Il design ha voglia di giocare. Pare un paradosso di questi tempi che giocosi non sono. Tempi di guerre e di paura, d’instabilità economica. Tempi senza orizzonti e senza utopie. Ma forse non lo è. Quando il futuro è temibile vien voglia di guardare al passato e all’infanzia per cercare conforto in ciò che già si conosce. Il rischio appartiene alla speranza.
Di speranza, pare ce ne sia sempre meno. I designer non si credono più dei missionari e non pensano di poter salvare il mondo e, forse, neppure di renderlo migliore. Tutt’al più sperano di vendere i loro progetti e s’industriano a compiacere il gusto del pubblico.
Ad educarlo hanno rinunciato. E per compiacerlo indulgono allo stile, strizzando l’occhio a tutte le novità possibili. Non rimane che Enzo Mari, con la barba sempre più bianca, a predicare l’etica del mestiere e ad ergersi bastione di un rapporto conflittuale con l’industria, rea d’esproprio del lavoro creativo. Tutti gli altri, giovani e meno giovani, nell’industria cercano l’integrazione, sperando d’emulare Philippe Starck o Stefano Giovannoni , che con il design hanno fatto i soldi. A passare in rassegna i successi di Stefano Giovannoni ci si rende conto che molti dei suoi progetti, anzi la maggior parte, hanno a che vedere con il gioco. E’ lui l’inventore e il diffusore del design gadget. E stato lui il primo, seguito da una nutrita schiera d’imitatori, ad aver trasformato gli utensili da cucina e le suppellettili per la tavola in mostriciattoli, traghettandoli dallo squallore del quotidiano al regno fantasioso del fumetto. Il primo ad avere dato forma giocosa e appetibile, persino allo scopino per il water.
Il design giocoso, che nel 2004 ha dominato il Salone del Mobile di Milano, non è dunque una novità. Alberto Alessi ha capito, prima d’altri, che il design, se voleva, secondo la sua originaria missione, diventare democratico, doveva spogliarsi di tutto l’apparato teorico, alleggerirsi, addolcirsi, colorarsi come...
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