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Sindromi, influenze e progetti

Peter Cook

Sindromi, influenze e progetti
Scritto da Peter Cook -

IL MARE

A questo punto della mia carriera, mi piace rintracciare nelle località di mare la fonte delle stravaganze, degli aspetti casuali, temporanei o eccentrici che caratterizzano i miei gusti architettonici. Nelle città di mare, infatti, si compie tra estate e inverno una metamorfosi naturale. Nel Nord Europa le condizioni atmosferiche non invitano a scendere in spiaggia, ma già dall’inizio di marzo si scorgono i primi segnali di ottimismo: qualcuno comincia a dipingere le staccionate o altro e alla fine di marzo si aprono le tende da sole di cotone o di plastica e i frangivento. In aprile cominciano ad accendersi luci colorate. Nei mesi seguenti la città diventa più grande e animata, più illuminata e rumorosa e il suo aspetto si trasforma: quindi con Plug-in City ho in pratica realizzato l’intuizione inconscia - o consapevole - di una città metamorfica. Il critico d’arte e teorico Reyner Banham aveva descritto il Santa Monica Pier come il prototipo di una megastruttura e molti membri di “Archigram” collezionavano quegli inutili oggetti in vendita nelle località balneari. 

Era come se la costa inglese, con la sua patina vagamente volgare, di cattivo gusto o “alternativa”, suggerisse all’individualista un modo diverso di godersi la vita urbana. Naturalmente non si trattava di una situazione né rivoluzionaria né radicale: gli inglesi non amano le posizioni radicali. La vera ragione per cui sono attratto da questi luoghi è dovuta probabilmente al fatto che mi sono molto familiari: dei dieci posti in cui ho abitato prima di compiere vent’anni quattro erano città di mare, fra cui Bournemouth, dove ho iniziato i miei studi di architettura. Lavorando sulla spiaggia, vendendo frutta e gelati in una roulotte di metallo, ho fatto la mia vera esperienza di vita in una “capsula”: io con sessanta vespe e la frutta e ogni tanto un genitore arrabbiato che veniva a lamentarsi perché avevo venduto al suo bambino una pesca andata a male! Era come se la vera vita là fuori sulla spiaggia si svolgesse sulla luna, o in un’area contaminata: i miei primi esperimenti di progettazione urbanistica li avevo fatti sulla sabbia, disegnando strade con un bastoncino, ma non avevo imparato a nuotare. La mia capsula era il mio mondo, fatta eccezione per le chiacchiere con i miei amici studenti che venivano a trovarmi per mangiarsi una banana gratis. 

