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Alla ricerca di un equilibrio tra natura e cultura

Dorte Mandrup A/S

Alla ricerca di un equilibrio tra natura e cultura
Scritto da Dorte Mandrup -

Dalla Casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright nella foresta dove scorre il ruscello Bear Run al museo della Miniera di Zinco Allmannajuvet su un terreno accidentato lungo una strada provinciale norvegese, le architetture costruite in ambienti naturali rappresentano l’ideale sia di una interrelazione tra cultura e natura, sia di una ricerca di equilibrio tra l’intervento dell’uomo e la salvaguardia del paesaggio circostante. La questione della relazione tra cultura e natura è un terreno di scontro ideologico costante tra conservatorismo, distopia e speranza. Ci troviamo oggi nel cuore di una crisi ecologica, costretti ad affrontare costantemente le conseguenze degli interventi umani sull’ambiente, una nuova epoca geologica chiamata Antropocene, dominata dal determinante impatto dell’uomo sugli ecosistemi del pianeta. Ogni anno milioni di esseri umani, e non, sono costretti a cercare nuovi luoghi abitabili per effetto delle condizioni climatiche e dei fenomeni meteorologici sempre più estremi. In che modo questo contesto così mutevole può influenzare il nostro rapporto con la natura? Dobbiamo perseverare nella convinzione che la natura sia per definizione compromessa dalla presenza umana e che ne debba essere salvaguardata l’integrità? Oppure possiamo sperare in una forma di equilibrio, di sinergia, tra cultura e natura?

Museo della Miniera di Zinco Allmannajuvet lungo una strada provinciale norvegese a Sauda, Atelier Peter Zumthor & Partner, 2016 © Roger Ellingsen, courtesy Statens Vegvesen

Qualche tempo fa ho letto un’intervista all’artista francese Pierre Huyghe pubblicata prima dell’inaugurazione della sua mostra Offspring al Kunsten Museum of Modern Art di Aalborg, in Danimarca. Egli spiegava che attualmente noi viviamo in uno stato di crisi permanente e che dobbiamo cercare di vedere il mondo in modo completamente nuovo, riconoscendone il carattere vulnerabile e sfidando la nostra paura dell’ignoto: «Sogno uno stato della natura né romantico, né selvaggio. Il mondo non è più “puro” in senso biologico; lo abbiamo inquinato e riempito con tutti gli oggetti e i sistemi che le nostre menti inquiete, ansiose e separate ci hanno permesso di creare e da cui siamo dipendenti […]. La reattività automatica e inconscia è distruttiva, in quanto impulsiva e cieca. Ci impedisce di scoprire come vivere in modo più attuale, responsabile e attento».1 Nell’era dell’Antropocene sono proprio questi comportamenti a giocare un ruolo importante per realizzare un maggiore equilibrio tra uomo e natura. Posso sentirmi catturata emotivamente o sopraffatta dalla natura, al suo cospetto posso sentirmi persino insignificante; tuttavia non mi sono mai sentita estranea a essa. Per me il mondo naturale non è più separato dalle azioni dell’uomo. Non possiamo semplicemente distaccarci dalla natura. Invece di chiederci “se” natura e cultura possono coesistere, dovremmo concentrarci su “come” esse possano interagire tra loro in un modo più utile e meno dannoso.

Negli ultimi otto anni abbiamo progettato edifici in quattro siti dichiarati patrimonio dell’Unesco per la loro straordinaria bellezza e per il loro intrinseco valore. Mentre lavoravamo a ognuno di questi progetti ci appariva sempre più fondamentale la ricerca di un equilibrio tra il naturale e il costruito. Ci chiedevamo se fosse meglio non intervenire, oppure se l’architettura avrebbe potuto suscitare un interesse rinnovato e portare a una nuova consapevolezza. Lo storico americano William Cronon, nel suo saggio The Trouble with Wilderness; or, Getting Back to the Wrong Nature, scrive: «Se permettiamo a noi stessi di credere che la natura, per essere autentica, debba essere selvaggia, allora la nostra presenza al suo interno non può che causarne la distruzione. Dove c’è l’uomo, non c’è natura».2 Questa affermazione fa sorgere un dilemma: se riteniamo che natura e cultura siano due entità completamente disconnesse e che l’uomo rappresenti la distruzione dell’ambiente naturale, allora quest’ultimo non può sopravvivere finché sopravvive il genere umano; tuttavia, a meno che non si verifichi una catastrofe, è improbabile che ciò accada nel prossimo futuro. L’umanità rimarrà un’importante forza geologica per migliaia di anni e, citando nuovamente Cronon, porla in antitesi con la natura lascia «poca speranza di riuscire a immaginare un mondo dove l’umanità viva in modo etico, sostenibile e rispettando la natura». Per guardare il mondo con occhi nuovi e in modo più responsabile dobbiamo essere capaci di colmare il costante divario tra natura e cultura. Se questo obiettivo viene portato avanti con buon senso e consapevolezza, credo che l’architettura possa giocare un ruolo importante nel contribuire alla creazione di un nuovo modello, di vita e di rapporto con l’ambiente che ci circonda.

