Tra Brunelleschi e Alberti, tra singolo e corale: un Collettivo Critico | The Plan
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Tra Brunelleschi e Alberti, tra singolo e corale: un Collettivo Critico

Tomas Rossant

Tra Brunelleschi e Alberti, tra singolo e corale: un Collettivo Critico
Scritto da Tomas Rossant -

L’editoriale di THE PLAN coglie davvero nel segno quando illustra sia il punto di vista di chi scrive, sia come i vari stili nascono, si diffondono e si reinventano. È stimolante leggere i diversi approcci all’architettura, le ricerche che stanno dietro a ogni progetto e i vari processi con cui le idee prendono forma. Quando invece si pensa agli studi di architettura di oggi e si prova a classificarli, ci si trova di fronte a una tassonomia sconfinata che spazia da quelli nati dal genio di un maestro, fino a quelli che raggruppano un team interdisciplinare di professionisti. Tra questi due poli, di tutto e di più.

Gli argomenti trattati sono tutti interessanti e la mia intenzione, in queste pagine, è quella di inserirmi nel discorso dando il mio punto di vista e presentando una filosofia architettonica fuori dagli schemi e dalle dinamiche ordinarie: un collettivo, una leadership che punta all’eccellenza e si concentra intensamente su come sfruttare al meglio l’architettura per migliorare le comunità. Una pratica che fa di tante voci un unico coro, una cultura di pianificazione collaborativa, definibile come Collettivo Critico.

Noi, a Ennead Architects, facciamo leva sull’integrazione tra la creatività individuale della nostra leadership e la spiccata inventiva dei nostri collaboratori. Il lavoro, da noi, si concentra sulle istituzioni: realizzare edifici fortemente iconici che incidano positivamente sull’attività umana, che esprimano con le proprie forme - deliberate e decise - la mentalità di chi li abita, che accrescano lo scambio sociale, intellettuale e culturale tra le stesse istituzioni e la sfera pubblica.

Al giorno d’oggi, uno studio come il nostro - grazie alla sua struttura - risponde efficacemente alle domande della società odierna. Dopo epoche di battaglie stilistiche dove l’interesse si focalizzava sul segno estetico, ancora una volta l’architettura viene giustamente chiamata a innescare un cambiamento più diretto e progressivo tanto nel nostro ambiente quanto nell’uomo. Bisogna progettare lasciando da parte ogni formalismo ed espressione personale, concentrandosi su ciò che è utile a soddisfare le attuali esigenze culturali. Per farlo, la voce del singolo deve unirsi a quella delle diverse comunità illuminate e competenti, dei vari collaboratori e ricercatori, delle discipline un tempo estranee alla pratica architettonica. 

Sono relazioni necessarie per ampliare l’indagine sull’architettura, incoraggiare un’innovazione tecnologica dinamica e favorire ambienti umanamente migliori e d’impatto più significativo. Sebbene la leadership individuale sia essenziale allo sviluppo di ricerche orientate da profonde convinzioni personali, a priori rispetto ai progetti, dovremmo certamente riconoscere ancor più valore alle collaborazioni in fase progettuale, alla produttività di scrupolose culture progettuali e all’inventiva del collettivo. Gli studi più aperti a questo modus operandi - in particolare quelli strutturati con questo obiettivo - si trovano forse in una posizione più consona a ripristinare, per l’architetto, la centralità del costruire, creando edifici che promuovano il progresso dell’uomo.

Ennead Architects è il risultato di una lunga gestazione, di un processo di strutturazione interna pluridecennale, avvenuto prima ancora che io entrassi nello studio o mi venisse proposto di fare parte della leadership. L’impostazione iniziale prevedeva un solista, un’unica persona al vertice, ma con il tempo lo studio si è evoluto, trasformandosi in una coralità poliglotta con un gruppo eterogeneo al comando. Il fondatore ci ha instradato verso l’evoluzione e, una volta andato in pensione, abbiamo fondato Ennead Architects. 

