Le Corbusier era convinto che “il sommo diletto dello spirito umano è la percezione dell’ordine” e che la più grande soddisfazione dell’uomo “è la sensazione di collaborare o di partecipare a quest’ordine”. Ruskin, invece, riteneva che la grande architettura dovesse avere un’anima irrequieta e sognante. Ruskin considerava l’architettura veneziana e le sue lievi imperfezioni uno specchio della natura umana: uno stile organico, che può tollerare errori, disordine e asimmetria in quanto si modella sulla Natura, dove non si scorgono né ‘linee rette’ né vuoti. Ricordo queste affermazioni contraddittorie per due motivi. Innanzitutto, perché mostrano Ruskin quale possibile vate di due tendenze sempre più popolari dell’architettura contemporanea: l’eccentrico e il sostenibile, che sono suffragate da una retorica naturale che ne giustifica forme e “concetti”. In secondo luogo, perché, nell’attuale contesto, non c’è architetto maggiormente interessato a questa dialettica di Preston Scott Cohen, il quale si contraddistingue per essere irresistibilmente attratto, talvolta anche simultaneamente, da entrambi, cioè dalla regola e dall’eccezione, e insieme dalla miriade di sorprese che l’architettura può destare utilizzando al tempo stesso linee semplici e complesse. “L’architettura deve apparire originale” è uno dei pochi slogan conosciuti di Cohen, oggi concretizzato in alcuni recenti lavori in Asia e Medio Oriente-tra cui il Nanjing Performing Arts Center, edificio icona all’interno di un nuovo campus-che appare essere il risultato di un lungo dialogo tra l’autore e il suo io, la storia della disciplina e il forte influsso della tradizione italiana. Il lavoro di Cohen è, infatti, il prodotto di un lento (decantato) contatto con la realtà italiana iniziato negli anni della formazione a Roma come studente della Rhode Island School of Design, proseguito con il precoce avvicinamento alle ossessioni intellettuali di Peter Eisenman, cioè la produzione razionalista di Terragni e di...
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