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Nuovi territori: le infrastrutture sociali

Weiss/Manfredi

Nuovi territori: le infrastrutture sociali
Scritto da Marion Weiss, Michael Manfredi -

Fisici o virtuali che siano, le strutture che associano persone e idee sono luoghi istituzionali di confronto, senza linee di confine ben definite. I sistemi virtuali stanno crescendo in maniera esponenziale, mentre è attualmente oggetto di riflessione a livello globale la valenza dello spazio fisico delle istituzioni accademiche, professionali e culturali. Tuttavia, come il paradigma dell’addio alla carta stampata predetto con l’avvento dell’era digitale non si è in realtà mai verificato, allo stesso modo i sistemi virtuali - dalle postazioni di lavoro, all’insegnamento via web e alle piattaforme online degli urban center - non hanno intaccato - bensì accresciuto - l’importanza e la produttività degli spazi condivisi nella veste di incubatori di innovazione. Le immagini del movimento di protesta Occupy Wall Street a New York, presso lo Zuccotti Park, e della “rivoluzione degli ombrelli” di Hong Kong hanno messo in luce la base comune ideologica, catalizzata dai social media, materializzatasi in luoghi pubblici distinti e divulgata attraverso istantanee fruibili su scala mondiale. Tenendo conto del contesto in evoluzione e della compresenza di indicatori economici sfavorevoli, della scarsità di spazio disponibile e degli elevati standard di efficienza richiesti, le istituzioni accademiche, professionali e culturali, nel momento in cui costruiscono qualcosa di nuovo, orientato a un futuro non categorizzabile e dedicato alla ricerca e alla promozione della creatività, si trovano a ragionare sul valore quantitativo e qualitativo di uno spazio condiviso, libero da vincoli funzionali. Queste considerazioni hanno portato molte istituzioni a prediligere, sempre più, edifici strutturati secondo un programma specifico e a optare per un’efficienza - in realtà - solo apparente, con il rischio di dare vita a punti di “non contatto” fisici e virtuali. Così come il concetto contemporaneo di ufficio sta evolvendo verso una dimensione lontana dalla tipologia tradizionale - si può lavorare ovunque - e i modelli accademici si conformano a programmi e agende imprenditoriali, riteniamo sia sempre più importante prevedere connessioni spaziali senza vincoli funzionali stabilendo legami fisici e visivi in particolare laddove questi potrebbero essere ostacolati da una costruzione pluripiano. Attualmente, i campus istituzionali stanno vivendo una trasformazione significativa. Università, società, musei e complessi sanitari stanno ampliando i propri programmi e accrescendo le proprie ambizioni nonostante la scarsità di spazio disponibile. Queste istituzioni, che un tempo avevano un assetto definito con chiarezza e stabile nel tempo, oggi operano a una scala sempre maggiore e spesso in contesti urbani consolidati, dove la crescita è un fenomeno transitorio, casuale e opportunistico. Nel 1970, i musei della Smithsonian Institution hanno accolto 13,4 milioni di visitatori; nel 2013, hanno superato i 30 milioni. Allo stesso modo, tra il 2010 e il 2014, il numero di studenti in università urbane è cresciuto del 40%. Le forze convergenti e spesso contradittorie di crescita, le risorse limitate e un’identità in evoluzione richiedono un approccio intelligente alle complesse esigenze spaziali e funzionali dei campus contemporanei. L’origine latina del termine “campus” rimanda al mondo rurale e rievoca le prime esperienze universitarie in aree periferiche, come le sedi di Princeton e della University of Virginia, e ha quindi una scarsa aderenza con le realtà odierne, sempre più localizzate entro i confini urbani. L’efficienza di queste strutture viene oggi in gran parte determinata dal sito, oltre che da un semplice discorso di organizzazione interna. Trovandosi all’interno o in prossimità delle principali città, i campus traggono beneficio dalle opportunità offerte - strutture ricreative e rete di trasporti - fattori essenziali che “calamitano” un gran numero di studenti talentuosi. Queste istituzioni hanno una certa responsabilità verso le città che le ospitano; in tale contesto, la fase di pianificazione e progettazione racchiude, dunque, la possibilità di tessere una rete più estesa di relazioni tra i diversi soggetti istituzionali, programmi e livelli di interazione. Per