi parte naturale del paesaggio. La costruzione rappresenta anche il nostro tentativo di realizzare un microcosmo: uno spazio urbano e civico in cui l’architettura funge solo da cornice alla vita pubblica.
La nostra ricerca nei primi anni si è concretizzata nella Filarmonica di Stettino (Polonia). L’edificio crea una certa tensione con il contesto cercando di essere parte della città ma volendo al contempo rivelare una realtà alternativa. Il suo ruolo civico è espresso dall'inserimento al suo interno di una piazza pubblica, il foyer. Un’altra caratteristica presente in tutti i nostri progetti è il concetto di casa, che dà forma a un’architettura civica e pubblica in cui l’edificio costruito funge da inquadramento a un importante spazio collettivo. L’atrio di accoglienza intende invece manifestare una continuità con la storia e il modo in cui sfruttiamo la sua infinita capacità di produrre nuovi indirizzi. Il progetto residenziale a Ordos (Cina), del 2008, può essere considerato la continuazione del processo progettuale della Filarmonica di Stettino, in quanto esplora il legame tra la matrice ideale di una tradizione e i suoi limiti.
Il Neanderthal Museum a Piloña, nel nord della Spagna, ha segnato una svolta importante nella ricerca dello studio. Il fatto di aver lavorato per la prima volta in un ambiente naturale ci ha portato a creare una forma primaria e ha consolidato il nostro interesse per un processo di semplificazione delle forme e di rimozione delle parti superflue per riportare una costruzione alle sue origini.
Queste composizioni essenziali, la densità dei materiali e l’espressività degli spazi interni sono diventati i temi principali dei nostri progetti successivi in Svizzera. Avevamo poco più di trent’anni quando abbiamo iniziato a lavorare al Museo Cantonale di Belle Arti di Losanna, un progetto che ha dato forma all’aspirazione civica, da sempre alla base del nostro lavoro; essa sottolinea la centralità dello spazio pubblico, il suo ruolo di legame con la città, che dialoga con l’unicità del sito mantenendo il suo antico carattere industriale. Il museo esprime inoltre un certo grado di astrazione e autonomia: pur reinterpretando il carattere e la specificità di un contesto urbano, intende testimoniare la consapevolezza di essere un oggetto a sé stante; tale consapevolezza si è espressa nel Museo d’arte dei Grigioni a Coira, progettato nove mesi dopo quello di Losanna. Pur facendo riferimento alla storica villa palladiana e al suo orientalismo romantico, quest’ultimo progetto mostra una forte autonomia assertiva che il nostro lavoro non aveva mai espresso prima. La ricerca dell’oggetto architettonico ideale, quasi platonico, è diventata uno dei temi principali del nostro lavoro, subito concretizzata realizzando la sede della Tanzhaus di Zurigo. Mentre il linguaggio dell’edificio, come infrastruttura pubblica, deriva dal contesto esistente, la sua logica costruttiva sperimentale, pionieristica e radicale testimonia la nostra nuova consapevolezza del valore e della condizione primaria dell’architettura come oggetto nello spazio.
Ci siamo interessati alla ricerca del senso di permanenza, concentrandoci su progetti che puntano a intrecciare tempo e storia, in contrapposizione all’immaterialità effimera che oggi domina la scena architettonica. Abbiamo cercato di creare architetture capaci di estrinsecare massa e gravitas conformi a ogni contesto, anche se talvolta questo ha comportato un certo grado di anonimato, come nel caso della scuola di musica a Brunico. La residenza Solo House a Matarraña (Spagna) fa riferimento alla nostra esperienza svizzera e allo studio di forme primitive, quasi arcaiche, soprattutto nei progetti di Zurigo. Il progetto per la famiglia Guerrieri Rizzardi, vicino al lago di Garda, segue la stessa logica. L’obiettivo di Villa AK a Beirut ha esteso l’area geografica d’intervento dello studio e di conseguenza le nostre proposte architettoniche.
