Una vita dietro le quinte
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Una vita dietro le quinte

Rockwell Group

Una vita dietro le quinte
Scritto da Redazione The Plan -

Costumi di scena, plastici di scenografie, schizzi e bozzetti, luci soffuse e scritte neon: gli spazi del Civilian Hotel di New York catapultano gli ospiti nel backstage di uno spettacolo teatrale, alla scoperta di quel meraviglioso mondo che si cela dietro le quinte. L’albergo, che sorge a qualche centinaio di metri da Broadway, è pensato per accogliere attori, ballerini, registi, produttori, scenografi, sceneggiatori e coreografi, ma anche tutti coloro che sono appassionati di teatro, come lo stesso David Rockwell, che firma l’interior design della struttura. Il progetto rispecchia l’idea che la magia sia proprio nella preparazione della performance, ancor prima e forse ancor di più che nella performance stessa, in quell’attesa carica di trepidazione e malinconia di leopardiana memoria, che avvolge il villaggio al tramonto prima del «dì di festa».

Civilian Hotel | © Nikolas Koenig courtesy Rockwell Group

Il Civilian Hotel trova posto all’interno di un edificio di 27 piani, con un basamento in mattoni a vista, e conta 203 camere, oltre alle aree comuni. Queste includono la lobby, il ristorante e bar Rosevale Kitchen and Cocktail Bar – illuminato da 41 lampade, ognuna delle quali rappresenta uno dei teatri di Broadway – e sale lounge come la Blue Room, circondata da teche in vetro dove sono messi in mostra una miriade di cimeli provenienti da opere teatrali, e lo Starchild rooftop, che offre una vista panoramica sullo skyline della Grande Mela e sul fiume Hudson. Le camere da letto, disegnate come se fossero i camerini degli artisti, presentano testate letto di velluto in stile retrò di colore blu o bordeaux, e sono suddivise in due tipologie: cozy, di dimensioni ridotte, e spacious, con una metratura più ampia.

Il concept alla base del progetto vuole essere un tentativo di cristallizzare un’esperienza effimera come quella di una pièce teatrale: obiettivo che viene perseguito con ogni elemento di design, fin dal vestibolo di ingresso, dove l’illuminazione a soffitto reinterpreta i fili di lampadine sospesi nei backstage, mentre le scale a chiocciola che conducono al piano superiore sono avvolte da un tendaggio che rimanda all’immagine di un sipario. Inoltre, gli spazi dell’hotel racchiudono centinaia di opere realizzate da artisti che lavorano a Broadway, tra cui le scenografe Rachel Hauck e Christine Jones e i costumisti Clint Ramos e William Ivey Long.

Casa Dani restaurant | © Nikolas Koenig courtesy Rockwell Group Cuore del progetto, la sala ristorante è concepita per dare agli avventori l’impressione di cenare all’aperto e ospita un caminetto rivestito in mattonelle verde smeraldo, con una superficie ondulata come quella che caratterizza il soffitto.

La realizzazione di un albergo all’interno del Theater District rappresenta il coronamento della carriera per David Rockwell. Il percorso professionale del fondatore di Rockwell Group, infatti, si snoda su un doppio binario: da un lato il mondo del teatro e dall’altro il settore dell’hospitality. Portano la sua firma, ad esempio, il progetto per il Dolby Theater a Hollywood e, in tempi più recenti, quello per il rinnovo dell’Hayes Theater, sempre a Manhattan. Tra gli ultimi interventi curati dallo studio in ambito ricettivo ci sono invece i ristoranti Casa Dani e Zaytinya, entrambi a New York City, e il Nobu Hotel Barcelona. Zaytinya, dove si possono gustare i piatti dello chef José Andrés, è un locale sofisticato dove il legno di rovere sbiancato dialoga con le finiture in bronzo, il tutto ravvivato da tocchi di colore blu a richiamare le acque del Mediterraneo. A Casa Dani, che prende il nome dallo chef Dani Garcìa, gli avventori vengono guidati lungo un percorso che inizia da alcuni ambienti più raccolti per arrivare all’ampia sala concepita come se fosse una terrazza esterna. La cultura spagnola incontra quella giapponese al Nobu Hotel Barcelona, che cattura l’essenza del capoluogo catalano e al contempo riflette lo stile di accoglienza della catena alberghiera.