esempio, l’approccio ibrido degli istituti di ricerca - oggi in ascesa - ha dato vita a una nuova serie di riflessioni e opportunità in campo architettonico. Optare per tipologie ben delineate e dai confini prestabiliti e poco flessibili risulta quindi una scelta ormai impraticabile e inappropriata. Sebbene quella dell’istituto di ricerca sia forse la prova più evidente di una più ampia trasformazione degli spazi di lavoro e di istruzione, anche le strutture tradizionali deputate alla formazione universitaria e alla sanità, così come i musei, stanno diventando sempre più dei motori di crescita economica. Accogliere favorevolmente una loro evoluzione nel tempo significa confrontarsi con una serie di sfide in fase di progettazione. I progressi nella tecnologia digitale hanno imposto alle istituzioni di qualsiasi genere una riconsiderazione delle priorità a livello di programmazione, servizi, protocolli di ricerca e disponibilità di spazio; tuttavia, le risposte variano caso per caso, a seconda della natura delle istituzioni stesse. Gli spazi comuni e formativi che favoriscono una didattica aperta, tipica degli studi umanistici, potrebbero infatti non rispondere alle esigenze di un istituto di ricerca dove una stretta collaborazione riveste un ruolo chiave. Al tempo stesso, però, queste divergenze permettono un confronto tra le varie soluzioni progettuali, dando vita a un processo di crescita comune, a risultati fondati sulla conoscenza e contaminazione reciproca. Nonostante le diversità evidenti, quasi tutte le istituzioni sono accomunate da vincoli di spazio e di risorse. Gli ampliamenti e le nuove costruzioni difficilmente trovano posto nel fulcro storico dei campus senza comportare operazioni di sostituzione di elementi preesistenti (edifici o spazi ricreativi). Richiedono dunque un intervento di inserimento accurato all’interno del tessuto, come il Diana Center del Barnard College, o nelle zone più periferiche, come il Krishna P. Singh Center for Nanotechnology presso la University of Pennsylvania. Sebbene la loro dimensione dall’esterno non faccia pensare a due interventi infrastrutturali, questi nostri progetti testimoniano la volontà di ri-orientare i rispettivi campus. Il primo creando una nuova centralità, il secondo stabilendo un nuovo riferimento in posizione esterna e rafforzando la “spina dorsale” del campus che connette università e città. Scala, forma e performance: contraddizioni e compatibilità Molti dei nostri progetti per istituti di formazione e ricerca, come il Diana Center, il Singh Center e la sede nordamericana di Novartis, sono edifici singoli che, grazie alla loro ubicazione e alla loro architettura, aderiscono al sito e al contempo plasmano il contesto in cui si trovano. Spesso il linguaggio dell’architettura è troppo specifico per rispondere a programmi innovativi e in evoluzione, mentre il linguaggio della pianificazione non lo è a sufficienza per affrontare le peculiarità del sito e della scala. Ambedue non centrano l’obiettivo e necessiterebbero di nuove strategie di progettazione e di nuovi linguaggi. Nel contesto emergente, riteniamo giusto propugnare interventi di agopuntura urbana in quanto di forte impatto sul tessuto. Sono interventi infrastrutturali per ambizione, orientati ai risultati piuttosto che alle grandi proporzioni, e riconoscono che la domanda di tipologie infrastrutturali più ecologiche debba andare di pari passo con l’evoluzione di strutture con vocazione diversa quali spazi di ricerca, di apprendimento e comunitari. In altre parole, l’attenzione verso l’eco-sostenibilità non esclude di tener conto delle richieste specifiche e dettagliate legate al processo artistico, didattico-formativo e di ricerca (pura e applicata). Queste attività generano, infatti, ecologie sociali parallele, definite dall’architetto Ian McHarg come “sistema sociale biofisico”. Il nostro fare architettura ripone grande attenzione a scala, forma e performance. Dobbiamo molto a Fumihiko Maki e al suo saggio Investigations in Collective Form del 1964, dove egli analizza il valore di espressioni architettoniche come “compositional form”, “megastructure” e “group form” in relazione a cluster o a frammenti urbani. L’insegnamento che abbiamo tratto è che i progetti sono in grado di determinare il proprio contesto da un punto di vista sia sociale sia fisico e che il valore di un intervento sta nel plasmare forme che stimolino e