La struttura attuale è organizzata per favorire un approccio individuale da parte della leadership, sviluppando al contempo anche una cultura progettuale condivisa, solida e incentrata sul fare. Il nostro è uno studio nato espressamente per arricchire il punto di vista di tutti, per sfidarci a colpi di innovazione e per promuovere la consapevolezza di progettare assieme, favorendo la riflessione critica e l’ascolto di tante voci. Ennead ha creato un equilibrio dinamico e produttivo fuori dall’ordinario, un’armonia tra il singolo e il collettivo, tra il coinvolgimento personale e la collaborazione, alimentando sia il pensiero concettuale sia il rigore tecnico.

Essendo parte di un gruppo di forti personalità e dalle capacità uniche, mi risulta impossibile parlare per i miei partner, poiché intellettuali indipendenti, con un proprio pensiero e approccio all’architettura. Tuttavia, voglio descrivere la cultura di progettazione che ci vede fondatori, in cui la forza creativa del singolo e quella del collettivo sono profondamente interconnesse in un legame simbiotico, fortemente collaborativo. 

 

Brunelleschi, Alberti e le due visioni

Verso la fine del mio percorso universitario, il mio professore di storia dell’architettura mi incaricò di scrivere un articolo accademico sulla Firenze del XV secolo, focalizzandomi sul punto di passaggio della sfera d’influenza da Brunelleschi all’Alberti. Ciò che ne risultò fu un testo semplice, fatto di assonanze e dissonanze. Ovviamente, mi concentrai in primis sui confronti stilistici: la maggiore plasticità formale di Brunelleschi, genio che considerava l’edificio nella sua interezza, paragonata alla predilezione per un’architettura bidimensionale incentrata sul prospetto dell’Alberti, il cui pensiero concettuale e i cui scritti trattavano di bellezza, proporzione e composizione.

In un paragrafo mi soffermai su un concetto che più tardi, una volta diventato architetto, sarebbe stato per me fondamentale: il processo di progettazione di Brunelleschi e il rapporto indissolubile tra le sue ricerche teoriche e l’atto materiale del “fare con gli altri”. Egli si soffermava infatti a parlare di dettagli tecnici con gli artigiani, gestiva i loro contratti, faceva schizzi con i muratori, si avvaleva di collaboratori come Arnolfo di Cambio e Antonio Manetti, ma soprattutto capì che non era sufficiente l’immaginazione: il sogno doveva incontrare una metodologia che lo rendesse realizzabile. Brunelleschi era l’ultimo anello di una catena nata con Imhotep nel XXVII secolo a.C. e sino a quel momento ininterrotta, secondo cui l’architetto era colui che concepiva la progettazione e la realizzazione come i due rovesci della stessa medaglia.

Solo oggi, a diversi anni di distanza, mi è chiaro che in quel momento, in Italia, Alberti stesse dando vita a un nuovo prototipo di architetto, una specie di superuomo, sollevato dall’atto del costruire e focalizzato sul pensiero concettuale. L’edificazione non sarebbe più stata il punto cruciale, venendo infatti soppiantata da un concetto di architettura chiusa in se stessa, le cui regole venivano ridefinite ponendovi al centro e come obiettivo principale l’intelligenza individuale dell’architetto e l’esaltazione della genialità. Una volta laureato, ciò che scrissi divenne la mia forza e la mia guida nella ricerca di un lavoro. Predilessi Brunelleschi - esempio del “fare collaborando” - e nel 1994 entrai nell’unico studio di New York dove credevo che progettazione e realizzazione andassero ancora di pari passo a ogni livello di teoria e pratica, e dove la cooperazione fosse la norma. Là ho incontrato tutti i miei attuali partner, molti dei quali erano stati miei docenti, e assieme abbiamo plasmato uno studio in rapida ascesa, unico nel suo genere, meno schiavo dell’ego individuale e più radicato nella convinzione comune condivisa che il potenziale dei luoghi possa plasmare le comunità. Allora come oggi, tutto era imperniato attorno al concetto di architetto “a tutto tondo” - un mix di propensione alla progettazione, abilità manuali e capacità gestionali racchiusi in un’unica persona - così da essere, per la maggior parte dei progetti, sia chi scartabella tra schizzi e modelli, sia chi firma licenze edilizie e dirige il cantiere, realizzando così il nostro sogno. 

