«Casa è il punto da cui si parte», scrive T.S. Eliot in Quattro Quartetti e da lì, «il mondo diventa più estraneo, la trama più complicata».1
Il concetto di casa è alla base dell’esistenza. Ben prima che l’homo sapiens esplorasse le grotte alla ricerca di un luogo dove ripararsi, scaldarsi e conservare le provviste, altri esseri viventi avevano già imparato a nascondersi nelle fessure dei fondali marini o ad assicurare un intreccio di paglia e ramoscelli ai rami degli alberi più robusti. La nostra istintiva capacità nell’identificare un luogo in cui vivere, la nostra abilità nel modificarlo, adattarlo e preservarlo sono fondamentali per la sopravvivenza della nostra specie. Fino all’attuale Antropocene, almeno per tutto il tempo che ci è possibile monitorare, la nostra destrezza nell’accumulare una straordinaria quantità di risorse per realizzare le nostre case, modificando profondamente i processi geologici e biologici della terra primordiale, non ha precedenti, né riferimenti, ed è oggi del tutto fuori controllo.
L’evoluzione dell’abitazione, da rifugio primitivo all’industria edilizia residenziale statunitense da 500 miliardi di dollari, è complessa e non lineare. Vale la pena analizzare anche la trasformazione stessa da “casa” ad “abitazione”. Fino a non molto tempo fa, l’architettura della casa cambiava in maniera significativa a seconda della cultura, e queste differenze si riflettevano nel termine utilizzato per riferirsi a questo luogo. Gli italiani abitavano nella “casa”, una struttura che riunisce; i francesi nella maison, un luogo in cui stare; gli slavi nella dom, una costruzione realizzata in modo funzionale e infine i cinesi nella wu, un tetto sopra la testa. Ciascuna versione rappresentava ciò che avveniva all’interno e la relazione che intercorreva tra i suoi occupanti. Al giorno d’oggi la maggior parte degli abitanti del cosiddetto mondo “civilizzato” vive in una casa o in una sua variante più limitata, l’appartamento. Dal punto di vista etimologico, il termine inglese house deriva dall’inglese antico hus, un luogo che proteggeva le persone o le cose (grano o bestiame) dalle intemperie, dove le persone vivevano a stento. Nel XVII secolo i mercanti olandesi si trasferirono nella huis, elevandola a status symbol e accumulando nello spazio domestico grandi ricchezze e merci di valore. La huis diventò una vetrina di gusto e raffinatezza, pur mantenendo il suo ruolo originale di deposito dei propri averi.
In una tipica huis olandese, una scala stretta e spesso ripida funge da spina dorsale di un edificio multipiano. Su ciascun piano, le stanze da letto, la cucina, la sala da pranzo e i bagni sono indipendenti e le porte li isolano completamente dagli spazi adiacenti. L’architettura della huis, in quanto deposito, governava le persone alla stregua di oggetti inanimati, da smistare e riporre in posti sicuri ed era estranea alla confusione e all’insicurezza della quotidianità. Durante la rivoluzione industriale, con l’aumento della produttività e con le crescenti esigenze di vita e di lavoro, la moderna huis-house modificò la sua relativa passività in un luogo di quiete e di comodità. Di conseguenza il “deposito” si trasformò in “casa”.
La natura passiva della casa e la sua funzione primaria quale deposito erano inoltre in linea con i due fattori motori del capitalismo: la produzione e il consumo di massa. La sua configurazione si è sviluppata di conseguenza. Definiamo gran parte della nostra identità sempre più in relazione agli oggetti prodotti, desiderati e accumulati all’interno della nostra abitazione. Tuttavia, come ha dimostrato la crisi finanziaria del 2008, la solidità della casa era soltanto un’illusione. Più le residenze diventavano dei derivati da scambiare nei bucket shop, più milioni di proprietari venivano cacciati da un giorno all’altro dai loro comodi contenitori, perdendo il senso della propria casa.
