Come è noto, il genere umano è da sempre tormentato da questioni a cui non esiste risposta certa. “Di chi e di che cosa siamo contemporanei?” Oppure, “cosa significa essere contemporanei?” sono domande che da sempre si ripropongono, creando un certo sconforto, più o meno prolungato, negli individui in genere e negli architetti in particolare. A queste domande Giorgio Agamben ha risposto in modo magistrale, secondo una serie di definizioni progressive. Contemporaneo è, dice Agamben, “chi tiene fisso lo sguardo sul suo tempo per percepirne non le luci, ma le ombre”. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporanietà, oscuri, continua Agamben. Questo buio della contemporaneità non è percepito dall’uomo contemporaeo, in modo passivo o inerziale. Questo buio presuppone un coinvolgimento dello spettatore dotato della capacità e del coraggio di essere contemporaneo, che non si lascia accecare dalle luci del secolo e che al contrario, seppure investito in pieno viso dal fascio di tenebra che proviene dal suo tempo, è capace “di percepire il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e con cui deve interagire”.
Essere contemporaneo, nel campo dell’architettura, è uno status a cui molti aspirano, ma che pochi raggiungono in genere perché si lasciano abbagliare dalle supposte luci (o false, distorte retoriche) del tempo in cui vivono - come la retorica della sostenibilità, la retorica del modernismo, della ipermodernità, del parametricismo, dell’essere smart - o di tutti i vari virus pseudo-culturali che affligono la maggior parte delle nostre giornate. Queste ultime risultano ingolfate dall’attivismo muscolare di persone impegnatissime a guadagnare qualche attimo di visibilità con trovate estemporanee o gratuite, quali le applicazioni digitali inutili e maldirette presentate come...
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