Passeggiata nella nebbia sulla copertura del Kangiata Illorsua – Ilulissat Icefjord Centre. L’edificio si trova lungo uno dei percorsi escursionistici tra il paese di Ilulissat e il fiordo Ilulissat Icefjord, patrimonio Unesco © Adam Mørk courtesy Dorte Mandrup

Avendo noi esseri umani trasformato e manipolato il mondo per millenni, è difficile ora immaginarci un ambiente incontaminato dalla presenza umana. Non esiste più nulla di integro nel vero senso della parola e sono pochi i luoghi sul nostro pianeta in cui la natura sembra ancora prevalere. Uno di questi è la natura selvaggia della Groenlandia, le cui condizioni metereologiche, con temperature dai -7 ai -19 °C – tranne nelle brevi estati – e venti in media dai 19 ai 29 km/h, sono davvero estreme. Quasi l’80% del Paese è coperto dai ghiacci che si estendono per oltre 1,7 milioni di km2. Le distanze sono immense e non a misura d’uomo. Eppure questo clima così rigido è alla base dell’esistenza sia degli esseri umani sia della natura. Intorno al 2500 a.C. i Saqqaq emigrarono verso est attraversando il Canada e stabilirono l’insediamento di Sermermiut nel sud della Groenlandia. Sin da allora, gli indigeni hanno elaborato una cultura che consentisse loro di vivere a stretto contatto con il ghiaccio. Attualmente i 56.500 abitanti dell’isola occupano soltanto il 20% circa del territorio; vivono lungo la costa di ciò che offrono la terra e il mare; di caccia, pesca e raccolta. Nonostante lascino un’impronta ecologica minima, sono comunque gravemente colpiti dagli effetti del cambiamento climatico e, a causa dell’innalzamento delle temperature e della fusione della calotta glaciale, la maggior parte di loro rischia di perdere la propria fonte di sostentamento.

Ciò che sta avvenendo in Groenlandia ci mette al cospetto della nostra caducità e contemporaneamente della nostra superiorità sull’ambiente naturale; nonostante la sua forza, la natura è estremamente vulnerabile e anche una minima interferenza può avere conseguenze drammatiche. Sulla costa occidentale della Groenlandia, vicino alla città di Ilulissat, si trova uno dei ghiacciai più attivi al mondo, il Sermeq Kujalleq, che ogni anno riversa nella baia, lo Ilulissat Icefjord, oltre 46 km3 di ghiaccio. Negli ultimi 20 anni la velocità è aumentata esponenzialmente, causandone il ritiro. Da 250 anni l’area è oggetto di studio da parte di scienziati che seguono l’andamento del ghiacciaio per incrementare la nostra conoscenza della glaciologia e del cambiamento climatico e, nel 2004, l’Ilulissat Icefjord è entrato a far parte del patrimonio Unesco. Il raggiungimento di questo status importante ha comportato l’obbligo di raccontare la storia di questo ambiente naturale unico, di rendere manifesta l’importanza del ghiaccio e gli effetti del cambiamento climatico. Questo è l’obiettivo del Kangiata Illorsua – Ilulissat Icefjord Centre, inaugurato nel 2021. L’edificio si posa con leggerezza sul terreno al bordo del fiordo e funge da portale tra la civiltà e la natura selvaggia. Progettare nella regione artica richiede una particolare sensibilità e una solida competenza. Bisogna avere una conoscenza approfondita del freddo estremo, del vento, della neve, del ghiaccio e dell’importanza storica del luogo dal punto di vista geologico e antropologico. Volevamo creare un riparo e un punto di partenza per escursioni lungo il fiordo ma soprattutto un luogo che potesse servire a promuovere l’interazione sociale e la condivisione delle conoscenze. Volevamo inoltre offrire l’opportunità di acquisire una nuova prospettiva sulla cultura, sulla natura e sul cambiamento climatico in Groenlandia, realizzando un’architettura dove la comunità locale è chiamata a partecipare.

