Piergiorgio Semerano nasce nel 1941. Si laurea all’università di Venezia con Giancarlo De Carlo, con il quale collabora per qualche tempo. È attratto dal genio di Carlo Scarpa. Non dallo stile unico e inimitabile sul quale si affannano i suoi mediocri continuatori, ma dalla capacità di dialogare con le preesistenze conservandone lo spirito più profondo, ma solo dopo averle alterate con interventi che oggi sarebbero giudicati violenti. Trovatosi a disagio nell’ambiente veneziano, scappa in Finlandia dove lavora per qualche mese con Alvar Aalto. Tenta di introdurre alcuni architetti nordici a Venezia, ma con scarso successo perché il linguaggio informale che fa seguito all’architettura organica fatica ad essere compreso da una scuola che è sempre più presa dai canoni storicisti e neorazionalisti. Apre uno studio a Padova, ma lo lascia spesso per viaggiare a lungo, quasi sempre da solo, in oriente, dove alterna la visita alle opere dell’antico passato - monasteri, fortezze, eremi - e di quello recente: Chandigarh di Le Corbusier e Dacca di Louis Kahn. Emigra per qualche tempo negli Stati Uniti, risiedendo di preferenza a New York, dove progetta e realizza negozi. Potrebbe essere considerato un personaggio tipico della stagione che precede e segue il sessantotto: inquieto, curioso, intimamente antiaccademico, egualmente innamorato delle civiltà arcaiche e di quelle ultratecnologiche. E sulla stessa linea è la sua idea di architettura: intensa e anticanonica. Lontana dalle certezze di chi crede che la si possa progettare componendo in maniera più o meno riuscita una buona pianta e quattro prospetti. Fondata sull’idea del corpo umano in movimento nello spazio. “Ho sempre creduto” - mi racconta - “che un edificio debba privilegiare la successione delle cose. Non congelare lo sguardo in una immagine dominante, ma stimolare un’esperienza cinetica”. Da qui un metodo di lavoro che lascia ampio spazio al cantiere e cioè al momento in cui il progettista ha modo di rendersi...
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