All’interno delle pareti, le relazioni umane hanno comunque continuato a trasformarsi e a complicarsi. L’attuale vita domestica, resa instabile da una mobilità senza precedenti e inondata dalle nuove tecnologie, è permeata da contraddizioni, ambiguità e incertezze. Nelle metropoli come New York City, le persone che abitano da sole superano di molto coloro che vivono all’interno di un nucleo familiare. Nel tentativo di riempire quel vuoto, giganti high-tech come Amazon, Google e Apple competono ferocemente per
auto-imporsi all’interno delle case come partner personali e indispensabili. Dietro all’apparente affidabilità delle nuove tecnologie però, si cela il rischio insidioso di lasciare che la propria capacità di agire sia costantemente erosa, camuffata e sostituita in modo artificiale. La sfera domestica viene impacchettata, brandizzata, immessa sul mercato e venduta in maniera quasi pornografica. Aziende come Airbnb mettono in mostra i nostri spazi più intimi e Pinterest spaccia proposte inabitabili per realizzazioni create apposta per la generazione dei social media. Gli appartamenti urbani dotati di ogni servizio, come quelli di WeLive, offrono cucine condivise, bar che si trasformano in lobby e pensioni per animali domestici, imitando modelli di vita in condivisione e vendendo servizi in loco come cura per vincere la solitudine.
Molti problemi legati oggi alla nostra percezione di casa risalgono alla sua trasformazione in huis, al suo ruolo di deposito e magazzino di merce da scambiare. Questa concezione statica della casa non ci può dire molto su come dovremmo relazionarci l’uno con l’altro, o con l’ambiente che ci circonda. Essa accentua il nostro desiderio di possesso invece di favorire positivamente il nostro atteggiamento mentale; di certo non ci incoraggia a vivere in un modo originale, più collettivo o più flessibile. Ci sono diventate estranee le molteplici e diverse idee di casa. Come liberarci del concetto di “abitazione” per riappropriarci di quello di “casa”? Questo è il tema che il nostro studio, SO – IL, sta affrontando da diverso tempo. Grazie al nostro coinvolgimento nella mostra Home Futures al Design Museum di Londra nel 2019 curata da Eszter Steierhoffer e Justin McGuirk, abbiamo iniziato a comprendere concretamente come alcuni recenti esempi storici potrebbero aiutarci a concepire in modo diverso la casa del futuro.
«Come procedere alla necessaria riabilitazione della coscienza mistificata? Cominciando dal ritrarre la vita quotidiana del più prosaico degli uomini».
Henri Lefebvre, Norbert Guterman, La conscience mystifiée (1931)
L’architetto giapponese del dopoguerra Kazuo Shinohara sosteneva che «le case che costruiremo nel futuro potranno offrire sempre più una visione complessiva di cosa sia un essere umano». La casa vacanze progettata per il poeta Shuntarō Tanikawa nel 1974 è diventata un punto di riferimento per l’architettura giapponese, riportando l’attenzione verso la sua stessa storia e tradizione. Vicino alla “abitazione invernale” – una costruzione compatta ed efficiente, simile a una baita – Shinohara ha inventato una “abitazione estiva”, coprendo semplicemente il terreno inclinato in terra battuta che ha chiamato “lo spazio nudo”.2 In questo spazio, ampio e “inutile”, ha posizionato unicamente la scultura di un gallo, una scala a pioli che non porta da nessuna parte, una panchina singola e una suggestiva struttura in legno di sostegno alla copertura. Si potrebbe pensare che scegliendo il termine “nudo” l’architetto volesse evocare un effetto mistico. In realtà è il contrario; rifiutando gli aspetti funzionali e logici della casa moderna, Shinohara ha diretto il nostro sguardo verso la foresta circostante grazie alla precisa disposizione delle finestre, all’esperienza sensoriale offerta da materiali “veri” (legno e terra) e alla misura del corpo umano in relazione allo spazio. Shinohara contava sul fatto che attraverso questa ambientazione così curata sarebbe stato possibile ristabilire il senso di interconnessione con l’ambiente di cui godevano una volta le case tradizionali giapponesi. L’idea dell’architetto era quella di recuperare lo spirito della casa, che egli temeva fosse andato perduto nel periodo di ricostruzione del dopoguerra.
Mentre l’obiettivo di Shinohara era riconquistare il senso perduto della casa immersa nella natura, altri progettisti andavano alla ricerca di una relazione sensoriale più intima. L’artista lituano-americana Aleksandra Kasuba ha costruito un “Live-in-Environment” all’interno della propria brownstone house a New York City. L’intento di questo progetto realizzato tra il 1971 e il 1972 consisteva nell’«abolire l’angolo di 90 gradi e nell’introdurre una varietà di esperienze spaziali senza imitare la natura».3 Tra il soffitto e il pavimento è stato teso, seguendo linee fluide, un telo in nylon semitrasparente ed elastico, usato per i paracaduti dei militari, che crea un morbido susseguirsi di curve. L’artista ha ridisegnato la tipica pianta rettangolare della brownstone con fasci scultorei di luce naturale e strati di semitrasparenza conferendo allo spazio una profondità infinita. Invece di ricorrere ai soliti elementi d’arredo per assegnare le funzioni ai diversi spazi, Kasuba ha utilizzato specchi, suoni, profumi e oggetti fatti a uncinetto e in mohair per esprimere l’ampia possibilità di esperienze offerte in ogni stanza. Progettando in base alla sua sensitività, l’artista è riuscita a far risultare familiari caratteristiche spaziali completamente nuove.
