«Immaginate che un architetto osservi le sottonature di una città: una nuvola di fumo, una pozzanghera, un cumulo di detriti. Potrebbe pensare che queste cose siano frutto di una mala gestione, di un abbandono o di una catastrofe[…]»
David Gissen – Subnature: Architecture’s Other Environments (2009)
Il confine tra naturale e artificiale, che da secoli segna la separazione tra “selvatico” e “culturale”, sta diventando sempre più labile. Cosa è naturale nell’era dell’Antropocene? E cosa è artificiale? Dato che nell’Antropocene è l’essere umano con le sue attività ad esercitare l’influenza dominante sul clima e sull’ambiente, l’habitat naturale – o la natura selvaggia – è diventato sempre più raro, sostituito progressivamente dai paesaggi artificiali. L’Antropocene stesso ha un impatto sempre più devastante sull’ecosistema terrestre. La lotta del genere umano per governare i sistemi andati fuori controllo, come le specie in via di estinzione e gli effetti catastrofici che minacciano la nostra sicurezza, ha scardinato il nostro concetto di “casa”.
Nel discorso di accettazione del Premio Pritzker nel 1980, Luis Barragán descrisse quello che la “natura selvaggia” poteva ancora offrire: «All’improvviso, sono giunto con mio grande stupore in piccole valli verdi nascoste, che i pastori chiamano “gioielli”, circondate e racchiuse dalle più fantastiche e capricciose formazioni plasmate nella roccia densa e fusa dalla potenza dei venti preistorici. Scoprendo questi gioielli inaspettati ho provato una sensazione simile a quando, dopo aver percorso un corridoio stretto e buio nell’Alhambra, mi sono ritrovato immerso nella quiete di un luogo remoto e sereno, il “Patio dei mirti”, un angolo nascosto di quell’antico palazzo. Non so come, ho avuto la sensazione che racchiudesse ciò che un giardino perfetto, indipendentemente dalle sue dimensioni, dovrebbe racchiudere: nient’altro che l’universo intero». Questa bellezza intatta, idilliaca, è oggi sempre più rara. Quasi metà della popolazione statunitense – circa 150 milioni – vive in zone con una qualità dell’aria sotto gli standard federali. Automobili e camion contribuiscono in gran parte all’inquinamento producendo ozono, particolato e altre emissioni che causano smog. Il particolato stesso è responsabile di circa 30.000 morti premature ogni anno. Nel 2013 il settore dei trasporti ha causato oltre la metà delle emissioni di monossido di carbonio e di ossidi di azoto, e circa un quarto delle emissioni di idrocarburi.1 Secondo il report più recente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a causa dell’inquinamento atmosferico ogni giorno muoiono 8 milioni di persone in tutto il mondo.
Una conclusione scioccante, ma forse il fatto non va considerato solo per i suoi lati negativi, come suggerisce David Gissen, che in Subnatures: Architecture’s Other Environments propone di accettare più favorevolmente elementi naturali come erbacce, fumo, fango, detriti: «forse questo ipotetico architetto considera queste strane forme naturali un materiale endemico nell’architettura e nelle città, piuttosto che un’aberrazione che va raccolta, rimossa o scartata».2
Al contrario, egli suggerisce che le costruzioni incorporino questi elementi naturali classificati come impropri piuttosto che trattare solo “elementi appropriati” che semplicemente producono più strutture orientate tecnologicamente.
Va anche detto che i progressi tecnologici dell’Antropocene hanno forzato e accelerato il ritmo delle innovazioni in architettura. In questo testo analizzeremo queste due realtà, di rimozione e riutilizzo, apparentemente antitetiche. Troveremo nel prossimo futuro il modo di collegarle creando oggetti insoliti e nuovi elementi naturali sintetici ibridi, in una relazione simbiotica e di reciprocità da cui elementi organici e inorganici possano trarre beneficio?
