Necessità monumentale nel paesaggio dell’abbandono | The Plan
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Necessità monumentale nel paesaggio dell’abbandono

Beniamino Servino

Necessità monumentale nel paesaggio dell’abbandono
Scritto da Beniamino Servino -

01. ENUNCIAZIONE/ANNUNCIAZIONE
Abusi di necessità.
Abuso. Cattivo uso, uso eccessivo, smodato, illegittimo di una cosa. Io abito troppo, lo faccio in modo eccessivo smodato illegittimo. Abuso. Esercizio illegittimo di un potere. Io esercito illegittimamente il potere di modificare il paesaggio. Di-segnare il territorio, o semplicemente un campo. Una sponda. E mentre modifico illegittimamente il luogo del mio bisogno lo rendo vulnerabile [il luogo, non il bisogno]. Siamo vulnerabili insieme [io e il luogo, la parte attiva e la parte passiva, vicendevolmente]. Conviviamo vulnerabilmente, mirabilmente. Necessario. Da cui non c’è modo di ritirarsi. Io non posso ritirarmi da un bisogno. Abbandonare. Lasciare senza aiuto e protezione, lasciare in balìa di se stessi o di altri. Smettere di occuparsi di una cosa. Smettere di averne cura. Ma il paesaggio vuole [vuole!] essere abbandonato [mai più campi da golf, mai più!]. È quella la sua vocazione, il suo destino. [Col tempo forse l’abbandono assorbe il bisogno, assorbe l’oggetto con cui il bisogno si è manifestato]. C’è assonanza tra la rappresentazione del bisogno e il luogo della sua rappresentazione. Tra il testo e la scena. Tra lingua e linguaggio. Chiudo gli occhi, sento parlare, riconosco un idioma, una inflessione, un accento. Posso figurarmi [dalla lingua] il linguaggio della sua [della lingua] rappresentazione. Posso figurarmi la forma delle case, la forma della città. È una città che parla la lingua di chi la abita, di chi l’ha costruita. Una lingua non semplificata ma povera, che racconta non il degrado ma l’arroganza di chi non ha storie da raccontare. Lingua parlata e linguaggio architettonico sono perfettamente sovrapponibili. Se la percorri [questa specie di città] a occhi chiusi e fai attenzione ai rumori sgraziati delle voci, puoi ricostruire - tenendo gli occhi chiusi - le sagome delle case. È la lingua dell’analfabetismo di ritorno che restituisce forme ingoiate senza essere masticate e cacate così. È la città del futuro. È la città di tutti contro tutti. Dell’uomo troppo distratto per la rivoluzione. Vocabolario essenziale. Lingua essenziale ma iperbolica, ripetitiva ridondante rumorosa. Ripetitiva, piena di tic. Tanti bisogni piccoli, tutti assieme, diventano una massa. Senza consapevolezza aspirano al riscatto. Cercano la piè-tas. Piè-tas. Piè-tas. Piè-tas. Piè-tas. Prima un sussurro. Poi un coro. Poi un urlo ca-den-za-to. Com-pi-ta-to. Ma per essere condivisa e sostenuta [la piè-tas] deve essere riconosciuta. Deve essere rappresentata [la piè-tas] in una forma generata dal bisogno. Deve mostrare fiera la sua genesi, ma assumere anche una dimensione dilatata ipertrofica ciclopica smisurata. Ma ancora riconoscibile. Una anamòrfosi liberatoria, immaginifica. Solo allora la piè-tas genera stupore. Uno stupore da controriforma. Uno stupore che prepara il rispetto, uno stupore legittimante. E il monumento al bisogno riscattato dalla piè-tas sta nel paesaggio dell’abbandono in-vulnerabilmente. Mirabilmente.