Oltre a Kasuba, anche il designer italiano Ugo La Pietra si è posto il problema esistenziale del come e dove potremmo vivere. Attivista di un movimento anti-design, dagli anni ’60 in poi il suo slogan “Abitare è essere ovunque a casa propria” ha focalizzato la possibilità di appropriarsi della sfera pubblica come spazio domestico, grazie ad arredi improvvisati e all’occupazione spontanea del suolo pubblico. Oltre a radersi per strada guardandosi negli specchi dei negozi, La Pietra ha trasformato una barriera stradale in plastica in un divano e ha dormito in mezzo alla strada su un letto a cavalletto portatile. In queste situazioni create ad hoc, la casa non è più tra quattro pareti; anzi, può essere costruita come un dinamico “esercizio domestico” stabilito tra la città e l’individuo. Ripristinando questa relazione e promuovendo lo scambio e la negoziazione tra queste due entità, l’individuo isolato diventa nuovamente cosciente del suo innato desiderio di contatto con gli altri e può quindi sperimentare nuovi modi di connessione. Questi oggetti e istruzioni fai-da-te artigianali, rifiutano il concetto secondo cui l’architettura si limita a entità statiche e materiali, ampliandone il contesto fino a includere la sfera temporale e rituale.
Nell’attuale era dell’informazione, però, la relazione tra noi stessi e il nostro ambiente è molto più complessa. Non la si può più paragonare a una semplice dicotomia tra individuo e collettività; anzi, queste due entità si richiamano e interagiscono tra loro. Il progetto Pao I (1985) di Toyo Ito costituiva una proposta di abitazione per una “Tokyo Nomad Girl” – rappresentata in foto da una giovane Kazuo Seijima – ovvero una giovane donna cosmopolita, single e indipendente dal punto di vista economico. La struttura trasparente, simile a una cupola, non le offriva alcuna protezione dal sovraccarico sensoriale delle luci e degli schermi al neon di Tokyo; era una forma di vita “nuda”. I beni materiali della Nomad Girl sono pochi, ma hanno un’importanza simbolica. Questo spazio conteneva un appendiabiti, una postazione per il trucco e uno specchio. Anche solo truccandosi, nel riflesso dello specchio lei vede sia se stessa sia la città. Può vedere ed essere vista, mentre si trasforma in ciò che i cartelloni pubblicitari vogliono che sia. Il nome del progetto Pao deriva da una tenda usata dai nomadi della Mongolia che dipendono dal loro ambiente per sopravvivere; la Tokyo Nomad Girl si integra totalmente nel suo ambiente come parte del progetto di un nuovo mondo tecnologico.
«L’invenzione, bisogna ammetterlo umilmente, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos».
Mary Shelley, Frankenstein (introduzione all’edizione del 1831)
L’attuale decennio è iniziato con una pandemia e fa registrare le temperature medie globali più alte della nuova epoca geologica, l’Antropocene. Tra le innumerevoli crisi umanitarie che nascono da queste condizioni, la nostra specie si è trovata di fronte a una serie di sfide mai affrontate prima. Cosa può insegnarci questa situazione riguardo alle nostre case?
Al giorno d’oggi, negli Stati Uniti, l’industria edilizia residenziale che vale 500 miliardi di dollari costituisce circa il 35% dell’intero settore, pari a 1,36 bilioni di dollari. A causa del cambiamento climatico le case sono sempre più esposte ad allagamenti, incendi e tempeste; nel 2020 le condizioni meteorologiche estreme hanno provocato quasi 100 miliardi di dollari di danni assicurati e ulteriori 100 miliardi sono stati elargiti sotto forma di sussidi. Nell’arco di un solo anno il 40% del valore delle nuove costruzioni residenziali è andato perduto a seguito di disastri ambientali. Le nostre abitazioni, alla pari delle fessure dei fondali marini e dei nidi in cima agli alberi degli altri esseri viventi della Terra, sono diventate sempre più vulnerabili. Proprio per affrontare queste sfide, il nostro studio ha progettato una serie di prototipi alla ricerca di soluzioni residenziali e abitative che agiscano da ecosistemi attivi in grado di migliorare la qualità di vita urbana trasformando in realtà flessibili e funzionali situazioni statiche.