LA SINDROME DI ARCHIGRAM 
Fu inevitabile a questo punto trasferirmi a Londra per studiare all’Architectural Association. Questo mi permise di entrare realmente in contatto almeno visivo e uditivo con quella generazione di architetti inglesi che, diversamente dal passato, venivano presi sul serio dal mondo esterno. C’è, inevitabilmente, una grande differenza fra l’essere influenzati dall’opera di qualcuno attraverso un articolo oppure incontrando la persona in carne ed ossa. È lì che noi di Archigram abbiamo conosciuto Eduardo Paolozzi, straordinario scozzese dal nome italiano che dietro la possanza fisica univa ironia e sensibilità, o Cedric Price, frequentatore di principesse, attrici e drammaturghi, non solo attivista convinto della causa socialista, ma probabilmente l’unico vero filosofo dell’architettura della nostra generazione. Il rapporto di Price con Archigram, anche se stretto, somigliava più a quello di un divertito cugino che a un legame tra fratelli. Dopo tutto Archigram era un gruppo sgangherato, una squadra piuttosto che una famiglia, anche se andavamo abbastanza spesso tutti assieme, mogli incluse, ai concerti degli Yes, dei Band, di Miles Davis, della Average White Band o dei Manhattan Transfer. Warren Chalk era il più vecchio (aveva dieci anni più di Mike Webb) ed era molto brusco con coloro che non lo conoscevano bene. Pittore e percussionista jazz, probabilmente era di tutti noi il meno portato per il disegno, anche se era in grado di sintetizzare un modo di pensare in un disegno elaborato: fu lui, dopo tutto, a progettare la copertina di “Archigram 4”. Mentre Ron Herron era il più dotato, veloce ed elegante disegnatore che io abbia mai incontrato. Anche David Green aspirava ad essere pittore, mentre gli altri, Dennis Crompton, Mike Webb ed io, avevamo preso subito la strada dell’architettura, con passione. Anche se non condividevamo i gusti in fatto di abbigliamento, musica, ragazze e cibo, ci univa il desiderio di mettere in discussione la “convenzionalità del comfort” dell’architettura inglese e perfino di superare le teorizzazioni degli Smithsons da un lato o di James Stirling dall’altro. David si ispirava ai poeti beat, Mike a Buckminster Fuller e a Warren, Ron e io discutevamo se non fosse ora di confrontarsi con “Frühlicht” di Bruno Taut. La pubblicazione “Archigram” , da cui abbiamo preso il nome, illustra le tappe della nostra evoluzione: il primo numero è una strampalata esternazione studentesca; il secondo una raccolta di brevi saggi con illustrazioni e per questo numero Mike, David ed io (il più giovane) abbiamo richiesto la partecipazione di Ron, Warren, Dennis e Cedric Price. Il terzo sviluppava in modo retorico il tema dell’impermanenza, l’idea di un’architettura “non fatta per durare”. Il quarto numero, probabilmente il più emblematico, prendeva spunto dal modo di rappresentare le città del futuro dei fumetti americani, sottolineandone l’affinità con le idee di Taut e dei suoi seguaci. Sul quinto numero che si occupava di “urbanistica” invitavamo tutti a “inviare un disegno”. Il sesto era una ricerca seria sui trascurati “anni Quaranta”, curata da Warren, che aveva vissuto il periodo da adolescente. Gli Archigram successivi approfondivano il dibattito sulla vegetazione e perfino sulla “dissoluzione” dell’architettura. Caratteristica del gruppo era la produzione di opere individuali o nate dalla collaborazione fra due, tre o quattro colleghi. Mike proseguiva con i suoi “Auto-environments”, Ron progettava “Walking City”, tuttora l’icona più evocativa di Archigram, Dennis “Computer City”, David il “Living Pod” ed io le varie iterazioni di “Plug-in”: la città, l’università e ulteriori “Clip-on”. 

I progetti dei colleghi fungevano sia da incoraggiamento sia da stimolo: come in ogni buona scuola, accanto al cameratismo si inseriva anche una certa competitività. Una volta realizzato un progetto il miglior apprezzamento possibile da parte di un compagno del gruppo era “questo li sconvolgerà”. La precisa identità delle persone da sconvolgere non fu mai ben definita, ma in linea di massima si riferiva ai presuntuosi e a coloro che producevano architettura formale. 

LA SINDROME AA 
Vorrei ora continuare a parlare della Architectural Association, ma più che dell’influenza esercitata su di me quando ero studente, vorrei raccontare di quando ritornai come insegnante. Ripensando al passato, sono state le lezioni di storia di John Summerson e di urbanistica di Arthur Korn ad affascinarmi, non meno dei saggi critici di Peter Smithson. John Killick e James Gowan sono stati i miei tutor migliori e al mio ritorno, all’età di 27 anni, adottavo come insegnante i loro manierismi autoritari ma appassionati, invitandoli poi come critici.

Per quanto concerne il mio lavoro creativo, quella scuola era particolarmente significativa per le seguenti caratteristiche: era un “terreno di coltura”; c’era sempre qualcuno dietro l’angolo più in gamba di te; valorizzava il talento degli studenti stimolandoli a passare rapidamente all’insegnamento. Questi aspetti hanno favorito l’interazione di Archigram e OMA, di Libeskind e Zaha, di Tschumi e Peter Wilson, oltre a molti altri, rendendo questa scuola un simbolo di pluralismo. Sfortunatamente sembra che poche buone scuole abbiamo attualmente la forza o l’intelligenza di promuovere un tale pluralismo. Fungeva, inoltre, per i componenti di Archigram da contesto in cui sviluppare le loro idee ed era, per me, l’ambiente dove scoprire nuovi alleati. Vorrei far notare che l’intervallo di età fra Peter Smithson e me è di poco superiore a quello fra me e Zaha: 14 anni di differenza rendono possibile una forma di “collaborazione” che forse è più difficile per la generazione intermedia. 

