Più e più volte, nel corso del XX secolo, gli architetti si sono dedicati alle ricerche più bizzarre volte a trovare elementi scientifici, dati, forme, in una parola antidoti, che li potessero proteggere da qualsiasi accusa di formalismo. Concepire l’architettura come una conoscenza condivisibile e trasmissibile attraverso la tipologia, ad esempio, è stato uno di questi tentativi. Così è stato lo sforzo di produrre un corpo teorico che fosse espressione dello Zeitgeist, oppure il tentativo di mettere insieme una strategia stilistica (come il minimalismo o la poetica del frammento) che fosse in grado di riflettere i cambiamenti sociali ed economici che indirizzano l’evoluzione della cultura. Lo stesso vale per l’importanza attribuita ai numeri come veicolo per controllare gli svariati eccessi degli individui. Tutte queste ricerche per la felicità o, comunque, di un momentaneo sollievo ad un’inquietudine mentale, appaiono oggi come il risultato di atteggiamenti realistici ed idealistici, uniti al fine di stabilire un principio di causa ed effetto tra alcune analisi e il prodotto finale, come se l’architettura potesse derivare automaticamente dal sito, dal programma o da altri dati di carattere generale. Un processo simile è osservabile oggi, quando gli architetti del XXI secolo tentano di stabilire una relazione con una società che sembra essere governata dalla comunicazione da un lato e da un green wash dall’altro: un ritorno alla natura che naturalizza la forma architettonica rimpiazzando l’autorità progettuale del designer con un’agenda etica, l’agenda della sostenibilità ambientale. Essere un autore è, oggi, un problema. La maggioranza sembra voler apparire lontano dal naturale egotismo dell’autore e preferisce che il proprio lavoro sia percepito come il risultato di realtà più grandi. Eppure, nel disastro globale, si presenta agli architetti l’opportunità di non diventare dei semplici tecnocrati ingolfati da una pletora di esperti di vario tipo (di marketing,...
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