Lo studio Dorte Mandrup durante una passeggiata nella palude del Mare di Wadden © Dorte Mandrup courtesy Dorte Mandrup

Il Centro è stato progettato per coltivare una consapevolezza e una conoscenza più profonde. Tuttavia, alcuni ritengono che metta in evidenza l’insita tensione tra cultura e natura, e in discussione il nostro diritto di intervenire su quest’ultima. Di recente ci è stato chiesto da una rivista internazionale di architettura come possiamo giustificare la costruzione di un edificio a Ilulissat, sostenendo che non dovremmo progettare nulla che incoraggi le persone a recarsi in Groenlandia se vogliamo davvero risolvere le innumerevoli sfide della crisi climatica e continuare a proteggere la calotta glaciale. Anche se lo comprendo, questo punto di vista mi lascia alquanto perplessa, in quanto è una fonte di interrogativi, più che di risposte. Dovremmo dunque rimuovere completamente la possibilità di visitare la Groenlandia o qualsiasi altro luogo al di fuori delle aree più popolate, dove esistono le ultime tracce di una “vera natura selvaggia”? Impedire alle persone che vivono in queste regioni di trasferirsi o vietare loro di sviluppare e costruire proprie comunità? La convinzione che alcuni luoghi debbano essere lasciati intatti ritengo sia un ideale eurocentrico, spesso promosso da coloro che lasciano le impronte maggiori sul nostro pianeta. È una convinzione romantica pensare che la natura possa sopravvivere soltanto se noi non interveniamo su di essa, che sia possibile salvaguardare il patrimonio naturale isolandolo. Nel peggiore dei casi, questa mentalità ha privato gli abitanti di queste località delle loro antiche dimore nel nome della protezione della natura, anche se questo ha magari causato ulteriori danni ambientali.

Gli effetti del cambiamento climatico vanno oltre i confini locali; in nessun luogo l’ambiente naturale può sfuggire a ciò che avviene su scala globale. Per questo motivo non possiamo semplicemente isolare alcuni luoghi nel tentativo di proteggerli. Ilulissat conta meno di 5.000 abitanti e ciascuno di loro è fondamentale per la tutela della natura, proprio perché ne dipende. La soluzione per fermare lo scioglimento dei ghiacci o l’innalzamento del livello del mare non è quella di non visitare la Groenlandia – o di non costruire un centro culturale – bensì di cambiare le abitudini a casa nostra. Possiamo tuttavia contribuire a uno sviluppo positivo, concorrere a una maggiore sensibilizzazione e consapevolezza stimolando in tal modo un cambiamento, sia a livello globale sia locale. L’Artide è diventata simbolo del cambiamento climatico; è qui che i leader mondiali possono vedere con i propri occhi le devastanti conseguenze del riscaldamento globale. Vivere questa esperienza in prima persona può avere un effetto importante su consapevolezza e rispetto ambientale, nonchè generare un concreto slancio per un cambiamento. Il nostro Centro, oltre a offrire gli strumenti per meglio comprendere la cultura in relazione alla natura, è diventato un luogo d’incontro per la comunità e una piattaforma di ricerca e apprendimento.

Le terre umide giallo-marroni del Mare di Wadden, Danimarca, habitat vitale per 15 milioni di uccelli migratori © Wadden Sea Centre courtesy Dorte Mandrup

Voglio chiarire che non sono contro la protezione e la conservazione del nostro patrimonio naturale. Anzi, al contrario. Mi chiedo però se una netta separazione tra cultura e natura non ci impedisca di generare un vero cambiamento e di immaginare un futuro di speranza. Esiste un modo per raggiungere un equilibrio tra conservazione e intervento? Non soltanto nelle zone più remote come l’Artide ma anche nel nostro giardino. In Danimarca ad esempio, dove sono nata, gli ambienti naturali preservati sono molto rari per effetto dell’urbanizzazione, della coltivazione e densità della popolazione. Il parco nazionale del Mare di Wadden, lungo la costa occidentale, è il più grande del Paese ed è patrimonio Unesco. Fa parte del più ampio sistema intertidale ininterrotto di sabbia e fango del mondo e si estende lungo la costa danese, tedesca e olandese. Questo paesaggio, formatosi 12.000 anni fa alla fine dell’ultima era glaciale, è un ecosistema in continua evoluzione con una particolare e ricca diversità faunistica ed è considerato uno dei principali terreni di caccia per gli uccelli migratori. La biodiversità, a livello globale, dipende dal Mare di Wadden. L’area è caratterizzata dal costante innalzamento e abbassamento delle maree, da orizzonti infiniti e un vento implacabile che spira da occidente. Contro ogni aspettativa, gli esseri umani si sono stabiliti vicino alla costa sin dal Neolitico, circa 5.900-5.700 anni fa, imparando a costruire dighe per proteggere le loro abitazioni da mareggiate e inondazioni e prosciugando vaste aree per trasformarle in terreni fertili. Questo paesaggio vanta una storia unica, è un’area in continuo cambiamento che si è formata per effetto dell’impatto umano e geofisico e si caratterizza per il ricco patrimonio culturale e naturale secolare che non conosce uguali. Dimostra quanto sia complessa, impegnativa e preziosa la relazione tra uomo e natura, nonché quanto sia difficile separarli.

