Una tenda ma anche un padiglione, un luogo protetto ma anche poroso. Lo Jan Shrem and Maria Manetti Shrem Museum of Art si propone al pubblico californiano come un’architettura di trasparenze e ricerche strutturali. È risaputo come la California sia già stata, in passato, domicilio di linguaggi cosmopoliti e laboratorio esplicito di sperimentazioni costruttive; ne sono un esempio le opere dell’émigré elvetico Albert Frey nella Palm Springs di metà Novecento o quelle di Raphael Soriano, nativo di Rodi, a Los Angeles e nella San Francisco Bay Area. Altrettanto internazionale è il DNA di questo museo: olandese e cinese date le origini di Florian Idenburg e Jing Liu, soci fondatori dello studio SO – IL a capo del progetto, ma anche giapponese per via della comune esperienza presso SANAA, a Tokyo, e greco come l’anima di Ilias Papageorgiu, loro collaboratore a SO – IL; possiamo poi aggiungere la “componente” americana di Bohlin Cywinski Jackson, co-direttore della progettazione con alle spalle una lunga esperienza di interventi sostenibili e sensibili al contesto in tutti gli Stati Uniti, così come quella italiana e libano-israeliana dei committenti Maria Manetti Shrem e Jan Shrem, cresciuti rispettivamente a Firenze e a Gerusalemme. Nonostante questo mix di culture - anche lontane -, il museo è una risposta puntuale e specifica al luogo: una soluzione efficace, che tiene conto delle vaste distese circostanti di colture agricole e della sede del campus della UC Davis, nelle immediate vicinanze dell’autostrada che connette San Francisco, a ovest, con Tahoe e Reno, a est. In effetti, quest’edificio non potrebbe trovare altra collocazione. Forse Idenburg e Liu hanno tratto spunti dalle proprie radici per dare un’interpretazione peculiare del sito e, più in generale, del luogo. E, forse, hanno adottato alcuni accorgimenti nelle strategie di...
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