Concepire un luogo sacro ascrive ogni percezione dello spazio alla dimensione dell’ignoto, dimensione la cui evocazione è demandata agli elementi della composizione architettonica, intesi come medium tra il tangibile, fisicamente avvertito, e l’intangibile. Luce e struttura, nel loro rapporto inscindibile secondo la lezione kahniana, sono gli strumenti chiave, per gli architetti Stan e Jess Field, nella definizione del processo progettuale all’interno di questa cornice.
Nella Sinagoga Kol Emeth lo spazio prende forma attraverso l’articolazione di questi due elementi con l’obiettivo di plasmare l’esperienza spirituale in architettura.
Lo sviluppo orizzontale dell’edificio principale permette l’alternanza di spazi chiusi e aperti costituiti dal santuario, dalla corte e dai luoghi per la socialità. Gli spazi vengono filtrati da ampie porte vetrate e tenuti insieme sia da un unico gesto architettonico, definito dal soffitto ondulato che filtra la luce naturale e crea dinamicità attraverso il movimento dei raggi del sole, sia dal ritmo costante dei dodici elementi verticali che sorreggono l’intera copertura. La sinuosità della struttura, così come percepita dall’interno, richiama la forma di una chuppah, il baldacchino nuziale della tradizione ebraica, e nello spazio dedicato al santuario gioca un ruolo cruciale: la compressione dello spazio in prossimità dell’arrivo al bimah crea una forte connessione tra la dimensione terrena del focolare e dell’ultraterreno e custodisce l’intimità e la sacralità della loro unione. Attorno al pulpito si dispongono in modo concentrico le sedute per i fedeli. La forte assialità che attraversa l’intero spazio, modellato dall’andamento del soffitto in un gioco dinamico di luci e ombre, trova il suo punto di fuga nel luogo che custodisce la Torah:...
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