Los Angeles è storicamente un insieme di villaggi disseminati in un’area sconfinata. Sin dalle origini, quando i colonizzatori spagnoli fondarono El Pueblo, l’insediamento più antico di Downtown, fino ai primi complessi residenziali del XX secolo - come l’albergo-residence The Garden of Allah - e gli agglomerati post-moderni di Frank O. Gehry - come la Facoltà di legge della Loyola Marymount University o l’Edgemar Center of the Arts a Santa Monica -, questa immensa metropoli si è sviluppata, perdendo le sue caratteristiche originali, intorno ai nuclei di maggiore densità urbana: episodi sporadici di architettura sociale inseriti in una griglia apparentemente senza fine. Nel suo ergersi solitario sopra l’interstatale 405, il Getty Center di Richard Meier può apparire come una cittadella collinare, esempio di purismo formale.
Il campus Anita May Rosenstein ricorda la tipologia del villaggio sia da un punto di vista dell’impianto costruttivo, sia nella sua funzione sociale al servizio della comunità e delle sue esigenze psicologiche. Il primo importante intervento su questo articolato complesso è stato recentemente completato, in posizione angolare rispetto al sito, dagli architetti newyorkesi Leong Leong in collaborazione con lo studio locale KFA; il manufatto si presenta come un insieme architettonico di grande eleganza, non atipico nel contesto di lotti commerciali eterogenei della città. Il suo volume curva rispetto all’intersezione stradale per poi aprirsi creando separati e discreti punti d’accesso ai diversi corpi del complesso.
Quest’architettura di primaria importanza all’interno del campus, inserita in un quartiere non ancora trasformato dall’omologazione o dalla gentrificazione, è - paradossalmente - quasi interamente schermata da pareti in vetro. Paradossalmente, non solo in ragione del...
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