Un’antica storiella cinese, riportata da Alejandro Jodorowsky nella sua celebre autobiografia “La danza della realtà”, racconta di una montagna immensa e di un piccolo villaggio costruito ai suoi piedi. L’enormità della montagna impedisce al sole di scaldare il villaggio, che rimane così al buio tutte le ore del giorno. I bambini incominciano a soffrire di rachitismo. L’ombra diventa buio, il buio oscurità. Finché, un giorno, gli abitanti del villaggio notano un uomo anziano con un cucchiaio in mano che sale per la montagna. Gli chiedono cosa intenda fare e lui risponde che intende scavare la montagna. Alle risate di tutti, l’anziano risponde: “Lo so, non ce la farò mai, ma qualcuno deve pur cominciare”.
Razionalità e Irrazionalità, in questo caso, generano lo stesso risultato: la montagna rimane lì dov’è. Ma l’anziano capisce che ciò che conta è produrre desiderio, illusione, speranza. Egli indica la via per liberarsi dal luogo comune, una via di salvezza dall’ombra del pensiero dominante, dalle tenebre della montagna, a prescindere dal risultato. Con questa storiella, Jodorowsky sembra voler riaffermare con forza la sua idea di creatività: non solo gesto estetico, ma anche guarigione. Dalle proprie prigioni, dai propri cliché. Per farlo, è necessario dare imprevedibilità al gesto creativo. Liberarlo dalle superfici. Soprattutto, dalla superficialità.
Mutazione e libertà
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