I progetti per gli Atelier degli artisti a Londra e per un negozio a Tokyo sono situati in contesti insoliti – indefinito nel primo caso e frammentato nel secondo – e dal 2015 sono paradigmatici del nostro approccio. Il sito del progetto londinese era un’ex area industriale dismessa, in gran parte priva di riferimenti urbani e senza una funzione ben definita; per questo motivo abbiamo adottato una narrazione generica, quasi onirica, che non cercava una specificità fisica ma una continuità con determinati precedenti architettonici storici. A Tokyo ci siamo trovati di fronte a una situazione simile. Nonostante l’edificio programmato non sia mai stato costruito, questo esperimento ci ha permesso di approfondire il tema della specificità legata alle esigenze di identità del brand. Il design era pervaso da una sobrietà piuttosto radicale che doveva creare un momento di quiete in mezzo al frastuono della città; la tranquillità che trasmetteva e lo stile costruttivo erano in linea con i desideri dei committenti ma anche con i valori originali del brand.
Questa nuova visione del nostro lavoro emerge anche nel processo progettuale dell’Art Institute di Chicago, un progetto affidatoci nel 2017 su cui stiamo ancora lavorando e che ci impegnerà per molti anni. Pur trovandosi in un contesto urbano americano, la strategia progettuale è profondamente radicata nella sensibilità architettonica europea e nella conseguente enfasi sulla natura civica di ogni architettura urbana. Il design del Museo di storia marittima a Saint-Malo, uno dei pochi realizzati in Francia, riprende la geografia artificiale del contesto urbano e il carattere materico della città vecchia.
Attualmente stiamo lavorando ai musei di Aalborg (Danimarca), Courtrai (Belgio) e Bruxelles, simili per scala e contesto; con questi lavori vogliamo sottolineare che un progetto deve essere parte di un insieme – sia esso città o paesaggio naturale – e mai concepito o percepito come un oggetto autoreferenziale. Quelli che ho appena elencato sono esempi tangibili del concetto di “preesistenza ambientale”, per usare un’espressione di Ernesto Nathan Rogers. Creare un insieme coerente, secondo la nostra visione, vuol dire stabilire un collegamento tra l’edificio e il suo contesto, non solo fisicamente ma anche dal punto di vista astratto, raggiungendo un’armonia “climatica” con l’ambiente circostante e la posizione geografica. Un esempio di quanto esposto è la residenza per artisti a Miami a cui stiamo lavorando; l’obiettivo del progetto è trovare un nuovo punto d’incontro tra sostenibilità e logica costruttiva convertendo gli elementi tecnici in risorse architettoniche espressive.
Il nostro lavoro si è ovviamente evoluto nel corso degli ultimi vent’anni. Quello che non è cambiato nei nostri progetti, come succede nei romanzi, è che continuano a basarsi su un’immagine, sul ricordo di un momento o sulle sensazioni suscitate da un frammento, dal dettaglio di un muro, dalla luce che caratterizza un luogo o da materiali consumati dal tempo. Il carattere essenziale di un luogo spesso non appare in modo manifesto, sono frammenti, spazi, materiali, atmosfere che, trasformate, si traducono in nuove architetture, preservando e addirittura accentuando l’identità originale dell’architettura e del luogo.
In altre parole, ciò che ci interessa è l’intrahistoria di un luogo, termine coniato da Miguel de Unamuno, ovvero quella “piccola storia” che spesso diventa il punto di partenza di un progetto; non “la Storia”, ma un aspetto minore che si trasforma, evolvendosi, in una realtà, un carattere e un’identità. Per noi lavorare in continuità significa continuare queste piccole storie che evidenziano l’unicità di un luogo ed esprimono il profondo legame con le specificità di un sito, in modo che la nuova architettura possa relazionarsi con l’essenza originale del luogo.
A volte ci sembra che la nostra ricerca prenda spunto da un’attenzione continua, ossessiva, persino inconscia, per le immagini e gli insegnamenti che hanno segnato i nostri anni formativi, quando abbiamo scoperto che oggetti semplici e già presenti consentono ad alcune architetture di essere appartenenti e al tempo stesso estranee a un paesaggio. Ci ha sempre affascinato quella scala che è arrivata su un’isola da un altro luogo, aprendo nuovi orizzonti che, pur in evoluzione, rimangono sempre gli stessi.
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