02. ESEMPLIFICAZIONE/SEMPLIFICAZIONE
La Pennata è il manifesto popolare dell’appropriazione degli archètipi. Archètipi riproducibili istintivamente, riconoscibili immediatamente. Una capanna senza tempo, senza tecnologia, senza aspirazione alla invenzione della forma. La pennata è costruita per essere temporanea, precaria; smontabile se arrivano i vigili [ma figurati se arrivano i vigili!]. L’éphémère est éternel. Da un lato l’uomo-bambino fabbrica un riparo [un ricovero] per le cose che stanno fuori [che possono stare fuori], dall’altro l’uomo adulto fabbrica accanto al primo il riparo [il ricovero] per le cose che stanno dentro [che devono stare dentro]. Il bambino gioca con la leggerezza dell’apparente improvvisazione [guidato geneticamente] accanto all’adulto che restituisce [per sentito dire, per persuasione mimetica] formule di integrazione sociale [una iconografia di appartenenza]. Ma lo sapete, [voi] adulti non più bambini, che quelle capanne/mezze capanne/capannoni che avete vicino [a voi] possono riaffiorare sulla spiaggia insieme alla statua della libertà?

03. RISPETTO/DISPETTO
Occupazione proletaria dei monumenti. Fuochi, bivacchi, finestre, finestrelle, accatastamenti. L’occupante prova una soggezione [che non vuole ammettere] al cospetto del monumento, ne sente una armonia a cui non è educato, ma la sente. [L’occupante] occupa il monumento perché lo associa [il monumento] a un potere che lo ha escluso [a lui, all’occupante]. Ne riconosce il valore simbolico. L’occupante-iconoclasta è stato prima un escluso-idolatra.

04. TIPO(CETRIOLO/ZUCCA/NIDO/PENNATA
Quel grattacielo somiglia a un cetriolo. Quell’auditorium somiglia a una zucca. Quello stadio somiglia a un nido. Questa è una pennata.

05. TONO SU TONO/NUACES
In primavera, da aprile fino a maggio, il paesaggio dell’abbandono è colorato con una quantità che non si può contare di verdi diversi. Ma tanti. Mai tanti. E ogni verde ha il suo posto. È un verde assorbente.

06.IDENTITA'/INDIVIDUALITA'
L’identità di un luogo, di un popolo. Io appartengo a un luogo o a un popolo se ricalco un modello. Identità come modello. Io appartengo a un luogo o a un popolo se sono nato in quel luogo da quel popolo. Identità come codice genetico. Io appartengo a un luogo o a un popolo se trovo familiare quel luogo se quel popolo mi protegge come una famiglia. Identità come rifugio. Io appartengo a un luogo o a un popolo se quel luogo lascia un posto per me e se quel popolo mi aggiunge agli altri. Identità come inclusione. Io appartengo a un luogo o a un popolo se quel luogo e quel popolo mi riconoscono tra gli altri. Se si accorgono di me tra gli altri. Se colgono la mia inflessione quando parlo la stessa lingua. Identità come somma di individualità che si sfiorano.

07. LA NON-CITTÀ E IL POPOLO DELL’OBLIO/LA NON-CITTÀ E IL POPOLO DI SKY
L’equilibrio della città ne prepara la bellezza. Ne recupera la bellezza. La città recente [ai margini del centro, marginale, o in enclaves all’interno della città densa, occupata] non è contro la città non recente. Non è anticittà. È una non-città. [Non è anticittà ma un aborto, un feto ipocalcificato. Una non-ancora-città. A not-yet-city] … Giaculatoria La non-città corrisponde al popolo dell’oblio/La non-città ospita il popolo dell’oblio/La non-città deriva dal popolo dell’oblio/La non-città è costruita per il popolo dell’oblio/... … La non-città e il popolo dell’oblio non partecipano alla distribuzione dei pesi [hanno un peso trascurabile]. La bellezza e la democrazia [invece] sono costruite sull’equilibrio. [L’estetica del dis-equilibrio riflette lo sbilanciamento economico e sociale]. NECESSITà MONUMENTALE NELLA CITTà SBILANCIATA. Per essere condiviso e sostenuto il monumento deve essere riconosciuto come proprio. Deve essere rappresentato [il monumento] in una forma generata dal proprio repertorio linguistico. Deve mostrare fiero la sua genesi, ma assumere anche una dimensione dilatata ipertrofica ciclopica smisurata. Ma ancora riconoscibile. Una anamòrfosi liberatoria, immaginifica. Solo allora il monumento genera stupore. Uno stupore da controriforma. Uno stupore che prepara un nuovo equilibrio, uno stupore legittimante.

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