Il Wadden Sea Centre, alla pari dell’Ilulissat Icefjord Centre, è stato progettato per essere una vetrina sul paesaggio, per sensibilizzare e far conoscere la storia, l’ambiente e la cultura di queste terre paludose. Il Centro emerge dalla distesa di terre umide color giallo-marrone, facendo ricorso a materiali da costruzione locali e a tecniche tradizionali. Le canne che rivestono facciate e copertura sono state raccolte nei fiordi vicini e grazie a una attenta manutenzione del manto di canne, che comporta tagli e rimozioni, l’edificio sembra entrare nel ciclo naturale. Dall’inaugurazione nel 2017, il Centro ha contribuito allo sviluppo sostenibile di questa zona rurale e periferica sulla costa occidentale danese, creando nuovi posti di lavoro e opportunità per la comunità locale. Ha contribuito, inoltre, a sviluppare un maggiore apprezzamento nei confronti del nostro patrimonio naturale collettivo e a sperimentare in prima persona la relazione tra uomo e natura. Oggi rappresenta un modello di sviluppo del turismo sostenibile per l’intera costa europea del Mare di Wadden, con l’obiettivo di raggiungere un equilibrio tra preservazione e intervento.

La facciata e la copertura del Wadden Sea Centre sono rivestite da canne provenienti dai fiordi vicini © Adam Mørk courtesy Dorte Mandrup

Spesso ciò che ci spinge a costruire negli ambienti naturali è il desiderio di stabilire una interrelazione tra uomo e natura. Nella cornice paesaggistica del Mare di Wadden e a Ilulissat si tratta soprattutto di capire come dare nuova importanza a una tipologia già di per sé spettacolare, comprendere l’equilibrio tra cultura e natura, tra passato e presente, e trovare altri modi per entrare in contatto con l’ambiente, potenziandolo e al tempo stesso proteggendolo. È molto arduo apprezzare la natura, imparare da essa e crescerci insieme in armonia se non pensiamo di farne parte, guardandola solo dall’esterno. L’antropologo francese Philippe Descola, nel suo autorevole libro Oltre natura e cultura,3 afferma che il dualismo natura-cultura è un fenomeno molto recente che deriva principalmente da una visione occidentale del mondo, dove ambiente naturale e società umane rappresentano due poli opposti. Potrebbe essere anche questo che ci induce a considerare alcuni paesaggi naturali più puri di altri. Perché, in fondo, cos’è la natura? Solo quella selvaggia? Oppure lo sono anche gli argini o i giardini? Vivere ammassati nelle città ci impedisce davvero di trovare un modo di vivere e agire più responsabile? Siamo troppo distanti da ciò che pensiamo faccia parte della natura per comprenderla veramente? Invece di considerarla un qualcosa “altro da noi”, un mondo a sé, separato dalla cultura, dovremmo pensare a superare questi confini per renderci conto, persino nelle nostre città affollate, di quanto queste due realtà siano inestricabilmente legate. Ora, dopo aver letto questo testo, vi starete forse chiedendo quale sia la mia opinione. Non voglio tuttavia cercare di dare risposte ma avviare e promuovere un dibattito sulla nostra percezione della natura nella speranza che porti a una nuova visione, né romantica, né radicale, né distopica. Sento che sulla questione ambientale le nostre idee divergono ed è quindi un problema da affrontare. Accettare la contrapposizione tra natura e cultura, polarizzando questa dicotomia, rende estremamente difficile trovare un nuovo percorso, una via che ci permetta di far parte del mondo senza degradarlo ulteriormente, anzi, forse, persino di proteggerlo ripristinandone gli ecosistemi.

 

1 Trine Rytter Andersen, intervista con Pierre Huyghe

2 William Cronon, The Trouble with Wilderness; or, Getting Back to the Wrong Nature, in Uncommon Ground: Rethinking the Human Place in Nature, a cura di William Cronon (New York: W. W. Norton & Co., 1995)

3 Philippe Descola, Beyond Nature and Culture (Oltre natura e cultura), (Chicago: The University of Chicago Press, 2014)

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