Il paesaggio italiano è variegato, anzi è il variegato fatto paesaggio. In esso si susseguono a breve distanza situazioni spesso ben poco coerenti una con l’altra, il tutto in una scala ridotta, alle volte persino domestica. Questo paesaggio fisico ha una corrispondenza nel paesaggio culturale, anch’esso variegato e contraddittorio se non conflittuale. Prendiamo ad esempio l’architettura. Da un lato, semplificando, abbiamo in passato il conflitto nella stessa città tra l’idea aulica e prescrittiva dell’Alberti e quella empirica e tecnica di Brunelleschi. Trasferendoci nel passato prossimo lo stesso conflitto vede da una parte Aldo Rossi e dall’altra Giancarlo De Carlo, e proprio sul solco di Giancarlo De Carlo prende le mosse e si sviluppa il lavoro di Alberto Cecchetto. Una frase di De Carlo ci aiuta a comprendere il suo lavoro: «Noi credevamo nell’eteronomia dell’architettura, nella sua necessaria dipendenza dalle circostanze che la producono, nel suo intrinseco bisogno di essere in sintonia con la storia, con le vicende e le aspettative degli individui e dei gruppi sociali, con i segni ed i ritmi arcani della natura». Questa frase compendia un pensiero essenzialmente antiplatonico, avverso alle idee a priori, un pensiero empirico dunque, abbastanza recente per la cultura italiana, i cui prodromi possono essere fatti risalire al Risorgimento, a Boito e De Sanctis che hanno condizionato non poco Benedetto Croce. È durante la Resistenza al fascismo che questo pensiero trova espressione nel movimento di Giustizia e Libertà, poi a guerra finita è Bruno Zevi che lo incarna in un’architettura organica, senza modelli a priori e riformista. De Carlo da ciò parte e basta andare ad Urbino per vedere una delle più alte prove di un genere di architettura che intendeva annunciare un Paese finalmente libero dai suoi stessi spettri, un paese votato al futuro senza retorica o futurismi a buon mercato. Alberto Cecchetto, che è stato allievo di De Carlo, da anni lavora seguendo...
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