Poco prima di Natale un piccolo e affascinante robottino del video-artista Nam June Paik fatto di componenti in alluminio ed avvisatori luminosi industriali assemblati assieme con la solita ironica grazia veniva venduto in un’asta di arte contemporanea a New York alla ragionevole cifra di1600 $. Tirato in 90 esemplari nel 1990 con la sua lampada rossa al centro del torso, era a tutti gli effetti un totem/oggetto, ma anche più semplicemente, una lampada.
Un paio di settimane prima in un’asta milanese di design una poltrona di Ron Arad in plastica rotazionale del 1990 (la Nino Rota) prodotta da Cappellini in circa soli 90 esemplari per gli alti costi di fabbricazione, veniva battuta alla altrettanto ragionevole cifra di 1300 euro.
E’ solo un indizio di come due universi di mercato apparentemente distinti come arte e design abbiano potuto convergere su valori simili in condizioni di sostanziale parità dei parametri di firma, di datazione, di indice di rarità.
Un secondo indizio. E’ un fenomeno che sembra ripetersi con sempre maggiore insistenza quello che sta avvenendo con alcune importanti gallerie (prima fra tutte Bischofberger di Zurigo) dove alla voce “artisti in permanenza della galleria” si assiste ad una compresenza di artisti e designer. Considerati fino a ieri del tutto esclusi dal circuito logistico ed economico dell’arte alcuni designer (soprattutto quelli dalla poetica fortemente connotata che hanno lavorato per note aziende senza aver mai abbandonato il doppio binario del pezzo super-artigianale di complessa lavorazione), entrano di diritto nelle scuderie di alcune gallerie che ora sbandierano i nomi di Sottsass, Arad, Pesce, Newson, i fratelli Campana, Mollino, Kuramata (anche per Ponti l’ingresso in questa lista dovrebbe essere una questione a tempi brevi) mescolandoli a Barcelò, Basquiat, Chia, Franz West, Pardo, Atelier Van Lieshout o Rehberger.
Un terzo indizio. A fronte del momento non certo brillante che investe la...
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