HAWCO AND FRIENDS
Intorno al 1975 Ron ed io decidemmo di partecipare al concorso per Roosevelt Island a New York, infrangendo virtualmente una delle regole della scuola. D’accordo con il tutor Ingrid Morris, invitammo i nostri sei migliori studenti ad interrompere gli studi per cinque settimane e a unirsi a noi. Il risultato fu un interessante intreccio di forme meccanicistiche, di vegetazione e romanticismo. Quasi tutti i componenti di quel gruppo sono poi diventati famosi professionisti: Keith Priest, Penny Richards, Gerry Whale, John Robins, Tom Heneghan e Christine Hawley. Gli ultimi due diventarono addirittura importanti docenti e in particolare Christine rivelò un talento speciale nell’inserire quello che in seguito avremmo definito “meccanismo lirico”. Era già conosciuta nei circoli Archigram come “la migliore studentessa di Ron” e aveva infranto numerose regole avendolo avuto come tutor per quattro anni consecutivi. Dopo il Roosevelt abbiamo realizzato insieme svariati progetti che includevano reti, grotte e forme tentacolari che sono evidenziate al meglio nel nostro progetto per la Trondheim Library. Dopo qualche anno, molti concorsi e parecchi progetti per abitazioni, siamo approdati a Osaka, Berlino e Francoforte. Anche in questo caso, come nel periodo di Archigram, il lavoro di gruppo si è avvantaggiato dal percorso parallelo di nostri progetti individuali, con un importante effetto “rimbalzo”. Un progetto fondamentale per me fu la serie “Arcadia”, una forma di narrazione urbana basata su categorie sociali: gli “hip”, i “combattivi”, i “vecchi pieni di ricordi”, i “romantici” e così via. In questo periodo emersero alcuni significativi giovani protagonisti come CJ Lim, che insegnava con Christine alla Bartlett, e in seguito Gavin Robotham, con cui condivido lo studio CRAB. Negli anni 1990 insieme a Lim e Robotham realizzammo come “Hawco” (il nome scherzoso che ci eravamo dati) tre progetti per concorsi di cui quello per Bad Deutsch-Altenburg è stato per noi particolarmente significativo. Una caratteristica del nostro lavoro più recente è l’uso di pannelli in lamine d’acciaio: usati come sfondo nel Padiglione di Osaka (costruito), come guscio nel nostro prediletto (ma non costruito) Langen Glass Museum e come serie di pannelli in diverse posizioni nei quattro elementi del Parco Museo di Bad Deutsch-Altenburg. 

LA SINDROME BARTLETT 
Dopo la nomina a professore di architettura alla Staedelschule di Francoforte ho continuato a insegnare all’AA con Christine Hawley, trascorrendo due terzi del mio tempo a Londra e invitando in Germania molti personaggi londinesi come critici o conferenzieri. Faceva parte dei compiti di un professore tedesco collegare l’attività didattica e quella costruttiva e partecipammo a parecchi concorsi che sembravano sempre organizzati in modo tale che il vincitore fosse il nome più prevedibile. Stavo per sposarmi con la mia ex studentessa Yael Reisner (un grande rischio a livello individuale sia dal punto di vista architettonico che romantico) quando il suo suggerimento che potevamo anche vivere a Francoforte provocò in me una reazione istintiva: “No, non voglio lasciare Londra”. Perché? Semplicemente perché a Londra si trova la più ricca e cosmopolita varietà di persone e movimenti. Francoforte, anche se è migliore della sua fama, era troppo “provinciale” per me. Il problema si risolse quando James Gowan fu incaricato dalla Bartlett School dell’Univeristy College di Londra di proporre qualcuno che potesse far rinascere la scuola e lui propose me. In otto anni e mezzo avevo portato la Staedelschule a livelli internazionali, ma con un tetto di 30 studenti. Una grande scuola era una sfida. Una grande scuola che aveva smarrito la strada, a sette minuti a piedi dall’AA, era una sfida molto stimolante. Entrambe le istituzioni esistevano da circa 140 anni e il luogo comune era che la AA fosse d’avanguardia e la Bartlett colta ma noiosa. Andai velocemente all’attacco, introducendo venti insegnanti part-time (dodici provenienti dalla AA) e riorganizzai la struttura didattica articolandola in unità in cui anche gli insegnanti giovani potessero avere un ruolo importante. Miravo, anche in questo caso, a un insieme fertile e differenziato. A livello egoistico mi sento stimolato al meglio dalle persone che intorno a me portano avanti i loro lavori, non i miei, e credo fermamente nella competizione fra insegnanti e fra studenti. Soltanto una persona con un buon spirito di osservazione può cogliere davvero il legame creativo fra l’attività accademica e l’attività di progettazione. Ci sono molti aspetti nella gestione di una scuola, manipolativi e creativi, che traggono beneficio dal processo di revisione come avviene durante la nascita di un progetto. Nei sedici anni trascorsi alla Bartlett venne a crearsi nuovamente l’inebriante sensazione di sapere che c’erano parecchie persone in giro più in gamba di te. Inoltre l’incoraggiamento a mantenere un contatto di tre giorni al mese con la Staedelschule mi consentì di conoscere personalmente la bravura di Enric Miralles, la cui passione per il sigaro ha favorito la sua amicizia con Cedric Price, così che le giurie di Francoforte si sono ulteriormente arricchite. 

