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Una rassegna di stelle

Una rassegna di stelle
Scritto da Philip Jodidio -

Il primo utilizzo in lingua inglese del termine iconico (iconic) risale al 1656, con il significato di “relativo a, o con le caratteristiche di, un’icona”. La pratica giornalistica di definire iconico qualsiasi edificio o persona di rilevanza pubblica è in uso dagli ultimi anni del Novecento. Il concetto di architettura iconica potrebbe a posteriori applicarsi già a monumenti antichi, quali per esempio le cattedrali gotiche. Pensando a grandi immagini simboliche, poche stanno alla pari della basilica di San Pietro a Roma, completata nel 1626 e realizzata dai più grandi architetti del tempo, come Michelangelo e Bernini, che potremmo definire le “star” della loro epoca. Dal Rinascimento in poi, infatti, gli artisti e gli architetti escono dall’anonimato acquisendo importanza individuale; tuttavia è stato il XX secolo a conferire agli edifici-icona più simbolici – come il Chrysler Building realizzato a New York nel 1930 da William Van Alen – un valore aggiunto industriale ed economico. L’architettura iconica, come la intendiamo noi, è sempre esistita, ma la sua attribuzione ad architetti conosciuti e la sua relazione con fattori economici appartengono alla modernità.

Palais de Tokyo, Lacaton & Vassal, Parigi, Francia, 2014 © Philippe Ruault, courtesy del fotografo

Nel XX secolo gli architetti più influenti hanno iniziato ad autodefinirsi quali figure in grado non soltanto di costruire ma anche di rivoluzionare, da soli, l’architettura e le città; primi tra tutti Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, poi Oscar Niemeyer, che in collaborazione con Lucio Costa progettò Brasilia, la nuova “città bianca”. Sebbene la loro fama preceda di poco l’avvento dei mass media moderni, questi Maestri sono stati le star del loro tempo, in quanto hanno avuto l’audacia di reinventare l’architettura e di concepire i nuovi modi del vivere moderno. Wright con il cappello Fedora, il mantello e la sciarpa e Le Corbusier con papillon e occhiali tondi hanno adottato uno stile personale inconfondibile, servito d’esempio ad altri protagonisti dell’architettura più recenti, come Jean Nouvel, “l’uomo in nero”.

Il termine “archistar” ha iniziato a diffondersi dopo la realizzazione del Guggenheim di Bilbao progettato da Frank Gehry nel 1997. Esibendo la loro capacità di potenziare l’economia e di rivoluzionare l’aspetto di una città, gli architetti hanno acquisito sempre più visibilità fino a trasformarsi in demiurghi. In realtà, gli edifici più significativi che caratterizzano lo skyline delle principali città del mondo erano stati progettati da importanti architetti in anni precedenti: il Solomon R. Guggenheim Museum di Frank Lloyd Wright a New York nel 1959, la Sydney Opera House di Jørn Utzon nel 1973, il Centre Georges Pompidou di Piano & Rogers a Parigi nel 1977, avevano già reso noto al grande pubblico il nome dell’architetto e contribuito a rafforzare il tessuto culturale locale.

Sin dalla sua fondazione nel 1979, il Pritzker Architecture Prize ha consolidato e amplificato la fama di architetti quali Frank Gehry (1989), Tadao Ando (1995), Renzo Piano (1998), Norman Foster (1999), Rem Koolhaas (2000), Zaha Hadid (2004), Richard Rogers (2007) e Jean Nouvel (2008). Dal momento che queste celebrità sono in età avanzata o sono venute a mancare (Hadid e Rogers), è stata riconsiderata in maniera critica la validità di percepire gli architetti in quanto “star”; dopotutto, come dice Tina Turner in una sua canzone: «Non abbiamo più bisogno di eroi». Dopo la crisi economica del 2008 alcuni opinionisti hanno messo in dubbio la possibilità che una trasformazione urbana possa essere opera di un singolo architetto. Nell’ottobre 2010 Newsweek ha così annunciato la «morte della starchitecture», sostenendo che «puntare su architetture iconiche per promuovere una città, un’istituzione o uno sviluppo immobiliare è una pratica originata dal boom economico degli ultimi anni ’90 e terminata con la recessione del 2008. Con la ripresa economica dell’Occidente, l’architettura stravagante e appariscente ha lasciato il posto a una nuova estetica più sobria. Negli Stati Uniti e in Europa stanno cambiando i valori dell’architettura e a un design estremo e gratuito si è arrivati a preferire un edificio efficiente e funzionale».1

