“He’s going to end up, on the dirty boulevard,
he’s going out, to the dirty boulevard,
he’s going down, to the dirty boulevard”
Lou Reed, Dirty Blvd, in New York, 1989
New York è per il Novecento la metropoli per antonomasia e la metropoli è per statuto il luogo della trasformazione continua, dove nulla può stare fermo, dove tutto scorre, si trasforma, tutto diviene merce (Walter Benjamin parlava di Parigi, ma i passaggi concettuali sono precisi e usabili per estensione), città che non si ferma mai, mondo parallelo che si alimenta di energia propria e che cresce senza sosta mangiando ogni risorsa, ogni energia. Alimentandosi di se stessa e della carne umana dei suoi cittadini, volontari prigionieri dello scintillante sogno, New York è divenuta l’immagine della modernità stessa.
Anche se poco “americana” per gli americani, New York è stata per quasi tutto il Novecento l’America.
Nel suo fortunatissimo libro “Delirious New York”, Rem Koolhaas ha visto benissimo alcuni punti centrali dello sviluppo della città, dalla grande maglia (orizzontale, ma anche verticale con le varie versioni dei regolamenti che gestivano lo sviluppo in altezza) che con la sua stabilità ha garantito un mix perfetto di “laissez-faire” e di limite invalicabile all’anarchia più selvaggia del mercato, sino alla necessità quasi fisiologica di sfidare il cielo e la crescita.
L’immaginario di New York è sempre stato di crescita, ad ogni palazzo che crollava si è sentito il profumo dei soldi e immaginato che ne sarebbe cresciuto uno più alto, i fumi che uscivano dalla metropolitana si sono sempre fusi con gli odori di una realtà senza sosta dove colori, razze, religioni, abitudini e profumi diversi si mescolavano senza nessuna possibilità di fermare il processo...
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