Nello studio dove sono entrato, l’idea vitruviana di solidità e utilità era essenziale per soddisfare la nostra massima ambizione: realizzare qualcosa che ispiri, coinvolga e influenzi positivamente la società. Durante il percorso formativo, ho iniziato col tempo a capire quanto naif fosse il mio personale concetto di studio e, cosa ancor più importante per la mia crescita, quanto la scelta tra Brunelleschi e Alberti non dovesse essere definitiva e irrevocabile. Sia nello studio dove sono entrato, sia in quello che poi ho contribuito a fondare, si è sempre creduto nella coesistenza di due ideali di architetto: il costruttore edile collaborativo e il visionario solitario interessato al progresso delle nozioni architettoniche.

 

Ennead come Collettivo Critico

Fondare Ennead nel 2009 è stata una scelta intuitiva e semplice. Era evidente come tra noi regnasse una fiducia reciproca e come ci fosse una filosofia comune a tutto lo studio: caratteristiche ampiamente collaudate come base da cui partire. Durante le riflessioni sui nostri intenti e sulle nostre prospettive, è stata subito chiara l’inutilità di manifesti o affermazioni provocatorie sugli obiettivi. Ciò che invece era degno di nota e poteva emergere come peculiarità qualificante era la collaborazione tra di noi nell’affrontare ogni singolo progetto.

Sia nello studio originario sia in quello fondato in seguito, la cooperazione avviene in modo insolito. Quando si affronta un progetto, i membri della leadership non si muovono in concerto, bensì in maniera indipendente e autonoma, perseguendo ciascuno i propri obiettivi, conducendo apertamente indagini e ricerche e ispirando così i collaboratori nel processo creativo e nell’approccio alla pianificazione. Il concept, per esempio, prende forma da un dialogo reciproco e continuo tra i partner e lo staff, in un flusso biunivoco di informazioni, generando un processo interattivo che sfocia in progresso tecnico e idee di grande creatività e risonanza.

Come la pressione accelera le reazioni chimiche, così il nostro gruppo, grazie al Collettivo Critico, porta avanti idee originali in maniera rapida e consente un veloce trasferimento di conoscenze tecnologiche e di progettazione tra leadership e collaboratori, spaziando dalle tipologie edilizie ai metodi di costruzione.

Il nostro non è uno studio organizzato in sottoinsiemi con figure specializzate in una specifica tipologia di edificio. Ogni progetto viene affrontato in tandem da un design partner e da un managing partner, supportati dalla radicata propensione al fare degli altri architetti e stimolati dal gruppo nel portare avanti l’innovazione. Per ogni progetto vengono infatti mescolati membri della leadership e collaboratori, creando gruppi di volta in volta unici: tante personalità e tante esperienze diverse, frutto degli interventi passati, che si amalgamano creando team dinamici, sempre attivi nell’affrontare il fare architettura e le sue problematiche secondo nuove prospettive.

Il vincolo tra progettazione e direzione dei lavori non vale per design partner e managing partner, che anzi si uniscono e si sciolgono di volta in volta, formando gruppi diversi a seconda del progetto; una metodologia che incoraggia il progresso. Nell’influenzarsi a vicenda e nel condividere le rispettive conoscenze e competenze, generano infatti un’impollinazione incrociata di idee che aumenta la sensibilità collettiva, arricchita da perfezionamenti su molteplici aspetti nati dal coinvolgimento dei collaboratori, pronti a dar manforte al dialogo critico e a mettere al servizio il proprio know-how traendo spunto da progetti e lavori precedenti.

Il nostro studio prende in esame quasi tutte le tipologie edilizie. Un partner può concentrarsi al tempo stesso su un impianto di trattamento delle acque reflue e un prestigioso museo d’arte, su un ospedale e una casa, su un edificio universitario e un’ambasciata statunitense, su un hotel e un laboratorio biomedico. Il processo collaborativo interattivo ci consente dunque di sfidare senza soluzione di continuità i dogmi legati ai settori edilizi tradizionali, introducendo inoltre tecnologie e metodi costruttivi innovativi, facendo ricerche sui materiali e favorendo un’indagine interdisciplinare tra le varie tipologie architettoniche.

