Quanto più mode e stili si uniformano, quanto più la civiltà dei consumi rende omologhe le merci, quanto più le insegne delle grandi company diventano bandiere sovranazionali, tanto più il design tende a rivelare la propria nazionalità. Quasi cerchi la sua vitalità nel ritorno alle radici culturali. Non è un caso che molti dei progetti più significanti ed “emozionanti” della contemporaneità provengano da paesi, in ritardo economico, rimasti, per storia e geografia, più a lungo lontani dall’omologazione socioculturale. Si coglie nei migliori progetti portoghesi una purezza da neofita, un rigore morale da apostoli di una nuova religione, una levità, tipica di chi deve ancora spiccare il volo. Vi si legge in filigrana un anelito utopico, la fiducia in una missione salvifica del design, nella sua potenzialità di dare una qualità alta anche ad eventi di tipo commerciale. Non è un caso, ad esempio, che l’allestimento delle passerelle di ModaLisboa, la settimana portoghese della moda, sia affidato a Miguel Vieira Baptista, uno dei designer più rappresentativi della nuova generazione. Un'unica mano coerente, rigorosa, per tutti gli show. Una cornice dignitosa e un po’severa, per dare più spessore al
circo effimero della moda.
Queste qualità un po’apostoliche, forse si radicano nel DNA portoghese, in quella melanconia di paese alla fine dell’Europa (il più occidentale), in quello spaesamento ereditato da una vocazione di naviganti. Il fado è il canto doloroso delle donne, vedove di mariti sempre per mare, al mercato del pesce. E’ il canto di una mancanza. Una mancanza che permea una terra che per secoli ha guardato oltremare, fuori da sé. Perso l’impero, è rimasto uno sguardo senza orizzonte da direzionare. Per questo il design portoghese è così limpido. Perché rappresenta la nuova direzione dello sguardo. Uno sguardo che ha il candore dell’innocenza, desideroso di aprirsi a nuovi confini, non geografici, ma di pensiero. Quello portoghese è ancora un...
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