Sulle note della marcetta di Nino Rota nel film 8½ di Federico Fellini sfilano su un nastro da sushi, formando un girotondo, gli oggetti del nuovo design italiano. Piccole cose quotidiane: tazzine con cucchiaino integrato, spazzole da bucato che alloggiano il sapone di Marsiglia, tribachette, un utensile per mangiare che ibrida tradizione occidentale e orientale, classiche decolleté stampate in morbido poliuretano, “Esserini”, bocce per pesci rossi, stampi in silicone per cubetti di ghiaccio, mollette da bucato, tamburelli con il manico, stendibiancheria con capote, diffusori doccia per bottiglie in pet, lampadari in silicone e borse shopping realizzate con gli strofinacci da pavimento ecc... Dopo i progetti eroici, dopo le utopie, le visioni a largo raggio, che dal cucchiaio abbracciavano la città, il nuovo design produce solo cucchiaini! Chi si aspettava di trovare nuovi grandi solisti, di acclamare nuove star da contrapporre a quelle straniere che stanno colonizzando le nostre industrie, scopre un coro di voci bianche che cantano in sordina. Cosa succede al design italiano? È morto pensano quelli che ancora si ostinano a guardare la disciplina con occhiali vecchi e consumati; quelli che sono rimasti fermi ad un’idea superata di design; quelli che sono restii al cambiamento; quelli che era meglio quando era peggio, ovvero quando la qualità non era diffusa, ma solo per pochi. Invece, come dimostra la bella mostra “The New Italian Design - Il paesaggio mobile del nuovo design italiano”, prodotta dalla Triennale di Milano, ideata e coordinata da Silvana Annicchiarico, curata e allestita da Andrea Branzi, è vivo. Ma sta vivendo una vita nuova, forse la sola compatibile con i tempi odierni, confusi, fluidi, come sostiene il sociologo Zygmunt Baumann, o elastici come dice l’antropologo Marc Augé. I nostri maestri, quelli che rimpiangiamo, inimitabili e insuperabili (Munari, Castiglioni, Magistretti) hanno lavorato in un mondo più semplice, nel quale molto c’era da...
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