La Stratigraphy Commission of the Geological Society di Londra ha stimato come data d’inizio dell’Antropocene il 1780, quando è stata inventata la macchina a vapore. In origine impiegata per i lavori in miniera, già nel 1800 veniva sfruttata per far viaggiare navi e treni, dando inizio al trasporto di massa come lo conosciamo oggi. Le locomotive a vapore sono state gradualmente sostituite da macchine con motori elettrici e diesel, fino alla loro completa conversione negli ultimi anni Trenta, segnando l’inizio dell’esaurimento dei combustibili fossili, dell’inquinamento massiccio e del cambiamento climatico.
Gli Stati Uniti, a lungo considerati il Paese più inquinante del mondo in termini di biossido di carbonio e altri gas serra, secondo il Global Carbon Project del 2020 sono stati superati dalla Cina. Le conseguenze dell’inquinamento hanno costi esorbitanti: alcuni economisti e scienziati ambientali hanno calcolato che il cambiamento climatico potrebbe costare agli Stati Uniti l’equivalente di quasi il 4% del PIL all’anno entro il 2100. Questa però è una stima per difetto, poiché esclude costi correlati come i danni dovuti a siccità, inondazioni e migrazioni climatiche. I danni causati negli USA dalle inondazioni ammontano oggi a oltre 32 miliardi di dollari all’anno; dal 2000 sono costati ai contribuenti statunitensi più di 850 miliardi di dollari e sono responsabili di due terzi dei costi di tutti i disastri naturali.
L’Antropocene ha però una sua strana bellezza; si verificano effetti collaterali inaspettati e si creano relazioni simbiotiche alternative. È stato appurato che alcuni eventi, come il terremoto del 2011 nella prefettura di Fukushima, in Giappone, che ha provocato gravissimi danni ai reattori della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, hanno generato nuove forme e/o mutazioni di piante. D’improvviso i campi erano cosparsi di fiori dalle forme contorte, spesso allungate, e di dimensioni raddoppiate.
Questo fenomeno si può leggere in modi diversi. Mentre secondo la maggior parte dei biologi l’evoluzione procede in generale con un ritmo lento e regolare, altri studiosi, pur accettando in linea di massima questa lettura, sostengono l’ipotesi di un mutamento radicale occasionale in grado di stravolgere la norma. Un’altra lettura, più drastica e significativa, è stata avanzata dal genetista Richard Goldschmidt. Egli mette queste nuove forme evolutive di “mutazioni radicali”, che chiama Hopeful Monsters ovvero “mostri pieni di speranza”,3 in relazione a una teoria dell’evoluzione: queste piante che in base alla biologia evolutiva mutavano gradualmente nel tempo, improvvisamente si sono sviluppate in modo anomalo, subendo una mutazione spontanea dell’apice vegetativo (fenomeno di fascinazione) chiamata crestazione.
Questo raro sviluppo anomalo avviene nelle piante vascolari, il cui meristema apicale, anziché crescere conico o cilindrico, si appiattisce assumendo un aspetto di “cresta”. Talvolta questo fenomeno di fascinazione provoca l’aumento di peso e di volume di parti della pianta e dei fiori e non dipende né dalla posizione geografica né dalle condizioni climatiche o ambientali. Ne sono colpite in egual misura tutte le piante vascolari, ma le famiglie delle rose, delle leguminose, dei girasoli, dei tarassachi, delle bocche di leone e dei cactus sono particolarmente sensibili a questo fenomeno. Goldschmidt ritiene che queste specie mutanti, i suoi “mostri pieni di speranza”, possano essere davvero importanti nel processo di adattamento e di creazione di nuove specie. È importante sottolineare che per lui queste specie mutanti sono la nuova normalità, e che la sua ricerca si concentra sulle opportunità che possono fornire.
Se, come già detto, i progressi tecnologici dell’Antropocene hanno forzato e accelerato le innovazioni in campo architettonico, il fenomeno di fascinazione che si manifesta in queste piante “mutanti” potrebbe essere un indicatore di ciò che ci riserva il futuro? Questi “mostri pieni di speranza” potrebbero essere un modello utile e vantaggioso per il futuro dell’architettura se essa li incorporasse anziché continuare a cercare ossessivamente di riprodurre l’immagine di una “natura idilliaca”?