incentivino le connessioni o le relazioni con un contesto più ampio. Allo stesso modo, per l’importanza che diamo a scala e forma, risulta per noi interessante quanto espresso dallo storico e critico dell’architettura Kenneth Frampton sull’architettura a grande scala come elemento predominante per creare luoghi dinamici e culturalmente significativi: «Parlando di megaforma, l’aspetto più rilevante è la spinta orizzontale e topografica del suo profilo generale, congiuntamente al suo programma intrinseco dal carattere schematico in grado di plasmare lo spazio. […] È una tipologia rilevante nel quadro attuale poiché capace di creare luoghi, contesti e punti di riferimento nella città». Frampton ha espresso parole per noi decisive nello sviluppo del nostro lavoro, soffermandosi sulla «funzione quasi-catalitica» della megaforma e definendola come «una tipologia di intervento urbano che, finora, ha provocato conseguenze inattese» (Stan Allen, Marc McQuade, Landform Building: Architecture’s New Terrain, Lars Müller Publishers, 2011, p. 238-41). Come megaforma urbana, il Rockefeller Center è forse l’esempio di maggiore successo in quanto si inserisce con facilità in un ambiente preesistente (in questo caso, la griglia urbana del centro di Manhattan). La promenade centrale e la piazza ribassata, nucleo del complesso, svolgono un ruolo di rilievo all’interno della maglia urbana, imponendosi come segno distintivo del Center che, con i suoi confini non ben delineati, traccia un limite ambiguo con la città e s’incunea nella matrice a blocchi della pianta di New York. Vivendo in questa metropoli, raggiungiamo spesso il Rockfeller dalla Sixth Avenue, attraversando la Quarantanovesima o la Cinquantacinquesima, rimanendo sempre sorpresi alla sua vista, come fosse la prima volta. Uscendo invece dalla metropolitana, il trionfo topografico del Rockfeller Center viene amplificato da una sezione che dialoga con i vari livelli e le diverse quote della città. Per noi, il potere di questa struttura sta nella sua abilità di rispondere, interrompere e trasformare il contesto, ricordandoci al tempo stesso come l’architettura possa fungere da modello e favorire le trasformazioni urbanistiche in una griglia rigida e tipologicamente eterogenea. Ricerca e innovazione: densità e interazione Come sottolineano gli esperti di geografia e di finanza, progresso e attività economica spesso coesistono nel medesimo luogo. Le università, le società e gli istituti di ricerca sfruttano a proprio vantaggio gli aspetti positivi della concentrazione urbana, spostandosi sempre più verso le zone di maggiore densità. Negli ultimi quarant’anni, Kendall Square a Cambridge si è trasformato da quartiere industriale legato al vicino Massachusetts Institute of Technology in un imponente hub hi-tech del settore biomedico. Qui, grandi nomi quali Microsoft, Google, Amazon e Twitter hanno insediato le proprie strutture di ricerca, a cui si sono poi aggiunte molte piccole e medie realtà imprenditoriali specializzate in tecnologia. Più di recente, Kendall Square è fiorito come polo di ricerca biomedica e, dal 2007 al 2014, nell’area si sono stabiliti nuovi uffici e laboratori di ricerca e sviluppo per un totale di oltre 180 mila mq. Quando gli scienziati hanno modo di lavorare a stretto contatto, i risultati raggiunti nella ricerca sono generalmente migliori. La dimensione di lavoro “in solitaria” è oggi superata dal lavoro in équipe, poiché i ricercatori sanno benissimo che le risposte ai quesiti più affascinanti si trovano se il lavoro si fa interdisciplinare. La ricerca ha messo in luce come a ogni scala (dalla città al posto di lavoro) la densità, la programmazione polifunzionale e la compresenza di figure professionali diverse favoriscano l’innovazione e, con essa, la concessione di brevetti. «Se si vuole che le persone collaborino in maniera efficace - ha affermato Isaac Kohane dell’Harvard Medical School, autore di un importante studio pubblicato dalla Public Library of Science e intitolato Does Collocation Inform the Impact of Collaboration? - è necessario creare architetture che incoraggino l’interazione fisica, frequente e spontanea. Persino nell’era della big science, in cui i ricercatori passano molto tempo su internet, la realizzazione di spazi ad essi dedicati è ancora essenziale» (Jonah Lehrer, Groupthink, New Yorker, 2012). Se i confini programmatici tra ricerca pura e applicata, tra