Fondazione Beyeler, RPBW Architects, Riehen, Basilea, Svizzera, 1997 © Michel Denancé

È doveroso precisare che dal 2008 questa «architettura stravagante e appariscente» ha continuato a proliferare, specialmente negli Emirati Arabi e in Cina; ma anche a Manhattan vengono realizzate pencil tower, i cosiddetti grattacieli “a matita” alti 400 metri e oltre. Benché essi aspirino a diventare edifici-icona, non sono in massima parte progettati da architetti vincitori del Pritzker Prize. Al contrario, la maggior parte di queste nuove torri dalle forme singolari è opera di grandi studi dall’impostazione aziendale. In Cina, per esempio, lo studio MAD Architects (Ma Yansong) continua a realizzare progetti dalle forme stravaganti, confermando che la “morte” dell’architettura iconica era stata annunciata prematuramente. L’altezza e la grandiosità di queste spettacolari strutture sono il risultato di scelte sia economiche sia estetiche.

La diffidenza nei confronti di architetti famosi da parte della stampa e dei social media a partire dal 2008 deriva da un pregiudizio, o da una dicotomia. Il cosiddetto “effetto Bilbao” induceva a ritenere che una città potesse essere rigenerata attraverso un’architettura “d’autore” – come l’opera monumentale rivestita in titanio di Gehry – la quale, da sola, potesse avere l’effetto di rilanciare l’economia urbana. Queste operazioni partivano di solito con l’affidamento del progetto a un architetto già famoso, con il proposito principale che questi realizzasse un edificio iconico. Quando gli effetti previsti non erano raggiunti e sui giornali venivano messi in luce i sovraccosti, la colpa ricadeva ovviamente su una sola persona: l’archistar. Pur ammettendo la correlazione tra eccentricità, archistar e rilancio economico alla base del successo di Bilbao, è doveroso specificare che il museo faceva già parte di un progetto urbanistico di risanamento, affidato a grandi nomi dell’architettura fra cui Norman Foster, Rafael Moneo e Santiago Calatrava.

 

Alcuni di questi architetti famosi hanno espresso il loro punto di vista sul proprio ruolo; nel 2017, vent’anni dopo l’inaugurazione del Guggenheim di Bilbao, Frank Gehry parlando dell’effetto Bilbao su The Guardian ha dichiarato: «Mi dispiace essere associato a questo fenomeno. Dovrei esserne punito. Ma non era certo questa la mia intenzione, è una totale assurdità… penso che la colpa sia di voi giornalisti». Gehry sostiene di aver «passato molto tempo a studiare la relazione dell’edificio con le strade del XIX secolo, e poi con il fiume, con la storia del fiume, con il mare, con le barche che entravano nel canale. E così è venuta fuori una barca».2 A sua volta Rem Koolhaas, altro vincitore del Pritzker Prize, ha rifiutato di riconoscersi in questa espressione: «Penso sia una definizione disonorevole per la maggior parte delle persone a cui viene attribuita. È un termine che per alcuni clienti ha un’importanza politica, in quanto si avvantaggiano della fama delle archistar. Spero che, vista l’attuale complessità progettuale, questo appellativo cada in disuso e sparisca».3

Paper Log House, Shigeru Ban Architects, Kobe, Giappone, 1995 © Takanobu Sakuma, courtesy Shigeru Ban Architects

Gehry, da un lato, attribuisce la responsabilità del famoso effetto Bilbao ai giornalisti, dall’altro Koolhaas definisce un’offesa il culto delle celebrità. La fama è senza dubbio uno strumento utile alla carriera degli architetti e i loro clienti mirano ad acquisire notorietà, di conseguenza le archistar e gli edifici iconici esisteranno sempre. Tuttavia le ragioni che stanno alla base della celebrazione degli architetti attualmente più famosi sono più profonde e meno centrate sull’immagine di quanto riportato dai media. Il seguente riepilogo dei vincitori del Pritzker Prize tuttora in vita vuole esserne una dimostrazione. Per quanto riguarda Gehry – che aveva appoggiato il desiderio di libertà dei suoi amici artisti di Los Angeles – la sua stessa residenza a Santa Monica (1978) esprimeva già il suo desiderio di allontanarsi dai canoni classici creando forme più libere e artistiche. È significativo che questa sua prima casa sia l’antitesi di una struttura iconica; è ingegnosa, originale e ricorre all’uso di materiali poveri come le recinzioni a catena e l’asfalto.