La storia ci insegna che le principali invenzioni tecnologiche – come l’avvento delle auto negli anni ’30, l’invenzione dei mass media negli anni ’60 e naturalmente dei computer e di internet negli anni ’90 – hanno accelerato il processo di trasformazione dell’architettura in edifici “super-tall” e delle città in megalopoli. E questo, naturalmente, ha avuto delle conseguenze. Gli architetti di oggi si trovano davanti a un enorme dilemma: le case e gli edifici progettati e costruiti secondo paradigmi tecno-centrici non sono più luoghi idilliaci di comfort e sicurezza, come intendevano essere, ma sono invece responsabili in gran parte dell’inquinamento globale annuale dato che il 40% delle emissioni di carbonio prodotte dall’uomo deriva dal settore edilizio e dai materiali da costruzione. Inoltre gli edifici sono spesso più inquinati all’interno che all’esterno. C’è bisogno quindi di una svolta a livello comportamentale e di un cambiamento drastico dei bisogni, nonché di una reinvenzione del concetto di architettura, del suo ruolo e della sua azione verso chi la abita e la città che la circonda.
Nella prossima fase dell’Antropocene, in cui cambiamento climatico e sfide ambientali minacciano l’esistenza nostra e di altre specie, l’architettura deve svolgere un ruolo proattivo nel sistema produttivo, trasformandosi in una sorta di volano capace di agire sul proprio ambiente. Deve imparare, adattarsi e ibridarsi. Anziché fare semplicemente crescere la vegetazione su strutture altrimenti inerti, gli edifici stessi dovranno modellarsi sulla “intelligenza” della natura mettendo in atto processi di ibridazione e relazioni simbiotiche con i sistemi naturali. Questi sistemi avranno la possibilità di adottare l’intelligenza delle piante e cominceranno a produrre habitat e ambienti autosufficienti e reciprocamente vantaggiosi. Gli edifici produttivi possono generare feedback positivi assorbendo per esempio carbonio ed emettendo ossigeno nell’ambiente, depurando e filtrando aria e acqua. Come scrive Gissen: «Riflettendo in modo attivo sul materiale estraneo al comune ambiente naturale, noi professionisti potremmo arrivare a un concetto di ambiente alternativo e risolutivo per l’architetto contemporaneo».4
Il nostro recente progetto per un eco-parco di 47 ha ad Hangzhou, Cina, (THE PLAN 137) contempla sette edifici tra cui due stadi con strutture mutevoli, e produce nature sintetiche. Il regolamento locale ci ha imposto di prevedere un 85% di verde ed è stata una sfida inserire i sette edifici previsti nel paesaggio. Soltanto i due stadi ibridi (sia arena sia anfiteatro) potevano essere visibili, gli altri cinque edifici dovevano mimetizzarsi nell’ambiente naturale attraverso pannellature in vetro funzionali all’apporto di luce e aria. La galleria commerciale è stata ripensata come un percorso in una valle verde con padiglioni vetrati, un “Valley Village Mall” che passa sotto la strada e un corso d’acqua, il quale divide il parco in due sezioni, riunendole poi in un unico spazio fluido.
Abbiamo applicato una strategia “zero-earth”, che riutilizza la terra scavata dalla zona umida e dalla “valle” per realizzare un paesaggio collinare che smorza i rumori della città e crea nel parco un ambiente tranquillo e sereno. I 64.160 m2 di tetti verdi contribuiscono alla lotta contro il cambiamento climatico, rilasciando 83.408 kg di O2 e assorbendo 114.846 kg di CO all’anno. Per progettare il parco ci siamo ispirati al concetto di “città-spugna”; abbiamo creato nuove zone umide e isole sul corso d’acqua, una pavimentazione porosa che potenzia il sistema idrologico ed è stata reintrodotta la vegetazione locale per contribuire al ripristino del bioma naturale. Il corso d’acqua incanalato si snoda attraverso il sito, passa sopra alla “valle” diventando parte integrante del complesso sistema delle zone umide, riducendo il deflusso delle acque meteoriche e compensando l’impatto delle nuove costruzioni. Questa superficie acquea è anche un percorso per kayak e un elemento scenografico su cui si affacciano le colline e la galleria commerciale. Le isole sul fiume generano una corrente più veloce, ossigenando e depurando l’acqua in modo naturale.
