Il testo seguente, diviso in quattro punti, è una versione rielaborata e aggiornata dei principi fondamentali che ci hanno accompagnato nella nostra carriera e che sono legati da un fil rouge: il ruolo della memoria come fonte generatrice dei nostri progetti.
L’architettura comporta la trasformazione di un luogo esistente, intrecciandosi con la storia, la cultura, la topografia, il clima; ogni edificio lascia quindi sempre il proprio segno sull’ambiente, che ne viene alterato per sempre. Il processo progettuale è condizionato da immagini nascoste o dimenticate nella nostra memoria, le quali, in alcuni momenti, diventano improvvisamente vivide e chiare, segnali inaspettati dell’avvio di un nuovo progetto. Per questo motivo non possiamo interpretare la realtà senza pensare ai luoghi che abbiamo visitato e di cui abbiamo letto o sentito raccontare, alle fotografie o ai film che abbiamo visto.
Il significato profondo del concetto di “costruire la città” risiede nella capacità di creare spazi pubblici. Da un lato, l’attività dei cittadini è ciò che determina l’aspetto pubblico di un luogo; dall’altro, è responsabilità dell’architetto creare le giuste condizioni affinché questo avvenga, rispettando la memoria del passato e garantendo sostenibilità per il futuro. Quando i progetti cui abbiamo lavorato ci hanno offerto l’opportunità di trasformare significativamente il contesto urbano modificando l’utilizzo degli edifici esistenti, si è creata una interrelazione tra architettura, spazio pubblico e sviluppo urbano sostenibile, che è poi ragione e obiettivo ultimo della nostra architettura.
Non è dunque sensato concludere che ogni opera architettonica è, essenzialmente, una manifestazione della memoria?
I nostri progetti esistono già inconsciamente nella nostra memoria. Emergono all’improvviso indirizzati da associazioni di cui siamo appena consapevoli. Siamo legati a ricordi, immagini e impressioni che hanno avuto origine perlopiù durante la nostra infanzia e adolescenza, modificati da nuove esperienze in costante evoluzione. A un certo punto del processo progettuale, ritornano in mente un ricordo dimenticato, un’immagine, un suono o una frase, richiami che ci sospingono lungo un percorso preciso.
Progettiamo scegliendo attraverso il nostro subconscio ciò che ancora permane come sensazione di qualcosa che abbiamo percepito in un momento determinato: suoni, texture, odori e talvolta persino immagini sfocate che di colpo diventano nitide. Attingiamo involontariamente dalle nostre esperienze dirette – la forma migliore di educazione – e dall’archivio di informazioni relative ai nostri viaggi, conversazioni, libri, film e sogni.
Progettare è sinonimo di creare associazioni; non facciamo altro che cercare di stabilire connessioni immateriali tra esigenze, luoghi, forme, materiali e concetti che si palesano in un istante, in una visione fugace, e che cerchiamo fortemente di catturare e concretizzare.
L’architettura nasce sempre dalla combinazione di informazioni immagazzinate nella nostra memoria, riorganizzate ogni volta in modo diverso. Nel più fortunato dei casi, uniamo frammenti di quella memoria in modo suggestivo, a volte inaspettato; il nuovo progetto ci offre la soddisfazione della scoperta. Ma non è forse qualcosa che riaffiora e che esisteva prima di diventare architettura? Non è forse più un ricordo che un’innovazione?
Non si può mai scindere l’architettura dal significato che trasmette. Possiamo tentare di negare l’aspetto simbolico degli edifici fingendo che non rappresentino nulla oltre a loro stessi, che non debbano trasmettere altri significati. Ci possiamo concentrare soltanto sull’esperienza, evitando qualsiasi intento narrativo, ma anche in questo caso è inevitabile associare ciò che vediamo ad altri oggetti o immagini: ogni edificio ha l’attitudine di rappresentare qualcosa di altro da sé.
I progetti nascono da idee che non corrispondono in modo preciso a un’immagine specifica ma ne rammentano molte altre. Rimaniamo ancorati alle visioni che abbiamo avuto un tempo e che inevitabilmente riaffiorano nella nostra memoria. Il nostro mondo simbolico è talmente potente che, inconsciamente, modella tutto ciò che progettiamo. Durante questo processo torniamo costantemente ai simboli che credevamo di aver dimenticato. Il riaffiorare di forme, spazi, luci e suoni che avevamo percepito in un altro momento prevale sul nostro abituale approccio analitico ai temi progettuali.
Le metafore sono le immagini attraverso le quali comprendiamo ciò che ci circonda. Ogni progetto, anche quello nato dal concetto più astratto, ha origine da una metafora, consciamente o inconsciamente.