 

 

INTERVISTA

IL GENE DELLA CURIOSITÀ

David Rockwell
Founder and President, Rockwell Group 

«Siamo guidati da una profonda curiosità per il mondo intorno a noi. Questo ci mantiene aperti a tutta una serie di possibilità per i nostri committenti e per noi stessi». Come si applica questo manifesto al vostro processo creativo e al vostro metodo progettuale?
La mia irrefrenabile curiosità di esplorare ogni cosa non è mai cambiata da quando ho fondato Rockwell Group quasi 40 anni fa. Quando ho avviato lo studio, avevo ben chiaro di non voler confinare l’attività a un particolare settore della progettazione. Ho sempre desiderato scoprire le opportunità insite in ogni progetto, fare la differenza, dare vita a qualcosa di nuovo, mai realizzato in precedenza, a prescindere dalla scala o dalla tipologia dell’opera. Questo senso di curiosità ha portato il nostro studio a sviluppare un approccio interdisciplinare, che vede una pluralità di professionalità e talenti collaborare e sperimentare insieme, e questo ci consente di proporre idee innovative per ognuno dei progetti su cui lavoriamo. La scintilla creativa è il motore di molte delle nostre realizzazioni e viene sempre incentivata. Per questo, abbiamo dei team di progetto che sono un mix tra profili senior e junior, professionisti più esperti e più freschi, che hanno una formazione più specializzata e più ad ampio raggio, sognatori e pragmatici. I membri del nostro staff possiedono in sovrabbondanza il gene della curiosità, sono molto disponibili e hanno una passione sfrenata per le nuove idee.

 

Il Civilian Hotel sorge a pochi passi da Broadway e custodisce le opere di vari artisti talentuosi. L’architettura presenta un forte carattere di concretezza e permanenza nel tempo, mentre il teatro è per definizione un luogo legato a un’esperienza fugace. Come si mescolano questi due aspetti nel progetto e, più in generale, nel suo percorso professionale?
Il progetto del Civilian Hotel combina le mie due grandi passioni: il teatro e l’architettura. La mia prima volta a teatro risale a quando sono andato a New York City per cenare al ristorante Schrafft’s e poi vedere lo spettacolo di Boris Aronson Fiddler on the Roof, nella stessa sera. Quell’evento è stato davvero il seme da cui è germinato il mio desiderio di raccontare: entrambe le esperienze mi hanno profondamente emozionato e trasformato. Nella mia carriera ho progettato centinaia di spazi e ho lavorato a più di 60 produzioni teatrali e non ho mai percepito l’esistenza di un confine tra teatro e architettura: il progetto, così come la pièce teatrale, è guidato da una narrazione.

Al Civilian volevamo che l’interior design avvolgesse il pubblico e lo trasportasse in un mondo speciale. Abbiamo perseguito questo obiettivo con ogni materiale e ogni elemento architettonico, dalle camere da letto concepite come dei camerini, alla lounge e al bar ispirati agli spazi dietro le quinte – con quell’atmosfera malinconica creata dalle luci sommesse – fino alla Olio Collection, che include opere fisse e a rotazione di artisti teatrali emergenti e affermati. Tra le camere e le aree comuni dell’hotel, si contano più di 250 opere d’arte inclusi schizzi, modelli, fotografie, costumi di scena, murales e arredi su misura, che raccontano oltre cento anni di storia di Broadway. È bello poter dare un senso di permanenza nel tempo a questo lavoro, che di solito per il pubblico svanisce non appena la produzione mette in scena l’ultimo spettacolo.

Ogni spazio al Civilian porta gli ospiti dietro le quinte: quanto del lavoro che avviene nel backstage dovrebbe essere svelato (o meno) da un progetto di interior design?
In una struttura ricettiva, un buon ristorante oppure un buon albergo, tutto sta nel raggiungere un equilibrio e un bilanciamento tra il menu, il servizio e il design, per raccontare una storia completa di tutti gli aspetti. Nei ristoranti, invitiamo il pubblico a essere parte di qualcosa offrendogli più input su cui potersi ingaggiare. Una cena non consiste soltanto in quello che si può vedere nella sala, ma è anche coreografia e movimento, riguarda il progetto della cucina, la funzionalità, la distribuzione dei tavoli e delle sedute, l’acustica, il servizio e, naturalmente, il menu. Una delle ragioni per le quali adoro progettare ristoranti è perché amo il rituale di andare a cena fuori: salutare gli amici all’ingresso, essere accompagnati al tavolo, condividere i piatti, osservare i movimenti dei camerieri e, se sei fortunato, poter vedere la cucina, dove il lavoro di backstage viene mostrato appieno.