Per quanto riguarda Tadao Ando, il potenziale delle sue idee era già evidente in due dei suoi primi lavori: l’Azuma House (conosciuta anche con il nome di Sumiyoshi Row House) di 65 m2 realizzata a Osaka nel 1976 e la Chiesa della Luce (Church of the Light) del 1989 a Ibaraki, nell’area metropolitana di Osaka, di 113 m2. Questi due edifici a pianta rigorosamente rettangolare, definiti da pochi elementi essenziali, perfettamente inseriti nel contesto urbano e che presentano il cemento armato a vista come materiale nobile da costruzione, fungono da trait d’union tra architettura contemporanea, natura e tradizione.

Renzo Piano è diventato un architetto di fama nel 1977, grazie alla collaborazione con Richard Rogers per il Centre Pompidou a Parigi, un edificio visionario e audace che ha rivoluzionato il quartiere Beaubourg nel quale sorge. A una scala inferiore, la Fondazione Beyeler del 1997 a Riehen, Svizzera, si sviluppa su un leggero pendio vicino al confine con la Germania. Definita da muri in porfido e vetro, interamente illuminata da luce naturale zenitale e immersa nel verde con viste aperte sul paesaggio e su specchi d’acqua, la Fondazione è un capolavoro dell’architettura contemporanea, una combinazione unica di natura, luce e arte. A Riehen, periferia di Basilea, Renzo Piano, invece di stravolgere il concetto di museo, ricerca l’armonia e riscopre i valori di un’architettura senza tempo.

Quinta Monroy, Elemental, Iquique, Cile, 2004. Foto courtesy Elemental

Rem Koolhaas (OMA) ha raggiunto la fama grazie a progetti iconici come il grattacielo dalla forma tridimensionale sede della CCTV a Pechino (2012) o l’imponente complesso residenziale De Rotterdam (2013) realizzato nella città olandese; la sua visione originale dell’architettura contemporanea, però, era già stata anticipata nel saggio Delirious New York del 1978, in cui afferma che il repentino sviluppo di Manhattan iniziato nel 1850 ha prodotto uno «stile di vita rivoluzionario» che ha chiamato «la cultura della congestione». In questo libro, scritto prima di iniziare la sua carriera professionale, Koolhaas si pone come unico osservatore in grado di comprendere i processi di trasformazione urbana e dell’architettura – un ruolo che continua a svolgere.

Norman Foster – conosciuto grazie all’iconico 30 St Mary Axe (chiamato anche Gherkin) di Londra, 2004 – ha dato il suo contributo originale inserendo con abilità elementi moderni eleganti in un contesto antico: ne è un esempio il Carré d’Art a Nîmes, Francia, del 1993, che affianca in modo rigoroso il tempio romano del I secolo a. C., la Maison Carrée. La ridefinizione urbana di Trafalgar Square a Londra nel 2003, equilibrata e leggera, lontanissima dall’essere un segno iconico, rappresenta una delle ragioni per cui Foster è considerato un grande architetto: risulta infatti evidente la sua particolare sensibilità verso i cittadini e lo spirito del luogo.

Oltre a realizzare edifici stravaganti come il Centre Pompidou-Metz (2010), Shigeru Ban è noto per le sue strutture innovative umanitarie e di soccorso in caso di catastrofi naturali, come i rifugi dopo il grande terremoto di Kobe nella regione dello Hanshin del 1995. Nel conferirgli il Pritzker Prize nel 2014, la giuria ha dichiarato che l’architetto «incarna appieno lo spirito del Premio. Egli è un architetto eccezionale che per 20 anni ha risposto con creatività e progetti di elevata qualità a situazioni estreme provocate da calamità naturali devastanti. I suoi edifici offrono riparo, spazi per la comunità e luoghi spirituali per coloro che hanno subito enormi perdite e distruzioni».4

Il lavoro dell’architetto cileno Alejandro Aravena (vincitore nel 2016) e del suo studio Elemental si concentra su temi sociali e ambientali. Il progetto Quinta Monroy a Iquique, Cile, del 2003 (THE PLAN 020) ha fornito alloggio a 100 famiglie che prima occupavano abusivamente lo stesso sito di 5.000 m2. Con un budget di soli 7.500 dollari a unità, Aravena e il suo team sono riusciti a creare abitazioni espandibili in un ambiente moderno dedicate a persone che prima avevano vissuto ai margini della società. Nessun effetto Bilbao: un’architettura reale, pratica e inventiva.

