Notava Guido Piovene che Brescia è una città in parte di pianura, in parte di collina e in parte di montagna. Una città storicamente in parte lombarda in parte veneta; una città in cui convergono dunque più elementi ed è questa una caratteristica che innerva non solo l’arte e l’architettura del luogo, ma anche la sua economia. Notava inoltre Piovene la “civetteria” dei bresciani; una civetteria blasé, che li porta a tratteggiarsi come gente concreta se non prosaica, il tutto per non apparire inventivi, quasi a voler proteggere un bene da custodire. Pragmatismo e circospezione dunque, dietro cui si trova dell’altro. Prendiamo l’arte bresciana, più precisamente quella scuola rinascimentale che inizia con Vincenzo Foppa e prosegue con il Moretto, il Savoldo e Romanino. Come giustamente notava un critico sensibile come Testori, le loro poetiche, molto diverse le une dalle altre, non sembrano presentarci delle particolari innovazioni: a prima vista sembrerebbe infatti che esse siano il frutto della convergenza tra il tonalismo veneto e il naturalismo lombardo. Valutazione questa superficiale che non tiene conto della notevole capacità di questi pittori di utilizzare in forme del tutto innovative quel chiaroscuro che diventerà nel tardo Cinquecento e nel secolo successivo uno degli aspetti essenziali della nuova arte. Questi pittori infatti è come se si fossero prefissi di trovare il punto di equilibrio tra il nitore e lo sfumato, un punto di equilibrio fragile, poco appariscente, ma che a ben vedere rende le loro opere uniche. È stato poi Roberto Longhi a comprendere a fondo il senso di quel realismo lombardo che nel secolo successivo Caravaggio porterà al suo massimo vigore. Longhi racconta che quella volontà di ritrarre con carnalità gli ultimi e i diseredati, tipica del mondo artistico stabilitosi sull’asse Brescia,...
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