Lo stadio è stato concepito fondamentalmente come una struttura ibrida che dopo i Giochi Asiatici 2022 servirà anche da spazio per eventi o concerti per Hangzhou; questo impianto ha trasformato l’intero parco in un complesso urbano attivo e in continua evoluzione, anziché essere un oggetto statico e rappresentativo destinato a diventare obsoleto dopo le due settimane dei Giochi. L’intersezione di due doppie ellissi curve ha creato spazi sovrapposti di collegamento sia all’interno, sia tra interno ed esterno, dando vita a una struttura ibrida e dinamica: una serie di volumi flessibili che possono trasformarsi senza difficoltà in spazi per eventi dopo i Giochi. I due ellissoidi che si intersecano – i cosiddetti “dischi oscillanti” – sono sfalsati e questo ottimizza l’adattabilità, crea sovrapposizioni che connettono e disconnettono gli spazi, permettendo a questa natura ibrida di esprimersi al meglio. L’intersezione delle ellissi ha prodotto una forma oblunga, dinamica e asimmetrica, dove le sedute, disposte sia come in uno stadio sia ad anfiteatro, si adattano perfettamente alla loro doppia funzione.
Le due superfici curve dell’involucro presentano intersezioni e rigonfiamenti singolari, dove le superfici in scandole di ottone si intersecano con la griglia diagonale in acciaio e vetro. Queste protuberanze non evidenziano solo la struttura mutante di questo insolito oggetto architettonico ma ne accrescono l’identità e il carattere, rendendo evidente il suo ruolo di condensatore sociale del quartiere. La disposizione ibrida delle sedute rende possibile passare da un layout con visione centrale – adatto a eventi sportivi – a una configurazione asimmetrica con il palco laterale adatto invece alle performance. La doppia struttura interna curvilinea è rivestita in legno di bambù di provenienza locale con incassato un sistema di illuminazione a LED. Un pozzo luce centrale sulla copertura con un diffusore di luce sottostante crea un’illuminazione diurna indiretta e accosta forme generate dalla tecnologia a materiali rinnovabili ottenendo un ambiente caldo e accogliente.
L’edificio inoltre si relaziona con la natura circostante; l’acqua fresca proviene dalle zone umide ricostituite; un significativo risparmio energetico è stato raggiunto raffrescando soltanto le sedute degli spettatori mentre il pozzo luce centrale e le grandi finestre operabili poste in alto garantiscono la ventilazione naturale: l’architettura si è trasformata in una struttura che si comporta come un polmone che respira.
Con il termine “nature sintetiche” mi riferisco non solo all’associazione simbiotica e mutualistica di elementi naturali con le strutture edificate; vorrei anche sottolineare come queste nuove forme di vita (specie) possono trasformare gli edifici e l’ecologia dei materiali, possono ridurre drasticamente il loro impatto ambientale ridefinendo l’architettura come strumento efficace per la risoluzione di problemi anziché crearne di nuovi. Kent H. Redford e William M. Adams nel saggio Strange Natures si interrogano su cosa sia naturale e cosa artificiale nell’Antropocene e affermano che «gli strumenti della biologia sintetica offrono la risposta a questa domanda. Tecniche di ingegneria genetica stanno già apportando mutazioni nei campi dell’agricoltura e delle biotecnologie. Cosa succede se applichiamo la biologia sintetica anche nella conservazione, per monitorare le specie invasive, combattere le patologie della fauna selvatica o persino riportare in vita specie estinte?».5 Gli autori presentano un’analisi rivoluzionaria del coinvolgimento della biologia sintetica per la conservazione della biodiversità e la protezione delle specie naturali. Tuttavia, non si tratta soltanto di come preservare la natura ma anche della creazione di nuovi ibridi che instaurino rapporti simbiotici tra organismi viventi e materia inorganica, dove quest’ultima assume caratteristiche organiche, con un impatto più significativo sull’ambiente. Uno di questi nuovi ibridi sfrutta il micelio dei funghi – l’intreccio dei filamenti della radice – che, combinato con materiale organico come paglia o altri rifiuti agricoli e lasciato crescere di solito per due settimane, produce mattoni di funghi. Per bloccarne la crescita, viene cotto al forno o trattato per rimuovere la muffa e stabilizzarlo. Il micelio ha proprietà ideali, è a impatto zero, durevole e autorigenerante; il fungo crescendo forma una struttura stabile ed è, nel caso, capace di autoripararsi. Usare i funghi come materiale edile comporta un altro, enorme, vantaggio: riduce quel “famoso” 40% e oltre di emissioni di carbonio riconducibile alla produzione di materiali da costruzione.