Nel 2021 il Premio è stato assegnato alla coppia francese Lacaton & Vassal. Secondo la giuria, gli architetti «hanno dimostrato che è possibile perseguire senza nostalgia un impegno verso un’architettura rigenerativa che sia allo stesso tempo tecnologica, innovativa ed ecologicamente reattiva».5 Uno dei loro primi progetti più rilevanti è stato il recupero negli anni 1999-2014 del Palais de Tokyo a Parigi, costruito per l’Esposizione Universale del 1937. La struttura originale in cemento armato, inclusi gli ampi spazi del seminterrato, è stata lasciata a vista ed esposta al pubblico allo stato grezzo. Il punto di vista del duo Lacaton & Vassal riguardo alla riconversione di edifici esistenti e il loro approccio performante al recupero di un edificio obsoleto sono in aperto contrasto con i metodi perseguiti dalle archistar.

Silver Hut, Toyo Ito & Associates, Architects © Fujitsuka Mitsumasa

Toyo Ito – che ha ricevuto il Premio nel 2013 – ha costruito la sua casa Silver Hut nel 1984 a Tokyo. Senza finestre perimetrali, l’edificio si apre solo sulla corte interna, coperta da una struttura reticolare a volta in alluminio, separando i residenti dall’ambiente urbano circostante: una semplice casa di 139 m2 aperta verso il cielo.

Questa rapida rassegna dei vincitori del Pritzker Prize intende mettere in rilievo gli interventi pionieristici e innovativi, e non iconici, di architetti considerati le star della professione; sono stati veri innovatori e inventori e, anche se talvolta hanno progettato edifici un po’ stravaganti, è ad essi che possiamo guardare come a delle “star”, per il loro apporto e impegno fondamentale. Per ognuna di queste stelle che scompare dalla scena pubblica, ce n’è un’altra pronta a prendere il suo posto. L’architettura vive e respira grazie a queste personalità. L’architettura iconica, orientata al profitto, esiste tuttora, anche se in larga parte priva di originalità. Gli architetti di fama vengono talvolta incolpati di progettare edifici-icona senza significato, tuttavia, la maggior parte delle torri dalle forme tondeggianti o inclinate del nuovo mondo ricco, non porta la loro firma. L’effetto Bilbao è stato confutato dallo stesso Gehry, mentre Koolhaas afferma, giustamente, che il clamore che circonda le archistar è stato generato dalla stampa e da clienti ansiosi di visibilità. L’idea comune eccessivamente semplicistica dovrebbe venire sostituita dal convincimento che l’architettura contemporanea ha da tempo il senso del luogo e dedica grande attenzione all’ambiente. L’alternativa è concentrare meno attenzione su poche figure di architetti; tuttavia, è nella percezione dell’architetto in un contesto specifico da parte dei media (alla ricerca affannosa del prossimo effetto Bilbao) che si è creata questa disconnessione semiotica, che appare però al giorno d’oggi superata. Le stelle sono tornate sulla terra, e sono ancora tra noi.

 

Note:
1. Cathleen McGuigan, “The Death of Starchitecture” (La morte della starchitecture), Newsweek, 10 giugno 2010.
2. Rowan Moore, “The Bilbao Effect; How Frank Gehry’s Guggenheim Started a Global Craze” (L’Effetto Bilbao, in che modo il Guggenheim di Frank Gehry ha dato inizio a una mania globale), The Guardian, 1 ottobre 2017.
3. Intervento di Rem Koolhaas nella rubrica Talk Asia della CNN. David Basulto, “Rem Koolhaas on CNN, the End of the Star Architect?”, ArchDaily,
25 giugno 2009, consultato il 17 febbraio 2022, www.archdaily.com/26724/rem-koolhaas-on-cnn-the-end-of-the-star-architect.
4. “Jury Citation”, Pritzker Architecture Prize, consultato il 18 febbraio 2022, www.pritzkerprize.com/jury-citation-shigeru-ban.
5. “Anne Lacaton and Jean-Philippe Vassal”, Pritzker Architecture Prize, consultato il 18 febbraio 2022, www.pritzkerprize.com/laureates/anne-lacaton-and-jean-philippe-vassal.

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