Il nostro progetto MINI Living – Breathe è una casa-padiglione sviluppata in verticale, dallo spazio contenuto, traslucida e rivestita da un leggero strato di rete in PVC che filtra l’aria. Il tessuto dell’involucro, prodotto in Giappone, decompone al sole gli agenti inquinanti e la polvere, auto-pulendosi e purificando l’aria. La nostra unità abitativa aggiuntiva Pebble House (Accessory Dwelling Unit - THE PLAN 132), sviluppata per la città di Los Angeles, è un progetto che studia le tecniche per un sistema di prefabbricazione facile e veloce; il risultato è un modello accessibile ed economico che soddisfa le esigenze abitative dovute alla rapida densificazione negli Stati Uniti. GreenCore è un progetto in corso di ricerca e sviluppo che valuta la possibilità di conservare un tessuto residenziale esistente e di recuperare l’energia incorporata in edifici decadenti tramite un nucleo energetico utilizzabile rapidamente. Il prototipo è una delle 18 case bifamiliari neo-georgiane a Nolan Park, su Governors Island (New York City) che presenta un sistema costruttivo in legno (balloon frame), con la copertura in tegole e un rivestimento in mattoni. Dopo il ritiro della guardia costiera dall’isola negli anni ’90, queste case sono rimaste vuote e abbandonate, prive di climatizzazione e senza acqua corrente. GreenCore ha dotato queste residenze storiche di nuovi sistemi di filtrazione dell’acqua, di impianti elettrici e di climatizzazione, migliorandone l’accessibilità. Oltre a utilizzare un complesso di tecnologie esistenti come la raccolta delle acque piovane, il filtraggio delle acque reflue, biodigestori, sistemi di riscaldamento e raffrescamento geotermico, energia solare e pareti verdi, il nucleo prefabbricato è concepito per essere installato facilmente e “concatenato” ad altre residenze. Questa soluzione consente a quartieri periferici, storici o ad alto grado di vulnerabilità ambientale di trasformarsi in vere e proprie isole di energia. Il nostro obiettivo è costruire entro il 2023 a Governors Island il progetto pilota su scala reale, dove potrà essere studiato, ripensato e migliorato. Nell’immediato, proporremo per Governors Island metodi di alimentazione e gestione alternativi alla connessione alla rete elettrica centrale; nel lungo termine, il progetto perfezionato potrebbe essere applicato a una serie rilevante di aree prese come casi di studio nella stessa zona ma non solo, offrendosi come alternativa agli enormi impianti centralizzati e trasformando la protesta Not in My Back Yard (Nimby) nella strategia Yes in My Back Yard (Yimby).
Lo scopo di progetti quali Breathe e GreenCore è liberare la casa dalle sue attuali modalità di consumo e dipendenza, trasformandola in un luogo di rigenerazione con l’adozione di nuove tecnologie. Questa trasformazione cruciale può avvenire a costi contenuti, offrendo esempi di resilienza, di capacità di azione e riducendo la nostra impronta ecologica collettiva. Per di più le realtà tecnologiche ed economiche del nostro mondo sono tutt’altro che uniformi e per questo siamo tenuti a comprendere il contesto sociale e fisico di ogni progetto, per indirizzarlo verso un futuro più ecologico ed equo. Con il progetto di social housing Las Américas a León, Messico (THE PLAN 131), abbiamo cercato di capire e soppesare tali particolari specifici. Ogni anno circa 45 milioni di viaggiatori internazionali visitano il Messico, più di un terzo della popolazione del Paese; nelle tiepide acque della Riviera Maya si bagnano gli yogi con i loro bellissimi vestiti e gli esploratori con leggeri abiti di cotone e dallo sguardo rapito vanno girovagando sulla terra precolombiana della Central Valley ricca di storia. Non mancano qui gli idealisti per i quali i viali alberati, i grandi parchi, i murales colorati e l’architettura civile di Città del Messico rappresentano la vera espressione di modernità.