COLIN E GAVIN
Persudemmo Colin Fournier (che da giovane “ufficiale” di Archigram era stato molti anni prima un protagonista chiave del progetto Montecarlo) a venire alla Bartlett e istituire un corso di Disegno Urbano. Aveva costruito in Arabia Saudita un’intera città portuale petrolifera ed era stato tutor di successo alla AA, ma languiva da qualche parte in Austria. In seguito decidemmo di partecipare al concorso per la nuova Kunsthaus di Graz, che doveva inserirsi in uno spazio ristretto ai piedi della collina del castello. Il nostro progetto non fu scelto, il sito era comunque sbagliato, ma poi abbiamo partecipato con grande interesse al nuovo bando per la Kunsthaus da collocare su un’area più ampia lungo la Mur. Vincemmo su 103 progetti e la scelta di Graz nel 2003 come “Città della cultura europea” ci diede immediatamente l’impulso a partire con i lavori. Il progetto si era sviluppato in modo tradizionale: ci riunivamo nella stanza di Colin alla Bartlett ogni giorno alle sei del pomeriggio per degli incontri della durata di due o tre ore. Avevamo radunato un gruppetto di studenti brillanti e abili al computer che avrebbero elaborato le nostre decisioni nella nottata. Di questi Niels Jonkhans, un olandese che parlava tedesco, fu e rimase la nostra ancora di salvezza. Dopo un mese che cercavamo una soluzione a “scatola e rampa” ci rendemmo conto che stavamo progettando qualcosa di complicato. Un giorno, appena riuniti, ci domandammo: “di cosa c’è bisogno in realtà?” “SPLAT”: dobbiamo riempire la zona come se versassimo del ketchup; dobbiamo creare la sensazione di un mistero nascosto, sopraelevato rispetto al piano stradale; gli edifici dovrebbero avere un accesso semplice, tramite tapis roulant, che sale da un evidente punto di ingresso. La forma a bulbo sembrò inevitabile. L’idea degli ugelli fu mutuata dal precedente progetto della Kunsthaus. Ed ecco fatto (a parte cinque settimane di revisione continua)! Punti di forza furono la chiarezza del progetto e la bravura dell’ingegnere Klaus Bollinger. Infatti, tutte le proposte presentate, anche quelle dei più famosi concorrenti, con punte, strati e altre bizzarrie, sembravano di difficile realizzazione. 

Da allora credo che la mia identità possa facilmente essere riassunta da una formula che talvolta uso all’inizio di una lezione per fare la parodia dei giornalisti superficiali: “Giovane P. Cook = Plug-in City…Vecchio P. Cook = Kunsthaus Graz… e adesso potete andare!” Insistono poi nel definirlo un “edificio Archigram” e invece non lo è. È passato del tempo, è cambiata la realtà ed è maturata la consapevolezza dell’idea di architettura come teatro. Inoltre l’idea e il progetto sono il frutto della collaborazione paritaria fra me e Colin Fournier. È poi ricomparso all’orizzonte un altro collega, Gavin Robotham che lavorava a Londra dopo aver terminato la specializzazione ad Harvard. Avevamo collaborato molto bene nei tre concorsi con Chistine e CJ Lim, e un altro amico, Salvador Perez Arroyo, professore madrileno che veniva spesso in visita alla Bartlett, ci incoraggiò ad aprire uno studio. Con il suo aiuto abbiamo progettato un condominio a Vallecas, periferia di Madrid, lavorato a un masterplan per il vicino comune di Pinto e a diversi altri progetti spagnoli. Entrambi insegnavamo ancora ed eravamo in collegamento con parecchie scuole e lentamente riuscimmo a riunire intorno a noi un nucleo significativo. 