università e industria, tra campus e città stanno diventando labili, allora le nostre risposte spaziali hanno il dovere di adattarsi. In questi casi, la sfida sta nel dare la giusta dimensione umana ai luoghi, creando edifici che moltiplicano le interazioni programmate e non. Crediamo che l’architettura o l’infrastruttura che sostiene la ricerca debbano inoltre migliorare la visione periferica e catalizzare gli effetti collaterali positivi (essenziali per il progresso e per la creatività). Nel nostro progetto per il campus Cornell/Technicon a Roosevelt Island, la forma a clessidra del complesso è configurata per fondere ricerca applicata e spirito imprenditoriale, dando vita a un incubatore dove la circolazione e le connessioni tra sezioni possano stabilire interazioni interpersonali tra gruppi di lavoro e discipline. La giustapposizione di programmi crea infatti maggiori occasioni di incontro e di stimolo per la creatività; per questo intervento sono stati concepiti dei percorsi interni intrecciati, delle aree lounge ideate come balconate lungo le scale che collegano gli ambienti e delle ampie vetrate a nastro che permettono il contatto visivo all’interno dei laboratori e degli spazi di studio. Identità: singola icona o pluralità di edifici Data la proliferazione di immagini nei contesti virtuali e fisici, non c’è da stupirsi se le istituzioni tendono a prestare estrema attenzione alla propria rappresentazione iconica e al proprio brand. Sfortunatamente, dato il contesto, la produzione di architetture identitarie può rapidamente sfociare in un processo di creazione d’immagine superficiale, alle spese di un modus operandi più articolato, preciso e dettagliato. L’architettura può indubbiamente favorire la creazione di un brand o rispecchiare la storia di una istituzione, ma può anche “sfidare” quella stessa storia, introducendo una pluralità di significati e di narrative accomunati dallo stesso complesso di valori, senza soccombere al fascino dell’icona. A nostro avviso, in una situazione delicata come questa, sarebbe necessario mediare tra tipologia e sito, tra funzione e risultato. Nel caso del Krishna P. Singh Center for Nanotechnology, abbiamo organizzato il complesso attorno a una spirale ascendente, andando così a ibridare la struttura tradizionale del campus, a geometria quadrangolare e attraversata da percorsi pubblici. Discostandoci dall’impianto convenzionale tanto dell’università quanto della città di Philadelphia (con edifici disposti attorno a corti aperte e laboratori sviluppati lungo un corridoio lineare che presuppone una fruizione pubblica limitata e ancor meno occasioni di interazione tra ricercatori), nel Center for Nanotechnology i laboratori si sviluppano attorno a un cortile centrale, aprendo le scienze all’esterno e mettendo a disposizione ampi spazi per l’interazione. Qui, le diverse tipologie - cortile, loft dei laboratori, galleria ascendente -, ognuna con la propria storia, si uniscono per dare vita a un’ibridazione innovativa e riconoscibile. L’identità del centro emerge dunque da questa confluenza di relazioni, non da un gesto architettonico preponderante sugli altri. Stabilità/Instabilità Le istituzioni vivono un periodo di cambiamento continuo. Circolazione e imprevedibilità sono la norma, indipendentemente dalle dimensioni. Alla scala del campus, la porosità dei suoi confini va ad assottigliare le distinzioni tra spazi interni ed esterni alla struttura stessa. Alla scala architettonica, la risposta tipica al cambiamento coincide oggi, in generale, con il tropo della “scatola neutra”, che presuppone un elevato livello di flessibilità. Tuttavia, gli spazi non generici apportano spesso un livello di caratterizzazione in grado comunque di conformarsi alle varie esigenze e offrire ottime capacità di uso e riorganizzazione. Nel nostro progetto per Novartis, il requisito fondamentale di uno spazio lavorativo flessibile e riconfigurabile ci ha portato a realizzare moduli strutturali e di arredo di dimensioni rispettivamente di sette e due metri, e un sistema continuo di piani ascendenti. Per evidenziare questi spazi lavorativi aperti e flessibili, li abbiamo sviluppati come una sequenza di aree comuni, facilmente identificabili e interconnesse da gradini stile anfiteatro utilizzabili anche come sedute e con le superfici rivestite in legno. Spazi dove mangiare, bere e riposarsi sono concepiti come cinque “aree