L’arte concettuale, la Land Art e i minimalisti hanno tentato di negarlo. Concepivano le loro opere come entità autonome e autoreferenziali, e si astenevano dall’attribuire loro un titolo, tutt’al più uno meramente descrittivo. Eppure quante opere intitolate Senza Titolo ci portano continuamente a ricostruire immagini basate sulle nostre esperienze? Per esempio scatole di alluminio come spazi architettonici che avevamo sognato, frammenti di testo come schemi funzionali, tubi al neon come singolari strutture urbane, segni sul terreno come tracce di antiche civiltà, strutture in acciaio prodotte in serie come composizioni musicali, ecc.
Ogni segno inevitabilmente rimanda ad altri, in una catena infinita di interpretazioni. Paul Klee dava volutamente titoli ai suoi quadri in modo da evitare associazioni dirette con le opere stesse; i suoi dipinti parlavano dell’universo dell’artista, che non è quello dello spettatore. Un’opera d’arte visiva, di letteratura, di musica o di architettura non è necessariamente ciò che il suo autore aveva concepito o intendeva trasmettere. Ogni progetto racconta una o più storie. L’architettura è di per sé narrativa, anche quando il suo progettista non ha mai inteso che lo fosse.
Gli interventi contemporanei su edifici esistenti sono sempre stati oggetto di controversie, probabilmente a causa del ruolo che l’architettura moderna ha sempre ricoperto sin dall’inizio in questo ambito. Gli architetti modernisti erano considerati autori consapevoli delle opere architettoniche, arbitri di un processo progettuale guidato dalla loro volontà. Essere l’unico autore di un’opera artistica e intellettuale era incompatibile con le modifiche successive a un progetto concepito precedentemente da qualcun altro, così come farebbe discutere l’intervento di un artista sull’opera creata da un altro nel campo musicale, delle arti visive, della letteratura o del cinema. L’idea di tabula rasa, legata al concetto di un progetto creato dal nulla, considerava i monumenti storici esempi isolati e vedeva le tracce di opere ereditate dal passato come semplici strutture destinate a essere sostituite.
Questo ha comportato che gli ampliamenti o le trasformazioni di edifici esistenti – come la Maison de Verre di Pierre Chareau a Parigi o il municipio di Göteborg di Gunnar Asplund – fossero rare eccezioni nei primi decenni del XX secolo. Col tempo, tuttavia, sono cambiati a tal riguardo i criteri e la sensibilità; nella seconda metà del secolo, si sono visti esempi di trasformazioni di edifici esistenti in cui l’arte di maestri come Carlo Scarpa o Franco Albini in Italia ha aperto nuove strade. Da allora sono emerse varie opzioni, spesso estreme, che passano dalla riproduzione mimetica in edifici storici al canonico approccio moderno di affiancare il nuovo all’antico.
Entrambe le opzioni, seppur in apparenza antitetiche, fanno riferimento in realtà alla stessa concezione del linguaggio architettonico, che ha trasformato molti interventi contemporanei su edifici esistenti in un semplice gioco di analogie o paragoni, di storicismi o contrasti, rappresentati in forme falsamente empatiche o apertamente aggressive nei confronti dell’architettura originale.
Nei nostri interventi su edifici esistenti non assumiamo una posizione dogmatica: cerchiamo sempre di seguire un percorso moderato ed equilibrato tentando di comprendere il problema attraverso l’attività stessa di sviluppo e costruzione del progetto. Questo atteggiamento è in grado di rivelare il processo in cui siamo immersi, portandoci dall’interpretazione delle opere preesistenti alla creazione di qualcosa di nuovo.
In questo senso, si viene a creare una singolare illusione: l’edificio sembra svelare l’origine della sua stessa trasformazione e progettarlo significa quindi decifrarne i codici intrinsechi. Le strutture esistenti forniscono indizi imprevisti su come dovrebbero essere trasformate e noi dobbiamo semplicemente leggere queste istruzioni nascoste che ci suggeriscono come ampliarle, aprirle, modificarle o dividerle. Prima di restaurare, adattare o ampliare un edificio bisogna reinterpretare le intenzioni del progettista originale, leggere l’architettura come un palinsesto, un insieme di più testi coesistenti in cui rimangono percepibili le tracce di un’iscrizione precedente, talvolta appena leggibile. Come un libro che narra una storia all’interno di un’altra, continuando così all’infinito, la trasformazione di un’opera architettonica esistente ricorda l’inserimento di un nuovo capitolo in un testo che, per sua natura, rimane sempre incompiuto. Ogni nostra nuova azione è la continuazione di una lunga serie di decisioni prese in precedenza e può diventare fonte di trasformazioni future. Spesso concepiamo spazi che l’autore originale non avrebbe mai immaginato e, al contempo, incorporiamo concetti nel nostro design in una storia infinita che collega lo spazio contemporaneo al passato storico. In queste circostanze, il tempo agisce come elemento temporale e come realtà storica, favorendo un dialogo tra presente e passato, in cui ogni decisione acquisisce un significato non solo spaziale e simbolico, ma anche costruttivo e concreto.