LA SINDROME CRAB
Il lavoro in Spagna andò a monte in seguito alla ben nota recessione economica. Sopravvisse parzialmente solo il complesso abitativo di Vallecas. I disegni del progetto rivelano un provocante sistema di imposte, un centro sportivo in copertura e una serie di chioschi situati nello spazio sottostante i pilastri dell’edificio sopraelevato. Come a Graz l’idea era di inserire la strada nell’edificio. Il progetto Pinto in realtà consisteva in un intero complesso di edifici simili con passerelle di legno a incoraggiamento dei flaneur come elementi costitutivi di una parte vitale della città. La costruzione fu interrotta a metà altezza. Il costruttore aveva fatto bancarotta e così il cantiere rimase fermo per più di un anno. Per completare il progetto si trovò alla fine un costruttore di Barcellona che tagliò tutti gli orpelli e usò un materiale di rivestimento più economico così che quello che doveva essere “l’edificio blu numero 3” (gli altri erano il complesso residenziale Berlin Lutzowplatz e la Kunsthaus) non era poi così blu. Il risultato tuttavia suscita problematiche interessanti. Io non mi do pace perché sono convinto che le attività in copertura e a piano terra fungano da catalizzatori sociali oltre a vivacizzare l’edificio in modo organico. Le imposte non sono solo elementi sofisticati ma anche componenti allegre. Il blu si contrappone all’eterno rosso mattone, colorazione che imperversa nella Madrid periferica. D’altra parte gli appartamenti funzionano, i tre grandi pozzi di luce sono luminosi e caratteristici, le scale e i balconcini hanno un’aria vivace (oserei dire “marina”) e forse un giorno i chioschi apriranno e animeranno questo unico punto di vita nella squallida atmosfera di Vallecas. Un’altra questione riguarda l’essenzialità: sono essenziali solo le pareti, le porte e le finestre oppure un edificio è un amalgama di elementi maggiori e minori che forzano gli eventi e stimolano l’azione? Penso che possiate indovinare la mia risposta. Come la maggior parte degli architetti partecipiamo a parecchi concorsi e a questo riguardo posso fare alcune osservazioni. Nel periodo di “Archigram” vincemmo un concorso molto importante per un parco divertimenti a Montecarlo. Diventammo, oltre a un bureau d’étude, uno “studio vero” e ci unimmo a Frank Newby (l’ingegnere amico di Cedric e James Stirling). Dopo quasi tre anni di lavoro ci rendemmo conto che il principe Ranieri aveva perso interesse al progetto. Ci domandammo che differenza avrebbe fatto se fosse stato costruito. Saremmo diventati un grande studio? Avremmo sperimentato meno? Nemmeno i progetti vincitori di “Hawco” (per le case solari in Germania e il parco Bad Deutsch-Altenburg) furono realizzati, e quando il progetto di Graz andò a buon fine riuscivo a fatica a crederci, anche se Colin e io non ci abbiamo ricavato nemmeno un centesimo. Una delle “vittorie” che ci ha dato più soddisfazione come studio CRAB è stato il teatro di Verbania. Ma l’Italia è l’Italia e non se ne è fatto niente. Un altro progetto (non vincitore) che amiamo molto è quello per Birmingham New Street. In termini di ideazione ha una meravigliosa progressione caleidoscopica di colori che si riflette su quella città piuttosto grigia. Analogamente sono ancora affascinato dalla stecca del Taipei Music Center, caratterizzata da una progressione di colore e da una progressione formale/geometrica in contrappunto fra loro. Il successo della Vienna Law School e della Bond University Architecture School deriva in parte dall’esperienza quotidiana di come si articola la vita universitaria e di come si focalizza in entrambi i casi nello spazio interstiziale, nei corridoi, negli “incavi” e negli “angoli nascosti”, e da un approfondito senso della teatralità. 

Siamo a un punto di svolta. Talvolta è difficile che ci invitino perché non è facile classificarci, ma abbiamo la sensazione che finalmente stiamo sfondando. Sono sempre più convinto che i progetti implichino una narrazione oltre ai manierismi. Sempre più il “teatro del quotidiano” diventa una spinta motivazionale fondamentale. 

È stimolante confrontarsi con il puro talento nel design di Gavin Robotham e con la sua capacità di valutazione. Fanno parte dello studio CRAB Mark Bagguley quale artigiano-costruttore, la meticolosa Jenna Al-Ali, anche lei con un’ottima capacità di valutazione, Lorene Faure abilissima al mouse e eccellente illustratrice e infine Ting-na Chen, lo stratega par excellence. Abbiamo ricreato la situazione del “più bravo dietro l’angolo”.

Peter Cook

(Melbourne - on tour)

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