In questo modo, grazie al collettivo, i profondi passi avanti nelle tecnologie user experience fatti in ambito museale possono essere applicati in progetti per edifici di alta formazione, reinventando i modelli pedagogici di insegnamento e apprendimento. Le innovazioni portate avanti in ambito medico hi-tech, avvalendoci di enormi componenti prefabbricati, possono essere facilmente riproponibili in contesti residenziali così da accorciare le tempistiche, abbattere i costi e innalzare il livello qualitativo. Il dialogo con i ricercatori e gli utenti degli edifici universitari è la scintilla per nuove possibili collaborazioni tra specialisti nel campo dell’ambiente, dei computer e dei materiali.

Tutto questo cambia totalmente l’impatto sui nostri progetti. I risultati sono proficui e innovativi - un caso esemplificativo ci ha visti di recente collaborare con alcuni esperti in scienze sociali, con ricercatori della Stanford University e con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La sfida è ripensare la tipologia insediativa per i profughi, creare campi ideati come il seme di future città permanenti e in rapido sviluppo. Il progetto è in corso e viene portato avanti nel nostro Ennead Lab (o ELab), un laboratorio nato dall’esigenza di una struttura consona all’innovazione (lavorare in ambienti tradizionali frena il progresso) e, al tempo stesso, di un “exploratorium” indipendente dove fare ricerca e dare sfogo alla creatività. Il Collettivo Critico non è mai banale, vive di sfide e ha una natura votata alla continua ricerca. 

 

Istituzioni, sfera pubblica e miglioramento delle comunità

Riconosciamo valore all’elaborazione formale, inseguiamo la bellezza, ambiamo a costruire spazi spettacolari, diventiamo matti nell’esplorare i materiali, perseguiamo la massima efficienza tecnologica. Lo facciamo perché non ci cade nulla dall’alto. In questo senso, tutti gli studi incentrati sulla progettazione si assomigliano. Tuttavia a Ennead, al di là di questi obiettivi generali, il Collettivo Critico vive di un’aspirazione comune, di un fine universale ancor più nobile: consentire alle istituzioni di mantenere in toto il proprio impegno. Ennead si dedica a costruire edifici per le istituzioni, garantendo al contempo le condizioni ottimali per chi ci lavora e creando un legame con la comunità.

Siamo fortunati a poter dialogare quasi esclusivamente con istituzioni no-profit, indipendentemente dal fatto che siano governative, scientifiche, accademiche o culturali. Crediamo siano la base di una società civile e, ancor più, che il progetto sia rilevante solo se queste migliorano la cultura dell’uomo e il suo benessere. I nostri interventi nascono espressamente dalla volontà di creare spazi permeabili e trasparenti, favorendo il contatto con la sfera pubblica. Il nostro fine è consentire un coinvolgimento e uno scambio a livello sociale e intellettuale tra le istituzioni e la società, intesa nel senso più ampio.

Gli ambienti che progettiamo vogliono ottimizzare il potenziale del capitale umano, consentendo alle persone che si relazionano con le istituzioni (sia chi ci lavora, sia chi le vive dall’esterno) di raggiungere gli standard più elevati in termini di produttività, esperienza umana e visione positiva. Spesso, sulla base del nostro know-how tipologico condiviso, allarghiamo gli orizzonti dei committenti, fissando nuovi obiettivi per ispirare in maniera significativa la cultura dell’istituzione stessa e influire sui comportamenti collettivi attraverso spazi nuovi e coinvolgenti. Dedicandoci alacremente alla ricerca analitica nel programma e nel fine, nelle tecnologie e nel contesto, progettiamo edifici promotori di un cambiamento istituzionale.

È forse in casi come questo che l’interazione tra leadership e collaboratori raggiunge la sua massima efficacia, dovendo scegliere tra una pluralità di opzioni per sfruttare a pieno il potere dell’architettura, dare forma agli obiettivi e dedicarci alle comunità. Ci influenziamo a vicenda, imparando l’uno dall’altro, per inventare nuove tipologie di spazi programmatici, per superare gli approcci istituzionali e stimolare la cultura.