Seguendo questa logica, l’architettura è «un passato divenuto spazio», come la definì Walter Benjamin.
I progetti per noi più interessanti, e forse i più significativi, sono quelli che sembrano essere nati dal tentativo di correlare anomalie e associazioni di fatti casuali e arbitrari che sono sotto i nostri occhi e che hanno bisogno solo di un’idea per essere espressi. Tuttavia, dal momento che l’arbitrarietà difficilmente è compatibile con la coerenza richiesta dalla pratica architettonica, siamo costretti a stabilire alcune regole – che a volte possono essere anch’esse arbitrarie – e a lavorare entro limiti esistenti o autoimposti, come in un puzzle dove i pezzi, diversi tra loro, compongono infine un’immagine intelligibile. Questa interpretazione del progetto come mosaico, quale composizione di frammenti per formare un insieme unitario, mette in discussione l’esistenza di un punto di partenza consapevole, di un momento originale e unico. D’altra parte, riconosce anche che l’elemento chiave dell’opera architettonica risiede paradossalmente nei legami tra eventi non correlati. La cornice che contiene un quadro all’interno di un altro, e così via, l’immagine che Georges Perec collegava all’idea che «ogni opera è lo specchio di un’altra», suggerisce un’architettura concepita come un meccanismo combinatorio, un gioco di molteplici riflessi, in cui il nostro lavoro acquista significato solo se visto nel suo insieme.
Questo limite dello specchio trova il suo opposto nella cornice della finestra, che dirige volontariamente la nostra attenzione verso un punto specifico e ci distrae dal resto, indirizzando la testa verso ciò che determinerà inevitabilmente il nostro modo di interpretare un luogo, un paesaggio, una città. Da quel momento in poi, il processo si sviluppa attraverso una serie di associazioni, un sistema di relazioni in cui ogni combinazione obbedisce a regole specifiche.
Molti dei nostri progetti sono stati concepiti partendo da immagini e ricordi immagazzinati in precedenza nella nostra memoria, forse inconsapevolmente, da input ricevuti in circostanze non prevedibili: visitando un sito archeologico remoto, guardando con attenzione un’opera d’arte, provando a comprendere la struttura alla base di un testo letterario, decifrando le modalità costruttive dei tetti delle città storiche, tracciando la sequenza degli spazi in un edificio antico, analizzando le forme geometriche nascoste negli ornamenti islamici o semplicemente provando a cogliere le caratteristiche spaziali, luminose e tattili che possono essere sperimentate solo attraverso i sensi.
La finestra e lo specchio sono metafore che George Steiner ha collegato alla percezione del mondo esterno (oggettivo) e ai pensieri sul mondo interno (soggettivo). Oltre a essere curiosamente fatte con lo stesso materiale, vetro trasparente o riflettente, diventano per noi una rappresentazione della limitazione e dell’analisi combinatoria, concetti architettonici che riflettono la specificità e la molteplicità alla base di ogni progetto. Partiamo da punti a volte casuali: nascosti nello specchio della nostra mente o percepiti attraverso la finestra che inquadra il nostro ambiente. Ci limitiamo a stabilire connessioni e a creare collegamenti derivati da interpretazioni di problemi specifici, a cui ci affidiamo per comprendere le strutture urbane che definiscono un luogo, le leggi che governano un paesaggio, le motivazioni costruttive e spaziali dietro a un edificio storico, lo studio dei materiali di un’installazione temporanea o la soluzione logica a un’esigenza funzionale.
Le nostre opere sono state concepite in modo indipendente, in momenti diversi. Sono il risultato di condizioni, luoghi e programmi variabili: in un primo momento, indubbiamente, si presta più attenzione a ciò che le distingue anziché a ciò che le potrebbe unire. Soltanto una volta messe assieme, come pezzi di un puzzle immaginario, sembrano rivelare ciò che inconsapevolmente le unisce: processi frammentari che suggeriscono ordini forse apparenti, ma non irreali. Eppure, proprio perché l’architettura è sempre il risultato di un’interpretazione di circostanze diverse e apparentemente non correlate che finiscono per assomigliarsi, i progetti sono un riflesso l’uno dell’altro, come un risultato imprevisto di una sala degli specchi senza fine.
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