Fino all’ultimo quarto del XX secolo, il Messico post-rivoluzionario sotto la guida del PRI (Partido Revolucionario Institucional) gestiva importanti istituzioni statali come l’Instituto Mexicano del Seguro Social (IMSS) e l’Instituto de Seguridad y Servicios Sociales de los Trabajadores del Estado (ISSSTE), le quali fornivano servizi sociali moderni e affidabili, dall’assistenza sanitaria alle pensioni, dalle strutture ricreative e culturali agli alloggi per i lavoratori, suscitando l’invidia degli idealisti socialisti che vivevano in paesi più capitalisti. La stretta collaborazione tra queste istituzioni è stata fondamentale nel proficuo percorso di transizione del Paese da una vita rurale all’urbanizzazione.
Nonostante le accuse di corruzione e dirigismo, questi programmi hanno in realtà permeato la coscienza collettiva del Paese con un’attenzione sentita per il benessere della comunità. Ne sono espressione progetti esemplari e indimenticabili quali l’Unidad Independencia. In questo ampio complesso che ospita quasi 10.000 residenti in più di 2.200 appartamenti,4 completato nel 1960 e gestito dall’IMSS (Instituto Mexicano del Seguro Social), gli architetti Alejandro Prieto Posada e José María Gutiérrez Trujillo hanno voluto far coesistere i principi della Ville Radieuse di Le Corbusier con le grandi sculture e i murales di ispirazione azteca. Il progetto prevedeva una superficie costruita del 23%, strade e parcheggi per un altro 10%, il resto era occupato da giardini rigogliosi, forse perché prima su questo terreno sorgeva la Hacienda Batán. Questo ranch con giardino di proprietà di Tatsugoro Matsumoto, il giardiniere giapponese emigrato nel 1896 in Messico che progettò i giardini del Castello di Chapultepec e introdusse nel Paese l’albero della jacaranda, ospitò durante la guerra del Pacifico migliaia di immigrati giapponesi provenienti dagli Stati Uniti.
Nel 1962, durante la terza visita di Stato di John F. Kennedy in America Latina, tra le tappe ufficiali era prevista anche l’Unidad Independencia. «Amigos», disse Kennedy durante il suo intervento in loco, «[…] ho visto in molti luoghi residenze sviluppate con gli aiuti del governo, ma in nessuno di questi ho visto fontane, statue, prati e alberi, fondamentali nel creare la sensazione di sentirsi a casa, al pari di una copertura».5
Sin dal modernismo, il tema degli alloggi sociali è una costante nel discorso architettonico. Esso è uno specchio fedele del tessuto sociale, ha funzione di critica dello status quo, mantiene però al contempo la capacità di immaginare, esplorare e stimolare una nuova narrazione della vita quotidiana. Questa tematica è stata tuttavia affrontata in modo riduttivo dal pensiero modernista, in quanto esso l’ha concepita spesso come singolo progetto anziché vederla come processo continuo di revisione di un sito con un retaggio molto specifico, fisico e sociale, dovuto a una lunga serie di interventi umani. I giardini di Matsumoto e l’apprezzamento di Kennedy hanno contribuito al successo di Unidad Independencia al pari dell’attenta valutazione della densità e dell’innovazione architettonica.
In Messico ci sono diversi esempi da cui prendere spunto per lo sviluppo di strategie e tattiche di revisione e modifica; per esempio i vari prototipi degli anni ’30, le utopie di comunità ipotizzate tra gli anni ’40 e ’60 e gli sviluppi abitativi più realistici e auto-costruiti degli anni ’70 che affiancavano, con maggiore o minore successo, l’operatività del governo a supporto degli interventi di manutenzione e cura attuati dai residenti. Questo spirito di reciprocità è andato scemando durante le crisi ricorrenti degli anni ’70 e ’80, con conseguente deregolamentazione e privatizzazione dell’edilizia residenziale; la situazione si è aggravata ulteriormente a causa della rapida urbanizzazione seguita al trattato NAFTA (Accordo nordamericano per il libero scambio) nel 1994.6 Una popolazione numerosa (oltre 120 milioni di abitanti), un incontrollato fenomeno di dispersione urbana e una scarsa cooperazione tra istituzioni federali e politici locali sembrano rendere irrealizzabili, al giorno d’oggi, sviluppi abitativi e urbani ben pianificati, impegnati nel sociale e attenti all’ambiente.