Il nostro processo vuole generare risultati: favorire l’interazione informale tra ricercatori biomedici per consentire una condivisione di informazioni, “indebolire” i confini tra dipartimenti universitari tradizionali per incoraggiare la collaborazione interdisciplinare, sovvertire la natura intrinseca delle biblioteche e il modo in cui viene divulgata la conoscenza. Nel fare questo, attraverso la collaborazione tra i singoli e il gruppo nelle fasi di analisi del pensiero critico, esplorazione delle possibilità e ideazione di spazi ibridi e innovativi, sfidiamo le tipologie edilizie convenzionali, facendole evolvere per contestualizzare nuovi obiettivi e, in definitiva, per essere di stimolo nell’innovare il modo in cui le istituzioni agiscono e influenzano l’attività umana. 

 

Costante reinvenzione

Ad oggi sono undici i partner di Ennead, coadiuvati da 175 collaboratori. Le indagini progettuali si stanno intensificando, il ritmo dell’innovazione aumenta e l’influenza del collettivo sulla leadership e viceversa sta crescendo come mai prima. Lo studio è un laboratorio di progettazione, dove ogni partner porta la ricerca verso nuovi orizzonti. Queste indagini individuali spingono lo studio e il collettivo su più fronti. Lo studio mira a una costante reinvenzione. Tuttavia, esattamente come il concetto matematico di vettore, tutti questi sforzi si riuniscono in un’unica direzione comune: una cultura di progettazione dall’ethos condiviso.

Ogni giorno, guardando ciò che è affisso alle pareti dello studio, agli schizzi lasciati sulle scrivanie dei miei partner e ascoltando da lontano i discorsi dei nostri collaboratori, si rinnova in me la fiducia nel collettivo e nelle sue capacità di incidere sempre più sulla nostra cultura da un punto di vista sociale. Personalmente, sono entusiasta all’idea di accogliere più sociologi nel nostro team, di investigare il potenziale della tecnologia digitale per influenzare l’esperienza dello spazio e per aumentare la nostra capacità di trasformare culture, di avvicinarmi ancor di più a modelli innovativi di produzione e di attuazione del progetto e pensare un edificio accademico generico in grado di ospitare indistintamente tutti i rami di ricerca.

Dove portano le ricerche dei miei partner? A ridisegnare il confine della sostenibilità e della resilienza? A nuove tecnologie di facciata altamente performanti? A forme sinora sconosciute? Non lo so. Ma so che ci confronteremo ben presto, facendo esperimenti e buchi nell’acqua, vivendo attimi di disaccordo e di armonia. Per tutto il tempo, attraverso il nostro collettivo, renderemo la nostra architettura ancora più incisiva ed efficace, con l’obiettivo di far progredire le culture delle istituzioni per cui lavoriamo. Io metto in campo ciò in cui credo, lo stesso fanno gli altri. Insieme consideriamo i diversi punti di vista ed esaminiamo, con mentalità aperta, le parole, le azioni e le ricerche di tutti.

 

Prospettive

Non sono mai stato più ottimista rispetto al ruolo dell’architettura nell’influenzare e nel migliorare il nostro spazio e la nostra società; non sono mai stato più sicuro che sia in crescita la figura del progettista come pensatore critico e catalizzatore di ricerche interdisciplinari nel senso più ampio; non sono mai stato più convinto che questo sarà il secolo più determinante per l’architettura. Si stanno diffondendo nuovi studi innovativi e collaborativi, come osservo nei miei viaggi negli States. Basta dare un occhio a quello che succede a Seattle, New Orleans, Kansas City, Philadelphia e San Antonio, giusto per citare alcune città.

Dove sorgono nuovi studi di architettura in cui l’ego viene respinto e i limiti tradizionali ignorati, qui nutro grandi aspettative. Nelle scuole di architettura che riportano l’attenzione sulla cultura del fare e incentivano la condivisione nella didattica, nell’apprendimento e nella progettazione, qui trovo l’ispirazione e lo stimolo per future collaborazioni. E infine nel nostro studio, qui vedo l’importanza delle varie individualità della leadership come scintilla di rinnovamento critico della cultura della progettazione, a patto che la base di partenza sia la collaborazione. La visione del singolo è necessaria, ma può raggiungere il massimo grado di efficacia se riplasmata e sfaccettata in seguito al confronto con il collettivo.

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