Quarant’anni fa Thom Mayne, battagliero contestatore ventottenne, fondava lo studio sperimentale Morphosis e collaborava alla nascita del Southern California Institute of Architecture quale alternativa radicale all’insegnamento tradizionale dell’architettura. Figlio di quell’epoca ribelle, animato da un’intensa passione per nuove e rivoluzionarie forme di espressione architettonica, Mayne fin dai suoi esordi non è mai sceso a compromessi, preferendo perseguire un’idea fino in fondo, anche solo sulla carta, piuttosto che comprometterne la compiutezza pur di realizzarla. Da questo punto di vista, non è cambiato nulla. Ha ricevuto il premio Pritzker e molti altri riconoscimenti per opere di dimensioni e complessità crescenti e nell’ultimo decennio si è conquistato la fiducia di università, consigli scolastici, grandi aziende e agenzie governative. L’età e il successo lo hanno reso meno aggressivo ma non meno determinato a tener fede ai suoi principi. “Sono disposto ad abbandonare la realizzazione di un progetto, ma non rinuncio a svilupparne il concept”, dice. “In diversi progetti recenti ho intrapreso una strada diversa [dal cliente] senza provare alcun senso di perdita”. A un’età in cui altri architetti sono all’apice della carriera o stanno pensando alla pensione, Mayne è attivo e inquieto come sempre. Una domanda posta da un intervistatore su un edificio specifico può provocare un lungo monologo sulle potenzialità dell’architettura o portarlo a spaziare su teorie che coinvolgono una dozzina di discipline. Scrutando l’orizzonte, mantiene ferma la sua rotta come un vecchio lupo di mare. “Non sono ancora riuscito a realizzare i progetti che ho portato avanti a scala urbana”, dice. “Mi hanno sempre accusato, credo ingiustamente, di dare troppa importanza ai particolari, rendendo gli edifici più complicati del necessario. In natura, non muoviamo critiche agli organismi perché troppo complessi; perché non poter allora enfatizzare la complessità di certi aspetti?...
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