Il caustico Leo Longanesi negli anni ’50 scriveva: «Milano crede di essere Milano, Roma sa di essere Roma». Ancora oggi, mentre Roma con la sua supponenza sempre più scivola giù, Milano continua a credere nel suo essere Milano, un credere che le è giovato se consideriamo lo stato attuale di una città che è diventata qualcosa che prima era molto meno: una città desiderabile. Le città hanno un’anima e quest’anima appare attraverso il loro stile. Parlare di stile di una città sembrerebbe un’approssimazione, e in parte lo è, ma di questa approssimazione ci nutriamo e Milano un suo stile ce l’ha o meglio l’ha riscoperto. Facciamo un passo indietro agli anni ’30, quando propalato da Margherita Sarfatti e da Mario Sironi si imponeva lo stile Novecento, poi passato tra le abili mani di Gio Ponti che lo aveva reso un po’ frivolo e un po’ svampito ma non tanto da scivolare nel kitsch. Poi, dopo la guerra ecco arrivare la sobrietà velatamente eccentrica dei vari BBPR, Asnago e Vender, Gardella, Albini, Caccia Dominioni, che ben hanno rappresentato una borghesia progressista ed efficientista, pragmatica e salottiera al tempo stesso. È la stagione della mai ben definita Scuola di Milano: mai ben definita eppure chiaramente riconoscibile. Poi dalla seconda metà degli anni ’60 l’arrivo della cultura di massa e della sua derivata, la contestazione. Se leggiamo i bei libri di Ettore Sottsass ecco che appare il salotto alternativo suo e di sua moglie, Fernanda Pivano, che ospitava con nonchalance Bob Dylan o i maestri della pop art. Così in quegli anni Milano diventa la capitale di un design peculiare, rigoroso ma al tempo stesso ironico, alle volte velatamente provocatorio. In parallelo Giorgio Grassi e Aldo Rossi andavano elevando l’architettura ad una vera e propria mistica capace di sedurre il mondo:...
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