Gli interni del ristorante Zaytinya del Ritz-Carlton di New York presentano una palette di colori neutri con accenti di blu in omaggio alla cucina mediterranea dello chef José Andrés, mentre il ristorante Casa Dani, che fa parte del Citizens food market a Manhattan West, celebra la patria culinaria di Dani García con una sala concepita come il tradizionale cortile di una casa spagnola. Quali sono i principali “ingredienti” che utilizza per sviluppare un concept unico e rappresentativo per ogni progetto?
Il fatto che ogni progetto nasca dall’idea di un racconto è un fattore fondamentale che attraversa tutto il nostro lavoro. Iniziamo sempre il progetto di un ristorante pensando al punto di vista dello chef e alla sua storia, e a come questi elementi danno forma all’esperienza degli ospiti dal momento in cui varcano la porta di ingresso fino a quando se ne vanno. A Zaytinya, volevamo invitare le persone a partecipare a qualcosa di speciale facendoli sentire trasportati dalle emozioni. Ci siamo chiesti: «Come possiamo rendere questo spazio il più autentico possibile, raccontare una storia?». Lo abbiamo fatto con le lampade a sospensione in tessuto dipinte a mano con decorazioni ispirate alla vegetazione mediterranea e realizzate da Alpha Workshops (organizzazione non profit statunitense che offre formazione e occupazione nelle arti decorative a persone con disabilità, ndr). E lo abbiamo fatto attraverso il monumentale e splendente bancone bar, la cui parete di fondo, disegnata su misura con un motivo composto da dischi in vetro su due tonalità di blu, sale incurvandosi fino al soffitto. Brilla come un faro nella strada e rappresenta il cuore di questo ambiente, creando un senso di armonia che si percepisce senza nemmeno esserne consapevoli.

Lo chef Dani García, invece, dopo aver ricevuto la terza stella Michelin per il ristorante che porta il suo nome a Marbella, in Spagna, voleva ripensare il suo approccio alla cucina gourmet con la creazione di Casa Dani al Citizens New York. Come suggerisce il nome, il cuoco intendeva mettere in piedi un ristorante più personale che celebrasse le sue origini andaluse. Le pareti della sala sono rivestite con piastrelle caratterizzate da texture preziose, mentre il soffitto è ondulato e dinamico, e a pavimento sono presenti mattonelle rustiche in terracotta. Queste, insieme alla rigogliosa vegetazione, danno l’impressione di cenare su una terrazza esterna. Il caminetto di colore verde richiama l’immagine delle piante di ulivo e la freschezza degli ingredienti che caratterizzano il menu dello chef Garcìa.

Il Nobu Hotel Barcelona, che nasce dal rinnovo dell’ex Gran Hotel Torre de Catalunya, combina elementi iconici dell’architettura spagnola – in coerenza con il contesto geografico in cui si inserisce – e della tradizione artigianale giapponese, in onore dello chef Nobu Matsuhisa, co-fondatore di Nobu Hospitality. Quanto si è rivelato complesso stabilire un dialogo corretto tra queste due culture, che sembrano così diverse l'una dall’altra?
Come studio, proviamo sempre a spingerci oltre e non abbiamo timore di prendere dei rischi sul piano della creatività. Abbiamo giocato con l’idea di incorporare nel nostro concept la tradizione artigianale e le tecniche costruttive giapponesi, come il kintsugi (un’antica pratica che consiste nel riparare oggetti in ceramica, utilizzando l’oro per saldare insieme i frammenti, ndr). Siamo stati ispirati dalle opere che Antoni Gaudí ha progettato in tutta Barcellona, in particolare il Park Guëll, dove si trovano mosaici realizzati con la tecnica del trencadís, che prevede l’assemblaggio di cocci di ceramica irregolari per creare forme geometriche colorate. L’unione di queste due arti ci è sembrata naturale e sapevamo che avrebbe colto appieno l’identità unica della committenza facendola sentire davvero in un luogo suo.

La storia e i ricordi giocano sempre un ruolo importante nel costruire la narrativa di un progetto. Nel 2024 Rockwell Goup celebrerà il suo 40esimo anniversario. Come si è evoluto lo studio nel corso degli anni e qual è la sua visione per il futuro?
Abbiamo iniziato con i progetti nel settore dell’hospitality: Sushi Zen (1984), il primo Nobu restaurant (1994) e W New York (1998). In questi 39 anni di attività, ci siamo costruiti una posizione autorevole inglobando numerose idee e stili di progettazione, e occupandoci di varie tipologie di committenti e progetti. Oggi, siamo 300 tra architetti, designer, artisti, scenografi e figure addette allo sviluppo strategico aziendale, negli uffici di New York, Los Angeles e Madrid. Nel corso del tempo, è stato affascinante osservare come abbiamo abbracciato l’idea di accoglienza e l’abbiamo riproposta in tanti altri contesti, dalle scuole agli ospedali, agli uffici.

Luogo: New York, USA
Committente: SIXTY Hotels, Joy Construction
Completamento: 2022
Superficie lorda: 6.794 m2
Progetto architettonico e degli interni: Rockwell Group
Responsabile di progetto: David Rockwell
Consulente per l'illuminazione: Focus Lighting
Appaltatore principale: Joy Construction

Tutte le immagini courtesy Rockwell Group

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