sociali” distribuite come isole tra le postazioni di lavoro open space. A Manhattan, il nostro progetto per il Diana Center del Barnard College prevede un edificio per le arti sviluppato su sette livelli, che supera la ripartizione disciplinare delle strutture pluripiano, optando per una serie di volumi a doppia altezza connessi tra loro in linea diagonale. La scelta di allontanarsi da una “separazione geografica” degli ambienti sulla base dei livelli tipica degli edifici di città ci ha portato a “scolpire” spazi lungo tutto l’edificio, creando forti connessioni visive tra le diverse discipline e i vari dipartimenti aumentando indirettamente la consapevolezza della dinamica offerta didattica del Barnard. Una scala vetrata emerge dal perimetro dell’edificio connettendo le diverse polarità disciplinari ai vari livelli e offrendo visuali sempre nuove sul campus. Una composizione esplicitamente dinamica, ottenuta sfruttando le scelte architettoniche e la conformazione del sito, in grado di amplificare l’esperienza spaziale, creare relazioni spontanee e aperte tra architettura e territorio e vedute panoramiche sullo scenario metropolitano o un riparo curato ad hoc dove rifugiarsi dall’eccesso di stimoli della vita quotidiana. Il nostro interesse non è rivolto a una successione casuale di interventi ma alla loro genesi come conseguenza uno dell’altro. I livelli e i flussi circolatori in questo progetto non solo connettono le varie parti del sito evidenziandone i confini fisici, ma ristrutturano questo tassello urbano favorendo una nuova percezione del luogo e innescando una trasformazione a scala più ampia, con gli elementi e i contesti adiacenti. Il ruolo delle infrastrutture sociali, dato l’intreccio sempre più ricorrente di attività lavorative, formative, ricreative e culturali, sta dirigendosi verso territori sconosciuti. Plasmare l’infrastruttura sulla base del nostro credo, dei nostri interessi e delle nostre ambizioni è una prassi che nasce da una convinzione precisa, ovvero che le istituzioni didattiche e culturali rappresentino un patrimonio alla pari dell’ambiente in cui viviamo. L’architettura non può superare in velocità i progressi nelle tecnologie digitali e l’espansione del dominio sociale, ma può e deve fungere da partner strategico in questi sforzi, facendosi incubatore per l’innovazione in grado di anticipare la sua stessa evoluzione e di modellare il proprio percorso, incanalandolo sempre più verso finalità sociali. Le forme resilienti spronano le persone a utilizzarli e a innovarle, privilegiando un coinvolgimento attivo rispetto a una reiterazione passiva di modelli superati. L’esperienza maturata con il progetto del National Mall ci ha insegnato che nemmeno i monumenti possono esistere in uno spazio vuoto. Il sito del Sylvan Theater, alla base del Monumento a Washington, ha una molteplice funzionalità: fa da cornice all’obelisco, da sala concerti, da area di sosta per i bus turistici e da cardine all’interno di un più ampio circuito che collega il Mall ai memoriali che circondano il Tidal Basin a sud. Allo stato attuale, il sito adempie in maniera insoddisfacente a questi ruoli. Il nostro progetto crea una nuova topografia che, da un lato elude dalla vista i bus e attenua i rumori del traffico e dall’altro mette a fuoco il contesto dell’obelisco. È dunque un campus nel senso più basilare del termine: il Mall è una testimonianza storica, ma anche un “campo” in continua evoluzione. Si può quindi definire campus nel senso più pieno del termine. La trasformazione di questo eccezionale foro pubblico in modello di impegno civico di maggiore impronta sociale è probabilmente la dimostrazione più lampante del tipo di cambiamenti che vorremmo innescare attraverso i nostri progetti, che siano pubblici o privati. L’elevata applicabilità dell’impegno sociale collega l’alta cultura con le culture del lavoro e della ricerca, assicurando che i progetti ben concepiti generino risultati che vadano oltre i limiti fisici iniziali, diffondendosi nel tessuto urbano. Approcciare le infrastrutture sociali attraverso una lente strategica significa per noi incoraggiare lo sviluppo di nuove forme di connessione e costruire oggetti e spazi che, di base, sono aperti al cambiamento qualora sia richiesta un’evoluzione. Questo approccio infrastrutturale ci ricorda quanto in comune abbiano la città e il campus.

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