Un’altra opzione, relativamente nuova, è la facciata composta da alghe e vetro, di cui parlano Maryam Talaei, Mohammadjavad Mahdavinejad e Rahman Azari in un articolo relativo a facciate bioreattive composte da microalghe: «Le alghe convertono la luce solare e l’anidride carbonica in ossigeno, calore e biomassa».Nel sistema di facciata vengono integrati dei bioreattori costituiti da microalghe che, attivando il processo di fotosintesi, creano un sistema che assorbe CO2: un’architettura ad alta prestazione la quale – anziché ricorrere a piante rampicanti – è in grado di garantire una schermatura e un isolamento dell’edificio in modo naturale e, contemporaneamente, produrre energia pulita.6 Inoltre, questa facciata bioreattiva produce luce, isola lo spazio e brilla nel buio.
La produttività simbiotica delle piante può essere accelerata attraverso un processo di mutazione. Oggi la contaminazione dell’aria interna è di 2-5 volte superiore a quella esterna; sostanze come detergenti e deodoranti chimici, a contatto con mobili rivestiti di colle, vernici e sostanze ignifughe, possono inquinare l’aria interna e contribuire al peggioramento della salute. In natura si trova la Echeveria, una pianta grassa appartenente alla specie delle succulente che ha la straordinaria proprietà di purificare l’aria, migliorandone la qualità e assorbendo le sostanze chimiche tossiche dei prodotti più comuni utilizzati per la casa. Questa pianta, che appartiene alla famiglia delle Crassulacee, secondo il Clean Air Study della NASA può assorbire attraverso la fotosintesi l’87% dei composti organici volatili e abbattere la quantità di anidride carbonica presente nell’aria. La capacità di assorbimento delle piante grasse è dovuta alla particolare struttura del loro tessuto che consente una diversità morfologica e filogenetica. Questo processo può essere accelerato attraverso una mutazione per aumentare ulteriormente la capacità di queste piante di purificare l’aria creando una specie con una capacità di assorbimento delle tossine potenziata. Queste nuove varietà, dette “cultivar”, hanno caratteristiche uniche, altamente performanti, che la NASA sta studiando per creare un sistema di filtraggio dell’aria a base vegetale nelle navicelle spaziali.
In un futuro prossimo potremo “coltivare” nuovi materiali per l’edilizia sempre più intelligenti, autorigeneranti, capaci di assorbire il carbonio e di rafforzare le strutture man mano che crescono, di sigillare gli spazi tra i componenti e creare superfici biomorfe continue. Nella città del futuro, dove gli edifici saranno progettati per crescere e ridurre l’impronta ecologica anziché aumentarla, l’uomo potrebbe avere la possibilità non solo di sopravvivere, ma di vivere in simbiosi con le nature sintetiche.
1. Cfr. www.ucsusa.org/resources/vehicles-air-pollution-human-health
2. David Gissen, Subnature: Architecture’s Other Environments (Princeton NJ, USA: Princeton Press, 2009), 210
3. Cfr. www.ahopefulmonster.blogspot.com/2013/11/thanks-for-finding-this-page-is-first.html
4. Gissen, Subnature, 210
5. Kent H. Redford and William M. Adams, Strange Natures – Conservation in the Era of Synthetic Biology (New Haven CT, USA: Yale University Press, 2021)
6. Cfr. www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S2352710219300841
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