Quando l’Instituto Municipal de Vivienda de León (Imuvi) ci ha chiesto di progettare il prototipo di un complesso di alloggi di media densità vicino al centro di León, ci siamo imposti un approccio al progetto da giardinieri. Sapevamo che era fondamentale considerare le particolari condizioni climatiche del sito e l’ubicazione del terreno per determinare il successo del progetto. Con i suoi 1,8 milioni di abitanti, León è una delle aree del Messico in più rapida crescita, un processo dovuto in gran parte alla delocalizzazione nei primi anni del 2000 di una casa automobilistica in espansione dagli Stati Uniti e dal Giappone. Imuvi, ovvero la divisione municipale dell’Imss e controparte di Infonavit – l’organizzazione nazionale per l’edilizia residenziale pubblica che ha supportato la liberalizzazione degli alloggi popolari in Messico – punta a frenare, in accordo con la città, il fenomeno dello sprawl urbano causato dal mercato privato. I potenziali inquilini, accuratamente selezionati, lavorano nell’economia sommersa e non hanno i requisiti per ottenere mutui tradizionali avendo un reddito annuo inferiore ai 7.000 dollari. Il nostro prototipo doveva quindi poter competere con l’attuale modello economico estremamente basso di circa 35.000 dollari per unità. L’obiettivo era superare la riluttanza collettiva nei confronti di edifici per appartamenti di media densità e sviluppare un’architettura in grado di restituire dignità agli alloggi sociali. In quanto architetti, ci siamo chiesti in che modo avremmo potuto modificare l’ambiente all’interno di questo contesto.
Dal punto di vista tecnico bisognava innanzitutto stabilire la densità, ma questo non vuol dire soltanto contare quante persone o quante unità si possono inserire al massimo per metro quadrato. Occorreva poi valutare attentamente una serie di aspetti, come il collegamento alla rete dei trasporti, gli spazi aperti, i servizi sociali e commerciali e il mix dimensionale degli appartamenti.7 Las Américas è un progetto destinato a famiglie con bambini, data la sua vicinanza a infrastrutture sociali e opportunità di lavoro in zona. Per questo motivo abbiamo previsto unità più grandi, con due o tre camere da letto e un ampio spazio condiviso all’aperto. Dopo attenti studi sulla volumetria abbiamo sviluppato 56 unità; un intervento con una densità decisamente superiore rispetto ad altri sviluppi nella zona, ma che comprende propri spazi aperti, per evitare il sovraccarico eccessivo nel quartiere. Mezzi di trasporto di collegamento agli asili, alle scuole e agli ambulatori non erano immediatamente disponibili; pertanto abbiamo previsto sufficienti posti auto.
La manodopera e i costi di costruzione erano fattori altrettanto importanti da considerare in relazione alla scala, poiché anche lavoratori non esperti sono in grado di costruire edifici monopiano o a due piani, mentre edifici di medie o grandi dimensioni richiedono una maggiore competenza in campo architettonico, ingegneristico ed edilizio. Per sfruttare l’economia di scala, la facciata di Las Américas era stata concepita inizialmente come una serie di pannelli in cemento prefabbricato i quali, disposti secondo angolazioni diverse, avrebbero reso più dinamico e meno ripetitivo il prospetto, garantendo inoltre scorci diversi ai residenti. Tuttavia, dopo aver avuto informazioni più precise sulla manodopera locale disponibile abbiamo optato per l’utilizzo di mattoni in cemento realizzati su misura, sovrapponibili a mano senza bisogno di competenze particolari. In tal modo, nel DNA del progetto, abbiamo ridotto la necessità di ricorrere a esperti artigiani e a ingegneri esterni alla comunità, in quanto l’edificio multipiano è stato considerato come una serie di case monopiano sovrapposte costruite con materiali economici. In questo modo i soldi spesi nella costruzione di alloggi per i futuri residenti potrebbero tradursi in fonte di guadagno per quelli attuali, generando in questa modalità di sviluppo un’economia circolare.
Dal momento che un edificio di media altezza ricorre alle scale come sistema primario di circolazione verticale e che esse impongono un limite di altezza, era fondamentale analizzare il rapporto con il tessuto del sito. Avendo notato che nella zona prevalevano edifici bassi e presumendo che il progetto Las Américas avrebbe acquisito di default un’immagine istituzionale, abbiamo disposto la struttura lungo il perimetro del sito inserendo al centro due corti parzialmente coperte. Questa disposizione confinante con la strada ha consentito alla costruzione di adeguarsi al basso tessuto urbano e di affermare con forza la propria presenza. Le due corti al centro dell’edificio consentono a ogni unità di ricevere luce e aria abbondanti. Nonostante un budget limitato da rispettare, l’edificio non doveva presentare un’uniformità ripetitiva o un’eccessiva razionalità né mancare di qualità. Abbiamo quindi ideato un volume ad altezza variabile, da quattro a sei piani, che segue la forma di un nastro di Möbius, alle cui congiunzioni si distinguono chiaramente gli ingressi ai cortili. È stato possibile ottenere un effetto di luci e ombre scultoreo delle facciate senza ricorrere a costi aggiuntivi, grazie alla costruzione a blocchi di ogni piano, che ha consentito una disposizione alternata delle finestre garantendo a ogni unità viste diverse dell’esterno e ha conferito al complesso una gradevole espressione di qualità artigianale.
