Non credo di avere le carte in regola per parlare dello stato del design argentino: troppo episodica la mia conoscenza del paese, troppo rari i contatti con i designer. Non voglio cadere nella tentazione di liquidare in poche parole una realtà, solo perché ho avuto la fortuna di trascorrere alcuni giorni a Buenos Aires. Preferisco parlare d’ incontri con il design argentino, raccogliendo le mie impressioni a pelle. Non ho la pretesa, né gli argomenti per sistematizzare. Posso invece raccontare.
Il primo incontro risale al 1992. L’occasione fu una mostra sul design latino americano “Aller simple”, organizzata nel 1992 alla Maison du livre di Lione da Blandine Bardonnet e Florence Gauthier, responsabili del design della Maison du Livre, con la consulenza artistica di Giulio e Valerio Vinaccia, due designer d’origine colombiana, di stanza a Milano. L’esposizione mostrava i lavori d’alcuni designer argentini trapiantati in Europa. Nel catalogo (progetto grafico dell’argentina Silvia Centeleghe) scrissi: “biglietto di sola andata? Forse, si tratta piuttosto di un biglietto di ritorno. I designer sudamericani approdati in Europa sono ritornati all’origine della loro formazione disciplinare. Hanno chiuso quel cerchio che, prima della guerra, tanti esuli avevano aperto, portando al sud del mondo il verbo della Bauhaus e della scuola di Ulm”. Conviene ricordare che Tomás Maldonado, nato a Buenos Aires, architetto e storico, è stato insegnante della scuola di Ulm dal 1954 e quindi rettore della medesima dal ‘64 al ‘66. Allora individuai nei progetti dei sudamericani trapiantati una vena di magia, quella che serve tutti i giorni per venire a patti con gli incidenti dell’esistere e che nel design si traduce in sottile surrealismo. “Questa magia, non dichiarata, anzi nascosta e sommessa, i sudamericani se la portano dentro. L’incontro/scontro con una realtà (quella europea), che non ha i contorni inquietanti di quella sudamericana, rende quel surrealismo più...
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