Anche se il progetto Las Américas è il risultato di una serie di fattori quali il contesto, le condizioni di lavoro e le fasce di utenti che potrebbe non essere applicabile a ogni progetto, queste condizioni tuttavia non sono così uniche; utilizzare strategie per incrementare la densità, come aggiungere spazi aperti e facilitare l’accesso alle infrastrutture, creare un rapporto ideale tra spazi privati e condivisi, distribuire le unità per sfruttare al meglio illuminazione e ventilazione naturali, sono scelte che possono ben rappresentare dei prototipi cui fare riferimento. Il risultato più importante da raggiungere con il progetto guida di Las Américas era dimostrare come, pur avendo un budget e una forza lavoro limitati, fosse possibile costruire alloggi sociali di qualità, che utilizzano le infrastrutture esistenti della città, incrementano l’uso del suolo, sono competitivi sul mercato e contribuiscono positivamente al tessuto architettonico e sociale di un quartiere.
Anziché ispirarsi alle sculture in pietra e ai graffiti degli Aztechi, i blocchi in calcestruzzo costruiti su misura per Las Américas intendono catturare l’intensa luce del sole messicano ed essere espressione del lavoro comunitario della manodopera artigianale. Invece di continuare nella tradizione di costruire giardini su un terreno fertile, abbiamo preferito ricorrere alla ricucitura del tessuto urbano esistente per vivacizzare ulteriormente la vita cittadina, conferendole una nuova condizione di stabilità. I residenti affrontano la quotidianità con serenità e dignità poiché arrivano a casa dopo una lunga giornata lavorativa attraversando spazi comuni protetti, scambiandosi saluti e informazioni utili con i vicini e vedendo i bambini giocare nei cortili; una volta entrati nei loro appartamenti possono aprire le numerose finestre e far entrare aria fresca nelle calde giornate estive, mantenendo comunque un certo grado di privacy. Il compito altissimo di intervenire su progetti di social housing degradati rigenerando la città attraverso il contenimento dell’espansione urbana incontrollata richiede uno sforzo prolungato e costante paragonabile al lavoro di un giardiniere instancabile. Anche se questo tipo di intervento non dovesse essere altrettanto affascinante quanto il progetto di un museo o redditizio come lo sviluppo di un resort di lusso, il prendersi cura degli aspetti più comuni della vita quotidiana rappresenta una responsabilità di primaria importanza nella nostra professione in quanto fondamentale per gli equilibri del nostro pianeta. Semplici atti di ottimizzazione, cura e consolidamento possono fare emergere una coscienza collettiva dal tessuto sociale impoverito in un mondo liberalizzato, indirizzato al mercato e post-globalizzato.8
«In una casa assediata vivevano un uomo e una donna. Dall’angolo della cucina in cui si erano rannicchiati intimoriti, l’uomo e la donna udivano piccole esplosioni. “Il vento” diceva la donna. “I cacciatori” diceva l’uomo. “La pioggia” diceva la donna. “Armi” diceva l’uomo. La donna voleva tornare a casa, ma era già a casa, là nel mezzo della campagna in una casa assediata».
Lydia Davis, “In una casa assediata” (1986)
In tanti angoli del mondo, lontano dagli itinerari dei globe-trotter, dei Nimby benestanti e degli ambiziosi operatori di borsa, le abitazioni si stanno sgretolando e sono sotto assedio. Questa è una realtà che il 2020 ha reso evidente. Al di là delle politiche governative e della macroeconomia, tra le pareti di una casa, nelle sue tradizioni spaziali e materiali, c’è qualcosa di più profondo che possiamo valutare con occhio critico. Partendo da qui, da ogni più piccolo dettaglio della quotidianità, noi architetti dobbiamo impegnarci seriamente per promuovere una nuova idea di casa, diversa dalla casa come è stata fino ad oggi.
Note
1. T.S. Eliot, Four Quartets (Boston: Harcourt, 1943); trad. ital. Filippo Donini, Quattro Quartetti (Milano: Garzanti, 1959).
2. Kazuo Shinohara, “Jutaku wa geijutsu de aru” (La casa come opera d’arte), Shinkenchiku, vol. 37, no. 1 (Tokyo: Gennaio 1962), 77.
3. Aleksandra Kasuba, “Tensile Fabric Structures”, https://www.kasubaworks.com/live-in-environment.html.
4. Per fare un confronto: il progetto Robin Hood Gardens a Londra di Alison e Peter Smithson, completato nel 1972, ospitava 213 unità per un totale di 1,5 ha, il doppio della densità di Unidad Independencia. Il complesso Pruitt-Igoe a St. Louis, che comprendeva 2.870 appartamenti in 33 edifici di 11 piani, era stato costruito su un sito di 23 ha, una densità quindi simile a quella di Robin Hood Gardens. Diversamente dal sito lussureggiante su cui venne sviluppata la Unidad Independencia, i siti di Robin Hood Gardens e di Pruit-Igoe erano occupati precedentemente da baraccopoli; il primo, in particolare, durante gli studi di pianificazione, ha dovuto lottare contro un ambiente molto ostile. Quando Peter Smithson annunciò le decisioni formali per Robin Hood Gardens, non parlò astrattamente di “strade nel cielo”, anzi, indicò con precisione altezza e angolatura del muro perimetrale, stabilite per deviare i rumori della superstrada che scorre dietro al complesso e presentò l’idea di inclinare leggermente il terreno in modo da evitare che al centro del complesso si giocasse a calcio, prevedendo invece di crearvi un’area “stress-free”. Alison Smithson teneva allusivamente in mano cocci di ceramica trovati nel vicino cantiere navale, guardava il passaggio delle navi paragonandolo allo scorrere inevitabile del tempo, e argomentò che il compito dell’architetto è produrre un’architettura resistente, per superare le avversità della condizione del momento andando oltre agli attuali utilizzatori in modo da edificare un “organismo di qualità comparabile” negli anni a venire.
5. Osservazioni di John F. Kennedy sul complesso di residenze sociali Unidad Independencia, 30 giugno 1962, White House Audio Collection, JFK Library, JFKWHA-111-001.
6. Il degrado ecologico e sociale dell’edilizia residenziale sociale non è un fenomeno evolutivo darwiniano da osservare in modo passivo; anzi, esso è dovuto alle politiche e ai meccanismi specifici che lo hanno prodotto e diffuso. Dal 2014 al 2016 la Graduate School of Design dell’università di Harvard ha attuato un progetto di ricerca chiamato “Rethinking Social Housing in Mexico”, diretto dalle professoresse Ann Forsyth e Diane Davis e finanziato da Infonavit, il più importante ente finanziatore di mutui del Paese. Il report ha identificato le circostanze che hanno favorito lo sviluppo del paradigma neoliberista in Messico. «Questo passaggio dalla produzione statale di edilizia sociale al finanziamento pubblico di sviluppi privati di residenze sociali […] in Messico, rispecchia i processi di decentralizzazione sperimentati durante gli anni ’90 [...], e questo ha avuto come conseguenza che, a livello locale, ogni comune esercitasse più potere decisionale in ambito amministrativo. La pratica del potere decisionale decentralizzato ha avuto un impatto significativo sullo sviluppo urbano in tutto il Messico. Dal momento che la produzione di alloggi sociali è stata relegata agli sviluppi privati finanziati pubblicamente e che il processo decisionale relativo ai piani di urbanizzazione e ai permessi di costruzione era diventato formalmente responsabilità dei politici locali, invece di essere supervisionato a livello statale o federale, non è un caso che l’urbanizzazione nelle aree metropolitane del Messico sia cresciuta in maniera esponenziale, spesso intesa come sviluppo di social housing tentacolare e a bassa densità».
7. A New York City abbiamo analizzato quale fosse la migliore sintesi dell’idea di “micro-housing”, espressa dalla città. Tenendo presente che molti potenziali inquilini, operatori sanitari impegnati in turni molto lunghi negli ospedali vicino al sito del progetto, vivrebbero da soli, siamo partiti da un’unità abitativa regolare riducendola il più possibile, nel rispetto ovviamente dell’accessibilità, illuminazione, qualità e abbordabilità economica. Coadiuvati da un developer for-profit, abbiamo stabilito che il costo unitario di costruzione avrebbe potuto essere leggermente più alto rispetto a sviluppi analoghi, a condizione di una maggiore densità in relazione a tipologie edilizie simili.
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